29 luglio 2015

"Non è che l'inizio" di Gianni Quilici



foto da: Non è che l'inizio
di Rosanna Moncini



Ho letto e apprezzato il tuo libro, ecco alcune impressioni.

Lettura scorrevole, dialoghi serrati, descrizioni del quotidiano anche in particolari insoliti ma veri, tanti piccoli “scenari” che si susseguono e mutano rapidamente senza annoiare, linguaggio cinematografico(?),  sullo sfondo la città conosciuta ma al tempo stesso “scoperta”.

Il protagonista che si muove in modo frenetico negli spazi e  nell’indeterminatezza dell’esistenza ( lavoro, rapporti, scena politica) alla ricerca di riconoscimenti- affermazione di sé che non si realizza  mai pienamente. Tutto ruota intorno a lui, c’è solo lui sulla scena, gli altri sono solo comparse non significative.

 La  passione sia letteraria che cinematografica che spesso affiora, fa pensare alla cultura da autodidatta, forse per questo più viva e sentita (bella la definizione di libri come “grappoli inesauribili di desideri”).

Il sesso consumato male, la solitudine dei corpi che non si incontrano e comunicano, la tristezza  del rifiuto, il desiderio mai appagato che diventa ossessione, continua ricerca.

La descrizione “spietata” della realtà degli incontri senza compiacimento senza “abbellimenti”.

Figure femminili di poco spessore , donne oggetto sessuale tutte  culo, tette e cosce ,quasi volgari…. ambigue e contraddittorie nel farsi desiderare e poi sottrarsi, di un pragmatismo misero, brutale…in contrapposizione alla donna idealizzata  e irraggiungibile, anche lei,  però, poco definita poco interessante per il lettore, non c’è una Anais Nin per Zeta.

Descrizione della realtà scolastica senza idealismi missionari, scene quasi surreali ma reali a volte quasi comiche, di una comicità che  diverte di più chi è estraneo all’insegnamento, ma  meno chi è passato per simili esperienze.

 Spero che il tuo lavoro continui proficuo.

Gianni Quilici. Non è che l'inizio. Tra le righe libri. Euro 13,00

28 luglio 2015

Su Giorgio Manganelli



nota di Davide Pugnana

Nella saggistica italiana, pochi hanno avuto il senso della forma e della "sprezzatura" nel cesello come Giorgio Manganelli. Ogni sua pagina sembra uscita dal lavorio di un maestro orologiaio, nel senso che sul suo tavolo il meccanismo della lingua non aveva segreti, e dove l'intuizione finiva iniziava l'artigianato di alto bordo.

Lo ricordava anche Pietro Citati. Il quale diceva, a mo di confronto, che parlando, Calvino si inceppava, si interrompeva, emetteva frammenti e rottami aforistici:
… ma Manganelli parlava superbamente. Non ho mai ascoltato nessuno parlare così. Come un grande padre predicatore o un papa rinascimentale o un diplomatico secentesco, ostentava gerundi, participi presenti, parole rare, proposizioni subordinate dentro altre proposizioni subordinate, piuccheperfetti, con una esattissima consecutio temporum, nutrendosi avidamente di parole sanguinanti arrosti di sostantivi, colorati contorni di aggettivi, folleggianti salse di verbi e di avverbi. Lo straordinario era che, in lui, il pensiero più sottile e complicato diventava subito, senza un attimo di incertezza e di dubbio, forma verbale: a tal punto la sua mente era dominata dall'istinto formale.

Questo eloquio splendidamente rotondo si rispecchia nel ritmo della pagina scritta.
Un esempio può essere questo brano di recensione/saggio ai "Tre moschettieri":
 “Ma quando il libro è finito, e i personaggi, i vivi e i morti, si sono congelati dai nostri applausi, abbiamo la subitanea sensazione che qualcosa si corrompa e si disfaccia; di un libro corposo ed aggressivo resta un vortice di ceneri. A questo punto, possiamo porci la domanda: che cosa, esattamente, non resta nelle nostre menti, a lettura conclusa? Non resta la geometria, la disposizione astratta, il disegno segreto, quella sorta di clandestino acrostico, indovinato ma non mai decifrato, che talora rende eterna, nella mente del lettore, la "forma " di un libro di cui ogni dato sensibile sia stato consumato dall'oblio.
(Giorgio Manganelli, "La letteratura come menzogna")

26 luglio 2015

"Dialoghi con Leucò" di Cesare Pavese (2)

saggio di Emilio Michelotti

Ho cercato di decodificare i miti di quest'opera rintracciandone le fonti alle quali ha attinto Pavese stesso. Ho con me cinque delle opere sulle quali egli ha lavorato. Tre sono state poi fatte pubblicare dallo stesso Pavese in collaborazione con Mario Untersteiner nella Collezione di studi religiosi, etnologici e psicologici, codiretta dal 1948 insieme a Ernesto de Martino:
Origini del mito greco  (1944) indicata in seguito con MG e Mitologia Tessalica (1944) indicata con MT, di Paula Philippson
Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia (PRO), di Carl Gustav Jung e Kàroly Kerènyi (1940-41)
Il Ramo d'oro (RD) di James Frazer (1901)

La collana pubblicò anche Figlie del Sole (FS), ancora di Kerènyi (1944) e testi di Freud
Per la stesura di queste note mi sono avvalso anche della garzantina “Enciclopedia dei miti”, di Pierre Grimal (1979)

 PAULA PHILIPPSON
Morta giovanissima nel 1949, svedese. Ha lasciato una traccia fondamentale negli studi mitologici. In MG delinea le caratteristiche peculiari degli universi mitici Tessalico/arcaico e Greco/classico.

Sul tempo mitico
1- c'è un tempo pensabile solo con l'intelletto, l'Essere
2- c'è un tempo cronologico-lineare, il Divenire
3- c'è il tempo simbolico nel quale Essere eterno divino e Divenire si congiungono: un divenire
    sempre uguale a se stesso. In questo incontro (symbolon) l'Aion (l'Eone non misurabile, atempo-
    rale) e Chonos sono una cosa sola.

Per Parmenide l'Essere, che ha la forma della sfera, “Non era mai, né mai sarà, poiché esso è ora, insieme come totalità” (Framm, 8,5 )

Nel tempo-cosmo di Zeus il caos non si distrugge, continua a esistere.

Gli dei olimpici non sono atemporali come le divinità dell'Essere-caos, ma sono immortali (finchè dura il cosmo-tempo di Zeus).

Philippson rileva che in Esiodo dei immortali e uomini nati dalla terra (ctonii) appartengono allo stesso “cosmo di Zeus”. Pavese (mi sembra) ribalta questo concetto della Teogonia: gli uomini arcaici (giganti, lapiti?) appartengono, in qualche modo, al cosmo dell'Essere, atemporale.

Il pensiero greco, in MT, ha forma polare: il mondo è concepito come unità ma in coppie di contrasti (Hera, matronale, ogni anno riacquista la verginità – Apollo, tutto chiarezza e misura, è guida alle incontrollabili Muse, Erinni ed Eumenidi fondano e vegliano sulle città,  ecc. Inoltre ogni divinità è concepita in rapporto polare con un'altra: Artemide/Afrodite; Apollo/Dioniso; Zeus è polimorfo, ecc.)

Allo stesso modo l'Essere atemporale e il Divenire s'incontrano: per questo hanno lo splendore della grazia, il ritmo, la musica (al contrario di altre cosmologie dove essere e divenire sono coinvolti in agoni mortali.
Per le popolazioni egee pre-greche (nell'ordine titanico-ctonio) il toro e il cavallo sono epifanie divine.

Walter Otto (Il mondo greco, 1929), Kèrenyi e Philippson sono i principali teorici del MITO COME INTUIZIONE ATEMPORALE E COME CONOSCENZA DEL MONDO PERENNEMENTE VALIDA, da non considerare come espressione di mentalità prelogica e primitiva in senso evoluzionistico.

Per Philippson (TM) nella fase “tessalica” (arcaica) vi è una lotta violenta e/o sovrapposizione per incorporazione dei culti antichi nel nuovo.

Per Pavese il mito è un “midollo di realtà”, è un “linguaggio che esemplifica globalmente i problemi contemporanei” e che “deve essere attraversato per ridurre a chiarezza il mondo intero” (L'umanesimo non è una poltrona, postumo, 1962).

Arnaldo Bruni (2014) individua due contraddizioni nel Pavese di Leucò (pur avvertendo che l'autore non aspira ad essere filosofo):

  a)-Il mito è una proiezione della mente per esorcizzare i mostri dell'inconscio
  b)- Al tempo stesso sembra un primum assoluto e invalicabile

a)- Il ribellismo conduce all'infelicità
b)- La hybris è irrinunciabile per salvaguardare l'autonomia dell'uomo

Inoltre, per Bruni, Pavese non pare essere riuscito a stare contemporaneamente con i Titani e con l'intelligenza apollinea degli olimpici.

Indica poi quattro dei temi prevalenti: L'ambivalenza del sesso, avvertito come una maledizione (I Ciechi, Le Cavalle), la cultura di sangue che ancora ci accompagna (Il Fiore), il mistero inviolabile del mondo (La Belva), il tempo come immobile (La Rupe)

Mario Untersteiner (Fisiologia del mito, 1946), parla di effetto -Vico. Già nel filosofo napoletano sono presenti concetti come miti=universali fantastici o come miti=riemersione nel presente di stadi antropologici primari originali, perenni. Pavese, mi sembra, riprende dal Vico anche una visione del tempo (corsi e ricorsi) ondeggiante, con direzione ignota e imperscrutabile, per quanto, a tratti, la teleologia marxiana indubbiamente s'affacci. Quello che attira Untersteiner, nei dialoghi sull'uomo (gli ultimi quattro soprattutto) è, infatti, la componente filosofica: l'immortalità degli dei è ancora più tediosa e frustrante della fragile e limitata esistenza umana.

Emilio Cecchi (1950), parla di abbozzi incompiuti, inespressi, esoterici, provvisori, sommarii, scheletriti. Mi permetto di dissentire dall'insigne studioso. E' per giudizi come questo che il capolavoro pavesiano è stato misconosciuto per oltre trent'anni. I limiti che Cecchi segnala appaiono oggi i maggiori elementi di fascino di Leucò.



 EUGENIO CORSINI (1964)
Mi convince la sistemazione che questo critico dà alle fonti usate da Pavese e alla loro caratterizzazione. Maria Luisa Premuda (Annali della “Normale” di Pisa, 1957) aveva sostenuto la derivazione quasi integrale del materiale mitologico dal Ramo d'oro di Frazer o che, comunque, questo sia filtrato esclusivamente dall'etnologia. Riprendo da Corsini la suddivisione delle fonti, partendo dal  primo gruppo, etnologico. Ossia i dialoghi sulla terra, la fecondità, la vegetazione, il raccolto, la propiziazione magico-rituale (sacrifici umani, falò, lustrazioni). I miti, cioè, dell'indistinto, del primitivo, dello stupore, del caos. Questo gruppo è caratterizzato dall'assenza di contrasto fra mondo caotico, primordiale, e mondo degli dei, la legge.
Dei assenti, oppure interpretati secondo moduli dell'etnologia, ossia come proiezioni dell'istinto magico di propiziazione, della paura e della superstizione. Anche i “mestieri” ritenuti primitivi fanno parte di questo gruppo, caccia e pastorizia (Uomo lupo, Madre, Fuochi).
Infine il grande tema della morte. Perché c'è morte e morte: in Pavese il termine, sulla scia dei grandi indagatori della religiosità antica del suo tempo (Jung, Kerènyi, Philippson) ha doppia valenza semantico-simbolica. Ti riduce, ancora durante l'esistenza, a un'ombra che vuole affannosamente continuare a vivere. Oppure suscita l'invidia degli dei, condannati a una fittizia eternità e incapaci di rinnovamento.
     
Il secondo gruppo è la scoperta del mondo classico (I dialoghi degli dei),ed è caratterizzato da un contrasto profondo fra mondo del Caos e Legge, fra cosmo informe e forma. Pavese dichiara esplicitamente la dipendenza delle Cavalle da Origini e forme del mito greco della Philippson (TM), ma l'influsso è evidente in tutto il gruppo di miti. Un esempio dell'incorporazione del mondo vecchio nel nuovo: nella Rupe “Non si uccidono i mostri, non lo possono neppure gli dei
E' però alle Figlie del sole di Kerènyi che spetta il maggior contributo ai “Dialoghi”: si tratta dei miti solari mediterranei. “ Da Kerènyi, Pavese ha mutuato il concetto del mondo olimpico come mondo eterno dell'ora che ha l'epifania specifica nel sorriso perenne”, che si trova in tutti i dialoghi salvo in quelli “etnologici”

I

Al terzo gruppo appartengono I DIALOGHI DEGLI UOMINI, caratterizzati dal taedium vitae, dall'angoscia per l'ignoranza del proprio destino, dalla consapevolezza della morte come portatrice di nuova vita. Gli uomini sono i veri protagonisti di questi dialoghi, esseri che racchiudono in sé il mondo caotico-titanico e il cosmo sereno dell'ordine e dell'armonia. “L'arco della vita”, dice Sergio Givone nella sua introduzione, “non fluisce nel nulla ma approda a una nuova immortalità tutta terrena e immanente” UN NUOVO UMANESIMO? In effetti, quella che colpisce il lettore è la latente o dichiarata invidia degli dei per la condizione umana

Lascio doverosamente la successione dei dialoghi com'è decisa da Pavese, ma metto fra parentesi la data di composizione com'è indicata dallo stesso autore e segnalo il gruppo di appartenenza come indicato da Corsini.

Nei “Dialoghi” agisce sempre una coppia di voci, l'una rappresenta slancio, giovinezza, azione, mito che nasce, epos. L'altra il ricordo di uno slancio ormai spento, un mito già chiuso, un'elegia. Ma la frattura è sottile, spesso i due movimenti s'invertono. Sempre presente il rifiuto dello stereotipo mitico.
Pavese, inoltre, fa sua e utilizza ampliamente la scoperta novecentesca dell'”inversione mitica dei personaggi” (da positivo a negativo e viceversa. Per un esempio banale basti pensare all'evoluzione di una figura come Artemide-Diana-Erodiade-Befana, avvenuta in epoca moderna e al rinvenimento, ad opera di Carlo Ginzburg di un universo mitico (I Benandanti) che considera positivamente la stregoneria in pieno Settecento).

LA NUBE  (21-27 MARZO 1946)  -  MONDO AURORALE DEGLI DEI
Issione, in Pindaro (Le Pitiche, IV) è il progenitore - empio per il connubio con Nephele, una nuvola cui Zeus aveva dato l'aspetto della sua sposa Hera allo scopo di sottrarla alle sue mire – di centauri violenti e stupratori. Falso, dice Pavese nel preambolo, anche se non nega l'audacia folle di quel primordiale uomo imbestiato. Il dialogo coglie l'istante nel quale Zeus, con la violenza, s'è impadronito del potere, l'istante nel quale “c'è una legge che prima non c'era”. Il rapporto sensuale fra Issione e Nefele ha fatto fino a quell'istante parte “di quel mondo titanico cui era consentito alle nature più diverse di mischiarsi”. Da ora “ci sono dei mostri”, ora chi accarezzasse un compagno potrebbe strozzarlo (il male nasce nell'istante nel quale lo concepiamo come tale). Anche la morte nasce in quell'attimo, una morte che non è rinascita come quando “era il vostro coraggio”, ma ti riduce a “un'ombra che rivuole la vita” . “Sei tutto nel gesto che fai” dice Nefele: nel caos ogni azione è scopo a sé, senza giudizio di valore. Per Philippson (MT) “il mito che sul Pelion congiunge la Nube-immagine di Hera con Ixion appartiene a uno strato mitico recente”.
                                                                                                                      
LA CHIMERA (12-16 febbraio 1946)  -  MONDO DEGLI DEI OMERICO
Il dialogo è fra Ippòloco e Sarpedonte, ma il vero personaggio è Bellerofonte, padre del primo e  zio del secondo. Tutti provengono dal mondo caotico, da una “stirpe di uomini antichi, di un tempo mostruoso”. Tutti costoro, compreso l'eroe Licio Sarpedonte che morirà giovane a Troia, “hanno violato molti confini”. Bellerofonte, l'uccisore della Chimera e vincitore sulle Amazzoni per ordine “superiore”, è vecchio e pezzente, “sconta” la sua audacia e “si sente imbestiare”, per questo non vuole morire . Gli dei, i nuovi padroni, sono crudeli. Non può, del resto, uccidersi, perché “la morte è destino” non si può che augurarsela ( la morte è destino nel cosmo-caos di Bellerofonte. Si può imbestiarsi – è quello che teme Bellerofonte, oppure cessare di vivere, svanire come entità). Ippòloco, il moderato, è portatore di un'etica ligia al dovere e all'ubbidienza: “La terra ora è giusta e pietosa, non bisogna mettersi contro gli dei”. “ No, ribatte Sarpedonte, l'orrore rimane, ritorna, è sempre presente, non si può liberarcene. Di questo,  del vecchio ordinamento ancestrale anche siamo fatti.

I CIECHI  (5-8 luglio 1946)     MONDO DEGLI DEI SOFOCLEO
Tiresia è l'indovino per antonomasia del ciclo tebano. Il dialogo è appena anteriore alle sventure di Edipo. A seguito di questo “a costui si aprirono gli occhi, e lui stesso se li crepò dall'orrore”. Si apre con l'ipotesi dell'invidia degli dei da parte di Edipo. Ma per Tiresia gli immortali  sono maestri d'illusione, sono illusori essi stessi. “Prima del tempo regnavano le cose stesse”, e in fondo è ancora così: quel che accade non dipende dagli dei, non è valutabile. Accade.
Ma, soggiunge Edipo, gli dei spiegano, danno un senso, le cose devono averlo.
Tiresia, che diventò donna per aver ucciso un serpente femmina (Frazer,RD), sa che nulla è più forte della pulsione sessuale. E' la vita e insieme la morte. E' una condanna. E' una metà che appare un tutto, è un fastidio, anche un po' disgustoso (forte, questa presa di posizione - di Pavese? - mah?). Ma Edipo è, per ora, sicuro di sé, della sanità e sicurezza della sua sessualità. Ma Tiresia sa: solo i ciechi possono capire l'orrore che Edipo sta per conoscere.


LE CAVALLE  (25-26 febbraio 1947)       MONDO DELLE DIVINITA' TESSALICHE

                                                              “Il libro della Philippson (TM) mi ha fatto un grande effetto
                                                                                               Il dialogo Le Cavalle ne è tutto intriso
                                                                                                               (lettera a Understeiner, 1948)

Ermete ctonio, qui psicopompo- accompagnatore delle anime, e il Centauro Chirone parlano della vicenda di Coronide, sedotta, uccisa e bruciata da Apollo, nonché della sorte del loro figlio Asclepio. Costui, fondatore di medicina e farmacopea, è un essere semidivino, ambiguo, in bilico fra natura caotica e umana. Ermete si dice comunque convinto che il mondo guidato dalla legge divina sia migliore di quello in cui le nature si mischiavano, indifferenziate.
Chirone, il centauro buono, saggio e mite perchè senza passioni, dal fondo dell'eterno atemporale sa che l'Olimpo, come ogni storia, avrà la sua fine. Sa che i nuovi dei tessalici devono distruggere perché sono la morte (essendo immortali non vivono, non c'è vita senza la morte) . Sa che dentro ciascuno persistono voglie bestiali e furori sanguigni. E con questo?

                 
IL FIORE (28 febbr. 2 marzo 1946)                 IL SORRISO DEGLI DEI
Da Kerènyi e Jung (PRO)
Il dialogo è fra i “leopardiani” Eros e Tànatos. Si narrano l'amore mortale di Apollo per  Giacinto. Il “Radioso” scese dall'Olimpo per giocare col bellissimo giovane al lancio del disco. Per sei giorni, dice Eros, è vissuto nell'ombra di una luce e non gli è mancata una gioia perfetta. Finché il disco rimbalzò uccidendo di colpo il giovane. Il sangue colato dalla ferita si trasformò in un fiore nuovo, “chiazzato” (forse il  giglio martagone). Eros il vitale è, fra i due, ovviamente,  più duro con gli dei,  di Tànatos, il mortifero: “Quando un dio si avvicina a un mortale segue sempre una cosa crudele”. Il dio dell'amore ricorda anche le vicende di Dafne, trasformata in alloro e di Atteone, il giovane allevato da Chirone poi sbranato dai cani perché Artemide si vendicò per essere stata vista nuda. Per capriccio, per crudeltà. Perchè “gli Olimpici durano in un mondo che passa”. Essi non esistono. Sono. Per far nascere un fiore sono capaci di uccidere un uomo, eppure non sanno che per nascere occorre morire.

LA BELVA  (18-20 dicembre 1945)    MONDO DEL CAOS INDISTINTO (Frazer, RD)
Autobiografico? Fa parte, con La madre e Le streghe, del gruppo originariamente iniziale, scritto nel dicembre del'45. Sulla scena Endimione e uno Straniero (presumibilmente Ermete, aiutante psichico). Il primo ha scelto, nel mito che lo caratterizza, di poter gustare il piacere di un sonno perenne. I temi del sonno e del sogno caratterizzano questo dialogo. Endimione-occhi-di-folle si rivela al Passante: siamo come i sogni,  come in sogno percepiamo il mondo esterno a noi, la forza della natura selvaggia. Si è innamorato del sesso impossibile, immaginando accoppiamenti bestiali con l'intera terribilità del divino. Il simbolo di questa bellezza annientante è Artemide (che però è innominabile perché “non ha nomi o ne ha molti”). Ella appare a Endimione, come bacca, come fiore, lupa, daina. Una notte la vede, s'accorge che lo sta guardando, con occhi da belva. Con una voce “rauca, fredda, materna” (Tina?) gli ordina di non svegliarsi mai. Un uomo non può essere né selvaggio né divino, così nessuno ha mai potuto toccarla, “il suo riso annienta”, ed è quel che Endimione vorrebbe, esser carne nella bocca del suo cane. Ma la dea consente solo amori non carnali, infiniti, pieni di grida, di terra e di cielo. A condizione di non svegliarsi mai.

 SCHIUMA D'ONDA (12-19 gennaio1946)- DIVINITA' FEMMINILI EGEE (Jung, Kerényi PRO)
Colloquio marino fra Britomarti, ninfa cretese solitaria, che aveva scelto il mare per sfuggire a Minosse, e la famosa poetessa Saffo. Il temi sono il tedio, l'amore, la condizione di donna. L'egeo è “intriso di sperma e di lacrime”, dove tutto, dantescamente, macera e ribolle senza posa. Come un
inferno: amori, sofferenza, strazio. Donne impiccate, abbandonate, assassine, belve. Come la dea inquieta e angosciosa che vi nacque, Afrodite, che sorride da sola. Solo Elena, la Tindaride, ne uscì illesa, dopo aver seminato l'incendio e la strage.

 LA MADRE (26-28 dicembre 1945)  - “ETNOLOGICO” DEL I° GRUPPO – (Philippson,MT)
Ancora Ermete protagonista di un dialogo con Meleagro. Costui è figlio di Altea. Quando aveva sette giorni, le Moire predissero a Altea che la sorte di Meleagro era legata a un tizzone che stava bruciando nel focolare: se il tizzone si fosse consumato interamente il piccolo sarebbe morto. Altea trasse il tizzone dal fuoco e lo conservò in una teca. Meleagro adulto volle liberare il Paese da un grosso cinghiale selvatico. Con lui c'era anche una cacciatrice venuta dall'Arcadia, Atalanta. Meleagro ne era innamorato e convinse gli altri cacciatori a farla partecipare, per quanto fosse donna. Fu proprio lei a ferire il cinghiale, mentre Meleagro lo uccise e ne fece omaggio ad Atalanta. Ne nacque una zuffa con gli zii, che Meleagro uccise. Altea, la madre, indignata, gettò nel fuoco il tizzone magico e Meleagro morì. Poi s'impiccò. Non così per Pavese: nella sua versione la madre, ancora viva, invecchia con Atalanta, la quale ha ucciso Meleagro, o meglio la sua ombra sbruciacchiata, una seconda volta. Il tema potrebbe essere le madri assassine, ma anche “uccidere o far nascere, che cos'è più grave?”, o ancora: esistere come spettro, è molto meno di una vita”normale”?

  I DUE  -  (18-20 gennaio 1946) -   MONDO DEGLI UOMINI,  umano troppo umano, anzi eroico
Vigilia della morte di Patroclo. Colloquio con Achille. Temi: amicizia, mondo dell'infanzia, ricordo come immortalità (“Quel che è stato sarà ancora”), timore della fine. Achille, al contrario di Meleagro, dal fuoco è stato “temprato”, reso quasi immortale. Patroclo, da mortale, è attaccato alla vita, attratto da una vita operosa e per questo non è, secondo Achille, un buon guerriero. Ma anche Achille, che fa l'eroe, sa che solo da ragazzi il pensiero della morte non ci sfiora, e l'imminenza della battaglia lo porta dentro al più triste dei pensieri. La notte  passerà impaziente e forse, l'indomani, dice Achille abbandonandosi fatalisticamente, si rivedranno  nell'Ade.

LA STRADA  (7-12 aprile 1946)  -  MONDO DEGLI UOMINI AL CROCEVIA DELLA SFINGE
Colloquio fra Edipo e un mendicante. Tema: tutto è destino, anche il desiderio di scampare al destino. Al mendicante che invita Edipo a scrollarsi di dosso l'orrore delle sue gesta compiute senza volere, il re di Tebe oppone la sua certezza esistenziale: il crimine non scelto, non voluto, ma compiuto volendo fare il bene, rappresenta la più atroce delle tragedie, il più ingiusto segno della condizione umana. L'impossibilità di prevedere, oltre un incerto confine, il segno reale delle nostre azioni, è un limite inaccettabile, per Edipo. Ancora peggiore è il destino di chi, come lui, è stato attratto proprio da ciò che voleva evitare a tutti i costi. “Stetti sempre all'agguato, e non scampai”, come se ci trovassimo sospesi nell'abisso, con tutte le energie tese ad evitarlo e con tutta la forza del desiderante mistero ad attirarci nella catastrofe. Il saggio mendicante gli ricorda, però, che tutto quello che siamo è uscito dal nulla  e che, come tutti,anche lui ha giocato, amato. Nessuna vita è da disprezzare. Forse. Il mio parere è che Pavese voglia dirci  che perfino in un personaggio segnato dal destino come Edipo, c'è ancora una qualche possibilità di scelta. Temere troppo il destino, credere alla sua onnipotenza, è aiutarlo a compiersi. Sperare, invece, nella possibilità di sfuggirgli ci eleva al di sopra della misera condizione data.

LA RUPE  - (5-8 gennaio 1946)   -  MONDO DEGLI DEI TESSALICI E DEI TITANI
 Dialogo  di Eracle e Prometeo sulla rupe caucasica, che avviene nell'era di mezzo, fra quella dei “mostri che non possono essere uccisi”, che sempre esisteranno finché qualcuno li pensa e quella nuova “della legge” e “dell'ordine”, della norma condivisa. Eracle si è assunto il compito di liberare Prometeo, ma accompagna questa azione – pietosa – con l'uccisione del più mite dei Centauri, Chirone. E' stata la crudeltà di Zeus a esigere lo scambio? E quando si spezzerà la catena che impone morte contro morte, da quando gli dei nuovi hanno preso il comando? Pro-meteo, il pre-veggente, sa che l'era della divinità riconosciuta avrà termine, “il mondo ha stagioni come i campi e la terra” non finirà invece la natura primigenia: “nulla si fa che non ritorni”, perché l'unica verità è il nome, “non altro” perché “non ritornano i sassi e le selve. Ci sono.”(Il cosmo autentico è quello originario-indistruttibile. La legge e l'ordine sono “sovrastrutture” temporanee, etica e morale comprese)

 L'INCONSOLABILE – (30 marzo-3 aprile 1946)   L'UOMO RITROVATO
Autobiografico: “Ero quasi perduto e cantavo/ Comprendendo ho trovato me stesso”
Dialogo fra Orfeo e Bacca,  una menade. Il tracio, cantore e viandante dell'Ade, narra la sua scelta umana, la sua volontà di respingere, con Euridice ormai in preda dell'orrore del mondo infero, la morte, intesa come bramosia di sopravvivere al di là del proprio destino, come dimensione del nulla. “Intravvidi il barlume del giorno. Allora dissi <> e mi voltai”. La menade, donna di Tracia, non teme nulla di ciò che è umano, convinta che l'ebbrezza renda l'antitesi morte-vita null'altro che un binomio. Questo anche pensava Orfeo, prima di questa discesa all'Inferno-infanzia, ritorno alle origini, al primitivo; prima di vedere il nulla in faccia, che gli ha fatto ritrovare se stesso. Dopo lo smarrimento nell'inconscio, nell'irrazionale e nel mostruoso è risalito alla misura umana o forse ultraumana di un cosmo sereno. Per Bacca la strada più rapida è però fatta d'ignoranza e di gioia. Lasciarsi riempire di una sapienza che non sa ma può, aprirsi alle cose come un albero, un fiore, “un seme che raccoglie, in embrione, la potenza inconsapevole di tutto il passato e tutto il futuro” (Kerényi, La Kore, PRO).

L'UOMO-LUPO – (15-16 marzo 1947)

                                                                                                     Gli dei non ti aggiungono
Puoi scegliere                                                                                                     né tolgono nulla.
Finché non hai deciso
di non scegliere più.
Se dici” io sono così”                                                                             
hai fatto il tuodestino                                                                                                       Solamente d'un tocco leggero
 
                                                                                                   t'inchiodano  dove sei giunto.
                                                                                                     Quel che prima era voglia,
                                                                                                     era scelta,
                                                                                                     ti si scopre destino
                                                             Understeiner ha messo in versi un passaggio de L'uomo-lupo,         
                                                                  “quel brivido trasformatosi in limpido fluire lirico”

Il dialogo è fra due cacciatori.  Hanno ucciso un uomo o una bestia?
Che i mostri e le storie di un tempo siano fra noi lo testimoniano i protagonisti di questa vicenda di sangue, ambigua e spiazzante. I due amici hanno ucciso una bestia che, si dice, forse fu un uomo. Che cos'è che segna il confine? C'è ancora, dunque, memoria di lui come umano: fu Licaone, un cacciatore a sua volta. Dei due, uno tende a negare l'umanità della preda: si racconta che cuoceva i suoi simili. L'altro ne è convinto: nessun uomo vorrebbe ridursi simile a lui, che visse torvo e inumano al punto che il Signore dei monti ne fece una belva. “Chi è mostruoso è stato punito”è la tesi del senza-cuore. Ma i tronchi e le belve, ribatte l'altro, vivono bene così: si accovacciava sulle rupi, ululava alla luna. Un privilegio? Non sappiamo, però non c'è racconto nel quale una bestia o una pianta abbiano voluto diventare uomini. Callisto, sepolta su quello stesso colle, fu trasformata, da donna bella che era, in orsa. Non è colpa degli dei se gli umani si cacciano nei guai: ti costringono semplicemente a restare quel che sei diventato. Se Licaone patì come uomo, c'è un lupo dentro ognuno di noi.

L'OSPITE (22-23 febbraio 1947)  GRUPPO “ETNOLOGICO” DEI MITI CTONII
(Frazer, RD). Litierse, figlio di re Mida, è il “mietitore” per eccellenza. Invitava gli ospiti a mietere a gara con lui, poi, risultando sempre vincitore, tagliava loro la testa e spargeva brandelli del cadavere sui campi per fertilizzarli. Invitò Eracle, considerando la sua forza e la quantità e potenza del suo sangue, per avere un raccolto eccezionale. Eracle accettò la sfida e la vinse. Il mito racconta che poi addormentò Litierse con un canto e tagliò la testa a lui, liberando il mondo dalla necessità dei sacrifici umani. Il canto fu tramandato dai mietitori frigi fino ad epoche storiche.
“Rosso di pelo”, Eracle era provvidenziale dal punto di vista di Litierse. Ma l'ospite fa domande imbarazzanti sul parere degli dei, dice che non hanno bisogno di sangue. Chiarisce anche che il risultato della cerimonia non è la morte ma un ritorno alla Madre. Suggerisce anche che sarebbe posssibile, da quando il mondo è retto da un'altra legge, porre fine alle uccisioni e al tempo stesso avere il grano abbondante. Litierse è adattissimo allo scopo, essendosi “nutrito, risalendo ai suoi padri, di tutti i succhi delle stagioni” da bastare una volta per tutte. Eracle è venuto apposta dalla Grecia per compiere quest'ultimo sacrificio.

I FUOCHI – (18-21 settembre 1946)   “ETNOLOGICO”  SACRIFICI UMANI E RIVOLUZIONE
Tutte le civiltà contadine praticarono sacrifici umani, poi trasformati in riti simbolici. Parlano due pastori, padre e figlio. Hanno acceso un falò in onore di Zeus, offrono a Lui latte e miele, mentre spruzzano acqua sacra sul terreno, in direzione del mare. Confidano che qualche allevatore ricco abbia sacrificato un vitello. Il padre ha vivo il mito del re Atamante (Frazer, RD). C'era una tremenda siccità e i falò non bastavano. Bisognava scannare qualcuno, gli dei stessi lo comandavano. I popolani insorsero, presero Atamante e lo buttarono sul falò. Venne giù un'acqua così forte che spense il falò e il re fu salvo. Il padre ha la sua spiegazione: fra dei, re e padroni s'intendono, si tengono mano. Se fosse stato uno storpio, sul rogo, lo avrebbero lasciato bruciare. Ora non hanno neanche più bisogno di farci arrosto, basta che ci guardino come siamo ridotti. Si accontentano di un capretto, come prima bastava un uomo per ogni montagna. Fanno bene i padroni a mangiarci il midollo. “Bagna le frasche e spruzza...O Zeus, accogli quest'offerta..”

L'ISOLA – (8-11 settembre 1946) - L'UOMO ODISSEO E COLEI CHE SI NASCONDE
Calipso è una ninfa, in alcune versioni figlia del Sole e di Perseide, una sorella di Circe. Vive in una grotta profonda nell'attuale Circeo, allora circondato dal mare. Tutto lì è splendido: giardini spontanei, frutti, fiori, sorgenti, un bosco sacro. Fila e tesse con le schiave (ninfe), cantano mentre lavorano.(Kerènyi, FS) E' la felicità? La condizione è molto diversa e viene allo scoperto nel confronto con Odisseo. Le parole non hanno lo stesso significato per chi “accetta l'istante che viene e l'istante che va, non conosce il domani, non spera di vivere né di morire”. L'ebbrezza, il piacere, la morte, non hanno scopo se non in sé.
Per Odisseo,invece, è immortale chi non teme la morte. Smania, non vuole accettare una sorte predeterminata, come i vecchi dei che il mondo ignora, sprofondati nel tempo come le pietre, come Calipso stessa. Non sfugge al rimpianto perchè crede nel divenire, crede nel ritorno dei giorni felici.
Calipso ascolta il silenzio, il nulla, perché crede che nulla torni ad essere. E' ormai quasi-nulla essa stessa, un'ombra. Quando Odisseo partirà sarà un risveglio, da lei temuto come dagli umani la morte
                                                      
                                        Non restava di me su quest'isola
                                        che la voce del mare e del vento.
                                        Oh, non era un patire.
                                        Dormivo. Ma da quando sei giunto
                                        hai portato un'altr'isola in te.                                Ora sa di essere morta
 

IL LAGO – (28-30 giugno 1946)   “ETNOLOGICO”   ispirato dal “Ramo d'oro” di Frazer
 Virbio, come ci dice anche Pavese, è la reincarnazione latina di Ippolito, il sempre-vergine. L'antitesi psicologica di Afrodite-Venere, Artemide-Diana , è a colloquio con lui sul lago di Nemi. Ippolito-Virbio è nella condizione di un'anima trapiantata in un paradiso estraneo e ignoto, non cercato. “Se non ci fossi, questa terra sarebbe ugualmente com'è”. E' il paese infantile, un tempo desiderato, rivelatosi snaturante come la morte. Si può vivere senza ricordi, come le belve, sempre inseguiti, in una solitudine estrema? Sentirsi sciogliere lentamente nella natura incontaminata, diventare vento, lago, bosco, passare fra le cose come una nuvola, nemmeno sapere di esistere?
Un mortale ha bisogno di sentirsi scorrere il sangue, misurarsi da pari a pari con gli animali selvatici, abbracciarli e ucciderli fraternamente. Chiede di vivere, non sa che farsi di quella felicità.


LE STREGHE – (13 dicembre 1945)    CIRCE, LEUCO' E LA “QUESTIONE UMANA”
E' il primo dei Dialoghi, scritto da Pavese a seguito della lettura dei Prolegomeni di Jung e Kerènyi. 
Circe è Figlia del Sole, con Hera e Medea (Kerènyi,FS, La Maga). Un Sole al femminile, grande dea mediterranea. Dalla madre le figlie ereditano la doppiezza: benefattrici e distruttrici.(Le figure preclassiche non sono state quasi mai accolte come tali nella letteratura classica) Il dominio di Circe-maga ha a che fare con la sfera ctonia ed è anche ètera mortale che seduce gli uomini. In quanto maga sta sotto il segno della volontà di potenza. Appartiene alla profondità terrestre, perché indica a Odisseo il cammino verso l'Ade. Quella di una dea che “tesse e scioglie nascite e morte”, dice Kerènyi, è mitologia pre-omerica, caratteristica dell'antica Italia. Circe opera una magia che non attiene alla sostanza, perché lascia intatta la ragione dei trasformati (“uno strazio”, le fa dire Pavese).
Leucotea, la dea bianca (o del cielo nebbioso), oggi regredita come Circe, è ninfa marina. Fu Ino prima di gettarsi in mare per sfuggire a una strage familiare ad opera del consorte Adamante (in seconde nozze, la prima sposa fu Nefele, la Nube-Era).
Circe non è riuscita a imbestiare Odisseo (“che stupendo maiale” aveva pensato) perché l'eroe era immunizzato contro gli incantesimi. Fu piuttosto lei a restarne incantata e, pallida, gli si gettò ai piedi. Poi fa la superiore e dice a Leucò che gli dei “recitano”, che non si prendono mai sul serio. Non almeno quanto gli umani che hanno ripulsa “del già fatto o saputo”. Anche nella loro banalità quotidiana per gli uomini “tutto è inedito”. Perfino la morte “li illude che porti un cambiamento”. Non sono né bestie né dei. Il divino è più distante dall'umano che dal bestiale; le bestie “mangiano, montano, non hanno memoria”. Gli uomini, invece, ricordano, danno un nome alle cose e persino agli dei. Nessun dio si può fare uomo eppure (allude Pavese) sarebbe una “novità che spezza la catena”.
L'errore di Circe, secondo Leucò, è non aver fatto capire a Odisseo che essa intrattiene rapporti bestiali con i trasformati. La cosa avrebbe forse convinto lui a lasciarsi imbestiare, perché così sono gli umani, avidi di novità. Di immortale hanno solo il ricordo, nomi e parole, di fronte alle quali sorridono anche loro.

IL TORO – (11-18 agosto 1946)               EROISMO DIVINIZZATO (Kerènyi,FS)
Lelego, il nato dal suolo (che ha nel dialogo il ruolo d'intermediario col lettore) e Teseo, di ritorno da Creta, sono approdati e in vista di Atene. Teseo è l'eroe attico che corrisponde a Eracle, eroe dorico. E' crudele verso il padre, gli ha fatto credere di essere morto, sperando che il re si uccida dal dolore per prendere il suo posto. E' il destino degli eroi incrudelirsi così? Forse, ma egli è reduce da vicende terribili, Dall'uccisione della Scofa di Crommio, al tentato avvelenamento ad opera di Medea, all'abbattimento del toro di Maratona (narrato da Callimaco). Soprattutto, le vicende di Minosse e del  Minotauro, la fuga dal labirinto, il tormentato rapporto con Ariadne. E' trasformato, insuperbito, terrorizzato, da quando ha capito che perfino gli dei immortali possono essere uccisi da un altro dio. Così sta avvenendo sul monte Ida. Lì ogni cosa è diversa che nell'Attica: le donne non stanno al telaio, stanno a prendere il sole, rincorrono i tori, cercano amplessi bestiali. Perché Creta è così? Perchè un tempo lì c'era un unico Dio al femminile, una Dea Madre, il Sole, la Natura, che è benefica ma può essere distruttrice. Per questo in quell'isola “hanno il sangue guasto”. Ora i due pensano alla Straniera, Ariadne, docile come l'erba e con un “ansito di belva acquattata” che lasciò il suo mondo di caos per seguire Teseo. Ma anche Ariadne era “sangue dell'isola”, per questo Teseo l'ha abbandonata. C'è un culto nuovo, un nuovo dio, Dioniso, “dolce, ambiguo e dolente”, morto ma portato in grembo dalla Dea Sole, che sta per rinascere. Teseo non ha dubbi né rimpianti: il dio consolerà Ariadne “come cavallo o montone, lago o nuvola”. Anche Teseo s'è imbestiato: quel che si uccide si diventa, in quell'isola.

IN FAMIGLIA – (21-24 febbraio 1946)       GENEALOGIE D'IMMOR(T)ALI
Dialogo fra Castore e Polideute (Polluce).
La casa degli Atridi è un santuario dell'omicidio e del tradimento. I due fratelli di Elena ricordano le discendenze di Micene e di Sparta, da Tantalo che cucinò il figlio per imbandirlo agli dei, ad Agamennone che sacrificò (o tentò di farlo) sua figlia Ifigenia, poi inumato con una maschera d'oro, al matricida Oreste. Ma, soggiunge Castore (il più duro), anche Elenuccia nostra com'è che si comporta così, è possibile che capitino tutti a lei gli spostati dell'Egeo e dintorni, da Teseo a Paride? (Chi si somiglia si piglia). A gente come quella, che vive chiusa nelle rocche ammucchiando oro,grassa e sospettosa, si confà la donna selvaggia e altera.
E' una catena di ritorni senza fine, sembra, “come se lo stesso uomo ricercasse sempre la stessa donna”. I tiranni cercano donne che li frustino.
Ippodamia, un'altra loro sorella, fece uccidere il padre all'auriga Mirtilo (sorridendo gli disse che il padre Enòmao la insidiava). L'auriga, vedendosi giocato da Pelope (figlio di Tantalo e marito di Ippodamia), reagì con violenza. Ma bastò che Ippodamia dicesse a Pelope, il marito, “lui sa tutto di mio padre Enòmao (sa che con stratagemmi impediva ai pretendenti della figlia di vincere alla gara coi cavalli alla quale li sfidava), per calmarlo.
Anche le donne che per natura si si sottometterebbero,in quelle condizioni, si scatenano. I Pelopidi (la famiglia di Pelope e Ippodamia) hanno bisogno di violenza, hanno sete di furia. Anche Aèrope (Erope), madre di Agamennone e Menelao, si gettò in mare, dopo però aver istigato Tieste (fratello di Atreo) a rubare i tesori di famiglia. Anche la bellissima Elena, sorella dei due dialoganti, (l'opinione ora è concorde) ha occhi freddi e omicidi, che non si abbassano. Come quelli di Ippodamia, due buche feritoie.
Non sono, come può sembrare, cose superate, sono attuali, e sempre lo saranno. Uomini così cercano vergini crudeli, come Artemide, per riprodurre sempre il figlio imbandito e le figlie scannate. Di donne docili e vili non nsanno che farsene. (Mah, per chi parlerà?)

GLI ARGONAUTI – (24-25 gennaio 1946) DIVINITA' TERRIBILI E DELLE PICCOLE COSE
Tenerezza di un rapporto tardo e affettuoso. Il dialogo è fra Iasone e Mélita (color di miele, come le sue rocce). Il prodigioso eroe non è che un coacervo di ricordi, vecchio ed esausto, ma saggio.

Ci fu un tempo che il mare era inviolato, c'era una verginità delle cose che terrorizzava, perché tutto poteva ancora accadere. Ma gli uomini erano forti come dei. Nel tempio dell'ètera Mèlita si parla ancora di quei pionieri, si parla della maga e di chi vide i suoi figli sacrificati da lei. Forse i suoi incanti hanno vinto anche la morte. Medea è, in effeti, una dea, figlia del Sole-femmina (Kerènyi, FS, L'Assassina), anche se agisce in uno sfondo di tenebre, “respirava la morte e la spargeva”. “Sembra appena concepibile, se i poeti che concepirono il tragico personaggio non avessero conosciuto il senso originario dello smembramento: nel fratello fatto a pezzi la dea Sole che rinasce, nella omicida colei che la risveglia”(FS).
Iasone le ha chiesto cose impossibili: lasciare la sua gente, accettare una differente sorte: Ma niente sembrava impossibile al distruttore del drago (non per altro si fa il male, per essere divini, per immortalarsi). E la vittima deve essere sempre una donna. Iasone sa perché: si pretende di giacere con una dea e ci si accorge di avere a che fare con carne mortale.  Allora ci si infuria e si cerca altrove un altro dio. La vicenda tragica di Iasone con Medea è appena accennata, nel dialogo. Eppure risalta come l'episodio centrale. E' un colpo di genio di Pavese, la contrapposizione fra la figura possente e drammatica di Medea con quella della piccola e tenera ètera maltese.Una piccola donna, quindi anch'ella una dea.

LA VIGNA – (26-31 luglio 1946)   -  POETICITA' DELLA DIVINITA' SELVAGGIA
Fra Leucò e Ariadne, fra donne, per quanto sulla via dell'immortalità. Il dialogo è, nella parte iniziale, pieno di punzecchiature, di piccoli tranelli verbali, quasi terreno, insomma.
Ariadne, abbandonata da Teseo, sta per essere accolta nientemeno che da Dioniso (come già preannunciato ne Il toro). E' triste e sconsolata presso una landa marina, non conoscendo il suo destino di gloria. Leucò, per quanto diminuita in gradutoria, è pur sempre a contatto col mondo olimpico (è zia di Dioniso, in quanto sorella di sua madre Semele, figlia di Cadmio e Armonia). Rivela ( e il tono si fa solenne, come quando in un tempio attacca l'organo) che il nuovo dio, giovane e imprevedibile, è stato catturato dalla bellezza di Ariadne. Forse l'ha vista in

                                              un vigneto in costa a un colle lungo il mare
                                              nell'ora lenta che la terra dà il suo odore.

E' nato a Tebe. Tutti lo acclamano perché è un dio di gioia, che uccide ridendo, ed è molto potente.
Come sappiamo a Creta, sul monte Ida, nascevano nuovi dei, e tale era considerato da Ariadne Teseo. E' stata da lui abbandonata (come fanno i veri eroi che usano una femmina finché ne han voglia). Ma, è Leucò che parla, resta il meglio: la passione che fa tremare e soffrire, che fa pensare alla morte, che fa sperare nella rinascita a una nuova avventura anche amorosa.
In quanto alla crudeltà, è uno degli attributi di un dio: può annientare chi gli resiste, se questi non lo riconosce come parte integrante di sé. Amare la parte irrazionale di noi è più importante che amare una persona. E' come amare la natura nella sua interezza. Perchè le figure dell'inconscio durano “finché le capre salteranno fra i pini e i vigneti”. E ancora oltre, perché “sulle vigne, di notte, ci sono anche le stelle”

Quello che segue è l'ultimo dei Dialoghi composto, ed è il primo, nella sistemazione definitiva, di un gruppo che mi viene da definire “del nuovo Umanesimo”: gli dei assistono impotenti a una felicità loro preclusa, gli uomini vivificano gli antichi misteri ricreando l'evento originario, dall'irrazionale e dall'indistinto fanno uscire l'armonia della poesia. Per quanto posso capirne mi sembrano fra le pagine più belle lella letteratura poetica del Novecento.
Contengono anche, in forma di prosa poetica, indicazioni per una nuova e moderna teoria del mito.

GLI UOMINI – (31 marzo 1947)
Parlano Cratos – il potere, e Bia – la forza. Potere e forza sono attributi fondamentali della divinità suprema. Le due personificazioni sono figlie di Pallante e Schia, due giganti dell'era caotica. Schia aveva già previsto che Zeus le avrebbe soggiogate. Prima di questo evento la morte non c'era, le cose venivano a fine, ma il tutto viveva.
Eppure il Supremo è inquieto, scende tra gli uomini, si compiace di vigne e città, proprio lui che, indispettito dal risultato voleva (Esiodo, Le opere e i giorni) schiacciarne anche la memoria.
Che ci troverà in questi miserabili che temono la vita e non vogliono morire? Sarà che anche lui morì, come allora toccava agli dei, e fu sepolto. E quando rinacque divenne signore vivendo empiamente fra gli uomini. Ma a quel tempo niente aveva un nome e non c'era nessuna legge. Da piccolo poppava il latte dalle capre, poi nacquero le parole degli uomini, le loro leggi, il dolore, il rimpianto. Così egli divenne per loro la Mente, immortale e inquieta. Ora vagola fra gli umani affascinato da queste parole che rivelano meraviglie, perché venute da chi si affanna e fatica sapendo di patire. Qualcuno di loro osa perfino violare il silenzio dei luoghi selvaggi: è qualcuno che è giunto, con la ragione e la volontà, a varcare un limite. Anche Zeus, negli amplessi, varca il confine, è come uomo ad accostare le donne.
                                                                       Sono poveri vermi, ma tutto fra loro
                                                                       è imprevisto e scoperta. Si conosce la bestia,
                                                                       si conosce l'iddio, ma nessuno, nemmeno
                                                                       noialtri, sappiamo il fondo dei cuori.


IL MISTERO – (6-7 maggio 1946) – ETERNA RIPETIZIONE DEL MODELLO DIVINO
Dioniso e Demetra svolgono un dialogo talmente bello, dalla poeticità talmente elevata, che è un crimine cercare di sintetizzarlo e di “razionalizzarlo” ancora. (Tanto,chi scrive ha molti altri peccati)

Demetra ctonia fu prima dei Tessalici e molto prima degli Olimpici. Nulla mai cambiava, come invece succede ora. L'eternità diventò un'abitudine forzata. Ma con gli uomini
                                                                                  tutto quel che toccano diventa tempo.
                                                                                  Diventa azione. Attesa e speranza.
                                                                                  Dappertutto, dove spendono fatiche e parole
                                                                                  nasce un ritmo, un senso, un riposo.
Vigne, campi, giardini e, soprattutto nomi, che portano il non dicibile nella storia. E il ritmo, che è musica e matematica.
Demetra viene a significare e ad essere simbolo di tutto ciò che è terreno, dalle montagne alle belve, dalla cerealicoltura  alla vita biologica. Dioniso (Iacco è il suo appellativo misterico, nel culto di Eleusi) simboleggia la gioia, l'euforia, la sfrenatezza, ma, essendo in rapporto polare con Apollo, anche la sapienza teologica e scientifica. Ogni simbolo è pertanto duplice, ancipite, porta in sé il suo contrario.
Nel dialogo i due dei portano ad esempi nomi che richiamano sacrifici umani, rituali di sangue: Trittòlemo, il primo seminatore, la Core, vergine figlia di Demetra che muore in autunno e rinasce ogni anno a primavera, Erìgone che, con Icario suo padre, vinificarono per primi e per primi s'immolarono stabilendo la connessione vino-sangue.
Gli uomini arcaici credevano, uccidendo una vittima, di uccidere il dio, anche per cibarsene.
Pavese esplicita qui l'idea che la simbologia religiosa greco-tessalica anticipi e prefiguri il Cristianesimo. Ma non credo nel senso di intuizioni precristiane, delle  quali Simone Weil andava scrivendo in quegli anni,  piuttosto in quello di una continuità simbolica fra archetipi universali di matrice junghiana.   Eternizzazione, rinascita e glorificazione: il vino sarà sangue, il grano carne, che “gronderanno non più per placare la morte ma per raggiungere l'eterno che li aspetta”

IL DILUVIO – (26 maggio-6 giugno 1946)       BISOGNA DIVENTARE QUEL CHE SIAMO
Il dialogo, accorato, è fra Amadriade, una ninfa degli alberi, e un Satiro, uomo-capro, che vedono, desolati, il paesaggio distrutto dal diluvio dall'alto del loro monte. Che faranno gli uomini? Quando non ci sarà più da sperare, dice il Satiro, si daranno ai bagordi, per trovare nell'ebbrezza nuova speranza. La disputa, fra i due, è sui responsabili del disastro: se gli uomini, con la loro sete di dominio, hanno provocato gli dei, o se è il mondo olimpico che, nel timore di un assalto al cielo, lo ha voluto. Sta arrivando la morte per gli umani, ma che cos'è la morte? Non sapere che si è morti? Forse. Trasformarsi in altro? Anche. Diventare dei, dopo avere distrutto tutti gli dei? Possibile. Darsi un passato, facendosi da sé a capriccio? Probabile. Il problema degli uomini è che non lo sanno, di potersi scegliere. Quello che a un immortale è imposto dal destino (la mancanza d'arbitrio, l'essere determinati, necessitati all'immortalità) potrebbero imparare a “viverlo come un attimo eterno” e comprendere che “proprio la loro labiltà li fa preziosi” . I loro istanti sono unici e imprevisti, ma non ne conoscono il valore (noterella: Pavese giunge all'Essere-per-la-morte. Da comunista. Nel '47). Fino ad ora, almeno, fino al diluvio. Il mondo nuovo ha in serbo, per i suoi labili mortali, qualcosa di divino. (distruggere gli dei e prendere il loro posto)

LE MUSE – (30 gennaio- 1° febbraio 1946)    ETERNITA' COME “PASSIONE RIPETUTA”
La vita biologica si riproduce sullo stesso modello – e gli errori, le varianti adattano il modello alla nuova modalità vitale, in qualche modo interpretandolo. Allo stesso modo la memoria fa riemergere l'identico modello mitico, con varianti interpretative nuove. Il mito è metamorfico per sua natura, perchè si serve della facoltà-necessità mitopoietica (il bisogno di raccontare storie).
Mnemosine, eletta da Pavese a unica Musa, perché nel mondo mitico “chi è madre è anche figlia e viceversa”, è fuori dal tempo, però, paradossalmente, esiste. Perché una cognizione dell'atemporalità può essere dichiarata e pensata (come il noumeno di Kant) ma non vissuta. L'atemporalità è, per noi (per il pensoero del divenire), ancora tempo, anche se fuori e al di là del tempo. (per il pensiero mitico, invece, lo è – tempo simbolico=fusione di essre e divenire
Ecco che Esiodo, nel confronto con Mnemosine, che del ricordo impersona il nocciolo, è stupito di fronte al fatto che le stesse cose, rivissute attraverso la lettura rammemorante di Mnemosine, acquistano fascino e verità “come ti dicesse la sola parola che il tuo cuore attendeva”.
Il tempo si ferma, come se il prima e il dopo non esistessero. Perché l'attimo, rivissuto con l'intensità della memoria, ha reso la cosa narrata un modello. Ecco, l'esistenza di Mnemosine è fatta  unicamente di questi istanti di “passione ripetuta”.
Anche noi uomini abbiamo l'immortalità di fronte, sempre, ma non la vediamo (perchè siamo sprofondati nella contingenza): un ulivo, una roccia, un altro uomo (il modello mitico li rende tali - archetipi).
Esiodo non è ancora convinto: il male c'è, ed è reale. Certo, e non è eliminabile. Si tratta di farci i conti. L'uomo è nato e ancora nasce “in una palude di sangue”. Tutta la vita sgorga dal silenzio immobile delle origini e ogni gesto ripete quell'attimo.

GLI DEI -  (9-11 marzo 1947)       

In principio era il Verbo                                                    Genesi
Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus             Umbero Eco, Il nome della rosa
Il nome non è l'ente, non è fondamanto del reale             Aristotele
Il nome e la cosa nascono insieme                                   Cesare Pavese

(Per Eco e Aristotele il nome è da considerarsi senza effetto ai fini dell'esistenza – la rosa comunque ci sarebbe)

A  mo' di postfazione, Pavese riassume i temi dei Dialoghi e dà loro una – provvisoria, forse – sistemazione. E' il dialogo più all'unisono. Due amici, inerpicandosi sulla montagna, si pongono domande non da poco, l'uno quasi a sostegno dell'ipotesi dell'altro. Veri amici, stupiti di fronte al fascino delle cose che compaiono davanti a loro? Personalmente preferisco immaginare una ascesa solitaria e un colloquio con se stesso. Le risposte ai quesiti sono nel consueto linguaggio di Pavese, “ellittico”, per dirla con Calvino. C'è diffenza fra mito e realtà? Intorno a noi vi è ancora il mondo selvaggio, primordiale?
Passo dopo passo lo o gli scalatori sprofondano nel mondo simbolico, nelle credenze più antiche, sempre riemergenti. Non erano più superstiziosi di noi, i nostri antenati. Erano uomini come noi, che cominciarono a raccontarsi storie fatte di simboli, nel tentativo, urgente per chi si pone problemi esistenziali (tutti gli uomini e le donne, nessuno escluso), di ottenere risposte dal mondo esterno elaborate dall'immaginario umano.
Una cosa è certa: quesi nostri lontani antenati “non avevano tempo né gusto per perdersi in sogni”. Narravano quel che vedevano, cose incredibili, ma non si stupivano più di quanto oggi quando sentiamo affermare le banalità più evidenti. E non erano folli, lo siamo noi se non riusciamo a cogliere, in questi luoghi rarefatti un vuoto, come di attesa. Se a questa attesa diamo un nome, se la leghiamo a una storia “l'alito del vento ha più fragore di una bufera dentro il bosco”. Allora quel che una volta è stato tornerà ad essere per sempre. Le domande che la mente si pone di fronte al disagio vanno inevitabilmente oltre la banalità, emergono come quesiti essenziali.
Più sofferenza esige più speranza. Quel che cercarono di tramandarci gli antichi è che c'è qualcosa che a noi sfugge.  Non il cibo o il benessere: l'incontro col mistero che è in noi, che siamo noi stessi.
Per seguire ancora la metafora dell'ascesa in montagna si potrebbe dire che, per Pavese, la nostra era ci coglie, per così dire, a metà percorso. Sta a noi scegliere se salire o ridiscendere. Condizione essenziale per andare avanti è non espungere la nostra origine caotica. Il mostro che abbiamo parzialmente messo a tacere va riconosciuto e, in qualche modo, anche onorato, come insegna Euripide nelle baccanti.

CONSIDERAZIONE FINALE

Perché insisto sulla “rivoluzione umanista” progettata o almeno auspicata da Pavese in Leucò?
Sono convinto che la definizione del mito di Walter Otto e della sua scuola (compresi Jung e Kerènyi), ossia come intuizione atemporale e conoscenza del mondo, stia stretta  a Pavese. Egli punta, mi pare, sulla straordinaria capacità simbolica umana per far leva proprio sui “limiti” della nostra posizione nell'universo (temporale, relegata in un minuscolo pianeta, prigioniera dei suoi stessi pregiudizi, delle sue abitudini e del suo stesso sapere) per scardinarla.  Il “midollo di realtà” che sono i miti può esemplificare i problemi reali della contemporaneità, a partire dalla conoscenza di se stessi per un approccio diverso alle relazioni con gli altri. Capire il grumo d'irrazionale che s'agita nel nostro intimo può condurre al ripristino di una idea dell'uomo come “misura, principio e fine di tutte le cose”. L'uomo non è che un'aggregazione temporanea di atomi indistruttibili – nel nostro tempo-cosmo. Come tutte le cose viene a fine, ma, come tutte le cose, anche l'uomo, nel tutto, con il tutto continua a vivere. La stranezza è che lo sa. Ciò gli permette metamorfosi, elevazioni, regressioni. Gli consente e gli impone domande. Il mito, per chi sa leggervi dentro, contiene le risposte, sempre valide. Insomma, la coscienza della sua ibrida condizione – animale razionale – lo pone al centro del suo tempo-cosmo. Pavese parte da qui per indagare quelle vere e proprie cellule di sapere (cominciare ad indagare) che il mondo greco-latino ci ha consegnato, chiuse al modo moderno d'intendere, ma piene di risposte ai quesiti di sempre.   Esito discutibile?


19 luglio 2015

"Viaggio nel Conero" di Patrizia Manganaro



Mi incammino con la voglia del viaggio, come se dovessi compiere il giro del mondo, ma la mia ferma intenzione è quella di andare al mare, destinazione Parco del Conero, Ancona. Dove di preciso non lo so ancora...ma intanto parto, il sole negli occhi, nella borsa frutta, nella testa una sola parola che rimbomba: vacanza!

                                                          foto Patrizia Manganaro
La corsa è morbida, elastica, flessuosa, come un dondolio...la strada dapprima monotona, le visuali di sempre, campi e case, case e campi che si srotolano giù per le colline, passando per i paesi a me noti, Passo di Treia, Villa Potenza, Sambucheto... Incontro ciclisti in gruppi, mietitrebbie, molte moto che seguono la stessa mia direzione, sento odore di gelsomini, vedo vaste distese gialle di girasoli che mi fanno festa dentro...
 Prendo per la via Lauretana, comincia lo spettacolo diverso di colline, un salirle e scenderle con scoperte di orizzonti ora meno, ora più profondi, con la boscaglia che si infittisce sempre più e diventa densa passata Camerano.


                                                           foto Patrizia Manganaro

Ma quando scavalco il monte mi ritrovo appoggiata sulla costa a picco sul mare, rimango a bocca aperta, il cielo e il mare mi si spalancano davanti e gli occhi non arrivano a guardare anche la strada, no, è troppo bello! Mi devo fermare! Gironzolo prima un po' con l'auto per rendermi conto della zona, c'è anche un utilissimo punto di informazioni a Portonovo, dove la ragazza addetta mi illustra le varie cose da sapere.
                                                         foto Patrizia Manganaro

Scelgo di tornare indietro, al colpo d'occhio iniziale, è lì che voglio andare, voglio raggiungere la spiaggia sottostante attraversando un sentiero ripido. Mi sento in forma. Scendendo il panorama è mozzafiato, attraverso la macchia mediterranea e sullo stradello sterrato e polveroso e pietroso, merita lo sforzo sotto il sole di mezzogiorno, merita davvero.

Alla fine del percorso, il premio è un bel bagno ristoratore nel mare trasparente e libero come la spiaggia. C'è una Comune sulla spiaggia, abitano in una casetta-capanna molto spartana e si occupano di tenere puliti la spiaggia e i servizi igienici. Mi incuriosisce la cosa, mi fermo a parlare con i ragazzi e compro loro una collana di conchiglie per contribuire.
Sono meno in forma quando decido di risalire verso le 14,30, una vera impresa, l'acqua da bere che mi ero portata è calda, un brodino, e la frutta è cotta, ma ci saranno 40°, è normale...
Durante il percorso per fortuna ci sono alcune panche di legno per riposarmi, ne approfitto... Al ritorno niente premio, ma una punizione: la multa per divieto di sosta: non me n'ero accorta...rassegnata alzo le spalle e riprendo la strada, esausta ma felice per avere visto tanta bellezza


Mi dirigo a Sirolo, altra località a strapiombo sul mare, con una piazzetta famosa, almeno nelle Marche, un salottone con vista mare e graziosi vicoli che si diramano da essa: piacevolissima passeggiata, mi compro un cartoccetto di olive all'ascolana niente male per sopperire al saltato pranzo, cammino mangiando e mi godo lo spettacolo dell'estate ancora una decina di minuti, poi mi rimetto in viaggio verso casa, prima che mi appiccichino un'altra multa.

14 luglio 2015

"Dialoghi con Leucò" di Cesare Pavese -1 -


  LEUCO': TRASFORMARE 
IL DESTINO IN LIBERTA'

di Emilio Michelotti

Cerco di avanzare alcune altre ipotesi per una riflessione sul Pavese di Leucò.

Confrontando i “Dialoghi” con gli appunti del diario “Mestiere di vivere”, mi ha colpito l'ambiguità di parole-chiave come morte, destino, tempo, natura, selvaggio.

C'è un dichiarato tentativo di tenere insieme gli opposti (Apollo e Dioniso, sulla scia della Nascita della tragedia).
C'è una volontà di definire l'uomo e il suo posto nei vari cosmi mitici (titanico, olimpico, umano).

Gli anni '45-'47, quelli della scrittura di Leucò erano segnati dalla conclusione – temporanea? - di una guerra sterminatrice e da un grande dibattito teorico sul destino dell'umanità.

L'eretico Pavese apparentemente parla d'altro, snobba la politica che, dopo Auschwitz e Hiroshima, stava dilaniando le coscienze, e approda a questa riflessione inattuale e “provocatoria”.

Anche il confronto sui temi etici e filosofici era più che aperto. Si può dire che Pavese, nel suo modo irregolare e trasversale vi s'inserì, anche con i Dialoghi.

Nel '45 Sartre aveva fatto uscire il testo di una conferenza (L'esistenzialismo è un umanismo), poi pubblicato come volume da Nagel nel '46. E' un vero manifesto del movimento che, in soldoni, dice: L'esistenza viene prima dell'essenza. L'uomo è costretto a inventare l'uomo (norme, leggi). Su di lui ricade la responsabilità totale.

Un anno dopo, nel '47, Heidegger risponde con uno scritto (Lettera sull'umanismo) nel quale rovescia i termini: l'uomo ha spodestato l'essere dalla sua centralità. Quel che conta è l'essere, non l'uomo, che non è il signore dell'essente. Eppure la finitezza dell'uomo, la sua non-potenza, questo “meno”, custodisce “un più”, una grande potenzialità, una “superpotenza espressa dalla libertà”. E' questo, afferma, “un umanismo nel senso più radicale, perché pensa l'umanità a partire dalla vicinanza/apertura con l'essere.

In singolare coincidenza, sui temi dell'apertura e della finitezza ribaltabile in forza, ecco Pavese: In un attimo sarà mattina. Ricomincerà l'inaudita scoperta, l'apertura alle cose. Sono come devono essere: ci passo sopra, le avvolgo, le vivo,come l'aria, come bava di nuvole. Nessuno sa che è tutto qui (Mestiere di vivere, 9 mar, '47).

Sul limite come “privilegio”: A un immortale ciò che è è imposto, la labilità umana è preziosa (Il Diluvio); La libera strada ha qualcosa di unicamente umano (La Strada); A Odisseo il ritorno innumerevole dei giorni non parve mai destino, correva alla morte sapendo cos'era, arricchiva la terra di parole e di fatti (Le Streghe); L'uomo non sa che farsi della morte...i morti non sono più nulla...forse – augura Orfeo a Bacca-Dioniso – un giorno anche tu sarai come un uomo (L'Inconsolabile); Gli dei non ti aggiungono né tolgono nulla, t'inchiodano dove sei giunto. Quello che prima era scelta ti si scopre destino.  In altri termini; se dici: “io sono così”, hai compiuto il tuo destino (L'Uomo-Lupo); Immortale è chi non teme la morte (L'Isola); La morte, ch'era il vostro coraggio, può esservi tolta come un bene...Faranno di te come un'ombra, ma un'ombra che rivuole la vita e non muore mai più (La Nube); La morte è destino, non si può che augurarsela – Nel cosmo mitico-caotico non c'era morte ma metamorfosi (La Chimera); Quando il tempo non era ancora nato. Regnavano le cose, allora – gli uomini possono, ma – gli dei non possono mutarle (I Ciechi); Gli dei sono la morte – essendo immortali non sono mai usciti dal nulla (Le Cavalle)

Pavese questo ci dice: se fossimo immortali saremmo perennemente inespressi .
POSSIBILE AGIRE SUL DESTINO. PASSARE DALL'INFORME ALLA FORMA

“Stetti sempre all'agguato e non scampai...Proprio in quegli attimi – di timore di compiere ciò che egli temeva – si compiva il destino”. Siamo come attirati dalla realtà del male (La Strada); “E' il mondo dei Titani e degli uomini...delle belve e dei boschi...del mare e del cielo...di lotta e di sangue,che ti ha fatto chi sei”.Il cosmo informe è originario.L'ordine è una sovrastruttura (La Rupe)
Pavese ha continuato a elaborare il tema “destino” per anni, fino all'ultimo, nel tentativo di ricongiungere nell'umano rinnovato libertà mito e destino.
Si potrà andare oltre un giorno e considerare anche la libertà un mito? Cioè vederla da un punto di vista in cui anch'essa si scopre destino?
Noi siamo al mondo per trasformare il destino in libertà (e la natura in causalità)”. Leggo così: dopo la rivoluzione scientifica, che ci ha fatto intendere che tutto ha una causa, il futuro compito (metastorico?) è quello di cambiare la nostra essenza – originariamente necessitata come quella dei mostri del caos – in libera ed effettiva possibilità di scelta.  (30 gennaio 1950, MV)

La volontà si esercita sui miti e li trasforma in storia. Destini che diventano libertà”( feb.'50, MV)

E' mai possibile guardare le cose in modo “oggettivo”? Il soggetto dovrebbe spogliarsi della soggettività (vale sul terreno del realismo filosofico come su quello letterario). Liberarsi dalla razionalità faticosamente raggiunta. Provare a sentire coi sensi di una bacca, un albero, una belva. Perché quando dici “vuol piovere”o “è mattino” hai perduto comunque la testa. Odisseo, Orfeo,  scelgono di essere umani, scelgono l'esistere e non l'essere. Non riescono a tenere assieme la ragione e il caos primigenio. Scelgono, è vero, la finitezza della vita contro l'eternità del nulla, ma questa è proprio la scelta dell'animale razionale. Che cos'è che segnerebbe il passaggio alla consapevolezza, l'apertura autentica al mistero della vita, la sapienza dimenticata di essere potenza infinita, custodita dentro un seme ignaro di sé?

Sono sinceramente convinto, a tal proposito, che, oltre le due letture “essoteriche” (Il destino che avvolge inesorabilmente tutto e la libertà di fuoriuscirne col sapere e l'astuzia “dell'umana semenza”) ne sia possibile una terza, talpesca, sotterranea, esoterica, appunto. Pavese era troppo addentro alle religioni greche per credere che quella olimpica fosse molto più di una scorza, una “religione civile”, adatta a tenere assieme le varie poleis; un sistema valoriale ancorato al nomos d'origine divina -per quanto avesse fuso e tenuto sotto controllo le potenze caotiche. I misteri, orfici, dionisiaci e soprattutto eleusini sono descritti da tutti gli autori che Pavese ha frequentato in quegli anni come la vera cultura religiosa greca, almeno dal VI secolo.

Ipotesi estrema: Bacca potrebbe anche indicare a Orfeo la via che poi lui seguirà: “abbandonarsi all'ebbrezza della musica, della danza, dell'amore e della morte”. Un'altra possibilità teorica di sottrarsi al destino, quella dell'invasamento estatico, eternandosi? Ipotesi congetturale, stravagante: ma il soggetto reale non l'ha percorsa fino in fondo?

LEUCO', IL POTERE DEMIURGICO DELLA PAROLA

I miti inquietano la coscienza come una parola ricordata solo a metà, e impegnano tutte le energie per rischiararli e possederli. Ma questo vuol dire distruggerli, si sa. Questa distruzione – beninteso  è una trasformazione - toglie al mito violato la sua misteriosa potenza di simbolo creduto. Quando si faccia anche “umana filosofia” il processo è finito”.( C.Pavese – Il mito 29-30 genn. 1950)

Il demiurgo, letteralmente libero artigiano o magistrato del popolo, è usato da Platone nel Timeo come artefice dell'universo, principio dell'ordine cosmico che conferisce misura  a una materia preesistente.

I dialoghi con Leucò, per Italo Calvino, “scoprono il Pavese umanista, uno scienziato che ha sviscerato tutta la più avanzata cultura mondiale in fatto d'interpretazione delle religioni primitive. E un filologo la cui tecnica creativa nasce da un'approfondita riflessione sui classici antichi e con gli strumenti conoscitivi del moderno etnologo. Ci offrono un appassionato quadro di un'umanità alle soglie della coscienza, che abbandona l'età della comunanza assoluta con la natura, l'età dei mostri e delle metamorfosi, per sentirsi a un tratto separata dalle cose. Questo la rende atta a trasformare la natura in nomi e dèi, e a trovarsi di fronte i dubbi del destino, della libertà, della morte

Anche se il mondo si muta/ rapido, come forma di nuvola,/ ogni cosa compiuta ricade/ in grembo all'antico./  Ma sovra al mutare e ai cammini/ più dispiegato e più libero/ rimane il tuo canto,/ o Dio sacro alla cetra./  Solo il canto, qui sulla terra/ consacra ed onora.
                                                                                                        D.M.Rilke- Sonetto a Orfeo

Ipotesi Givone (Sergio Givone, introduzione a Leucò) : Orfeo ha voluto abbandonare Euridice. Ha pensato che avrebbe dovuto rivivere ancora l'esperienza della morte di lei. Ha capito che, senza la chiarezza che aprono il canto e la parola, non c'è scampo al gelo dell'Ade. Euridice è uno spettro, ma lui vuole salvarsi, tornare uomo, tentare un nuovo inizio. Con la parola e il canto, con la poesia, la musica, sfuggiamo all'indistinto. Con la parola  le potenze del Caos sono riconosciute come non naturali, violenza da rifiutare. Anche la trasgressione di Issione è svelata come violenza (indubbiamente tutto sensato e convincente). E' lo stesso Pavese a portarci su questa via.

Mestiere di vivere, 13 luglio 1944. “La natura ritorna selvaggia quando vi accade il proibito, sangue e sesso. Il selvaggio non è il naturale, è il violentemente superstizioso. Il naturale impassibile e innocente è un'invenzione di Rousseau”.

 Sia la poesia che la mitologia sono al tempo stesso reincantamento e demitizzazione. L'emozione originaria si perde, una volta portata alla chiarezza della parola:

1)-Lettera a Fernanda Pivano, giugno '42.  “Rivedere alberi,case, sentieri è un riaffiorare di immagini primordiali, come mi nascesse dentro, ora, l'immagine assoluta di queste cose. Ci vogliono miti, universali fantastici, per esprimere a fondo l'esperienza che è il mio posto nel mondo.”

2)-Mestiere di vivere, 17 sett. '42. “Ci è dato raccogliere eventi dispersivi in un attimo estatico, cioè un simbolo. Tutto quel che accade nel tempo ha senso solo a partire dalla possibilità che abbia un significato incontrovertibile”.

3)- Feria d'agosto – La vigna – “Un attimo fatto di nulla, dimenticato, lascia affiorare alla coscienza ciò che era il tempo quando il tempo per la coscienza non esisteva. L'infanzia è questo tempo, la regione dell'essere in cui il tempo si manifesta come eterno” (credo che l'infanzia sia solo un esempio di “istanti estatici”ai quali il subconscio può accedere in qualsiasi momento,come conferma altrove)

4)- Feria d'agosto '43.'44 – Del mito, del simbolo e d'altro – “Della poesia, anzi della fiaba mitica  si deve dire che, in quanto emozione originaria, non è mai. La poesia si nutre di miti, ma li distrugge portandoli a chiarezza. Poesia e mito (fiaba mitica) implicano presa di distanza, perdita dell'innocenza, caduta nel dominio della parola.”

La parola è rivelazione dell'essere e, nello svelamento, abolisce il mito e fonda la storia

Eppure il mito è necessario in ogni epoca, perché non c'è processo simbolico che non origini da un'emozione poetica. La poesia, l'arte, la musica, hanno il selvaggio come fonte privilegiata. Da una parte il fatto artistico è attirato dall'irrazionale, dall'altro rifiuta, di più o di meno a seconda delle epoche, l'orrore dei miti, il caos delle origini.

Non ci possono essere dubbi, credo, sulla esattezza di queste affermazioni. Però, anche in questo, Leucò è un'eccezione: conserva, per mezzo di un'ambiguità delle scelte operate dai personaggi mitici e dal ricercato affidamento al lettore di una “decrittazione”, parte del mistero. L'ambizione di Pavese, non del tutto dichiarata, è di ricreare il mito riuscendo ad aggiungervi almeno un po' della perduta ossimorica “forma informale” delle origini.

E' del resto incontestabile, per me, che senza le parole demitizzanti della mitologia non si potrebbe neppure tentare di chiarire  il fondo oscuro della psiche.

Per Pavese conoscere è ricordare (la comprensione ha sempre una seconda volta). Poesia è gioire nel ridestare il significato e, seppure ciò contraddica la civilizzazione – che c'impone di liberarci dalla superstizione – ci fa capire che Mnemosine conserva un fondo oscuro (di sesso, sangue e violenza) inestricabile, imprescindibile.

Odisseo sceglie la sorte umana. Apprezzabile, condivisibile. Ma il punto non è questo: è la possibilità di scelta che lui, come ognuno di noi, ha. Concessa dalla maga per “amore”? Non ci credo: Circe sa che il bisogno di libertà è in lui incoercibile (il misero espediente di Leucotea non avrebbe funzionato a lungo). Dare l'immortalità a un uomo “umano” avrebbe posto alla maga condizioni inaccettabili: “tutto fra loro è imprevisto e scoperta”. Bestie e dei hanno scritto in fronte il loro destino, non c'è segreto “nel fondo dei loro cuori”. Gli uomini, invece, hanno capacità uniche, e una rammemorazione creativa. Fatti di tempo, “tutto quel che toccano diventa azione e speranza. Di pendii sassosi sanno fare giardini. Dappertutto, dove spendono fatiche e parole”, nascono  musica, arte, poesia che dà senso alla loro vita. Hanno un modo di nominare le cose che le fa uscire dal nulla.

Cesare Pavese. Dialoghi con Leucò – Einaudi 1947