30 settembre 2012

"Comprare il sole" di Sebastiano Vassalli



di Mirta Vignatti
Con uno stato di grazia linguistica e una perfetta capacità mimetica nell'impersonare l'affabulatore che ci narra un amaro apologo, Sebastiano Vassalli -così credo- raccoglie le inascoltate profezie pasoliniane sulla mutazione antropologica degli italiani e sulla deriva culturale di una intera generazione già formulate sul finire degli anni '60.

In questo inquietante e durissimo apologo, che vede per protagonisti una fauna umana totalmente allo sbando (che vorrei di scarto ma che temo molto vicina a noi tutti e fatta ahimè di grandi numeri), una umanità a-culturale e senza ideali elevati, personaggi triviali che sognano o speculano sul denaro facile, proprio o altrui. Questa società, insomma, dove siamo inseriti tutti e che conosciamo bene: dove le uniche tensioni emotive sono per il “Gratta e vinci”, per le super lotterie, le slot-machines, i mutui da pagare, la droga, gli outlet che punteggiano un paesaggio anch'esso tristemente mutato, in questa repubblica non solo delle banane ma, come dice Vassalli, “dei Saldi e dei Soldi”. 

Nemmeno l'ombra di tensioni morali o etiche in questo triste apologo, il cui tristissimo epilogo e tutta la parte riguardante il denaro che diventa virtuale attraverso vie di fuga digitali manipolate, come nel gioco delle 3 carte, da personaggi senza scrupoli, mi fa pensare al Walter Siti di “Resistere non serve a niente”, che Vassalli deve aver avuto senz'altro sott'occhio. Come anche mi dà da pensare la coincidenza dell'uscita di questo libro con la distribuzione nelle sale del film di Daniele Ciprì “E' stato il figlio”, anch'esso basato sul devastante potere del denaro che si innesta in una società in totale disfacimento, dove tutti sono “brutti, sporchi e cattivi”. Certamente Vassalli non può aver tratto ispirazione dal film, ma sì dal romanzo omonimo di Roberto Alajmo del 2006 da cui è stato tratto. 

“Comprare il sole” è sicuramente a mio avviso un libro da leggere e su cui riflettere. Credo che sia importante, con i tempi che corrono, riflettere su scenari che potrebbero anche non essere di pura fantasia e che ci possono far capire dove rischiamo di andare a finire. 

In questo senso il libro di Vassalli è letteratura alta e anche denuncia civile. Farei soltanto un appunto all'autore sulle eccessive frecciatine lanciate contro le femministe storiche (non cada anche lei, caro Vassalli, nello stereotipo: non tutte le femministe finiscono a fare le “gattare”) e contro i cosiddetti “intellettuali di sinistra”, ingenerosamente -credo- messi alla berlina. 

Un plauso invece per quanto compare scritto nell'ultimo rigo del secondo risvolto di copertina: “per volontà dell'autore questo romanzo non partecipa a premi letterari”. L'integrità morale di Vassalli uomo e scrittore non si smentisce.

“Comprare il sole”, Sebastiano Vassalli, Einaudi 2012.

27 settembre 2012

"Una casa alla fine del mondo" di Michael Cunningham




di Mirta Vignatti

Ho letto “Una casa alla fine del mondo” di Michael Cunningham, autore del capolavoro “Le ore”, che rimane uno dei 10 libri più importanti che mi siano passati tra le mani quest'anno.

Una casa alla fine del mondo è un'opera prima e risale al 1990, ma più che romanzo di formazione si pone già come lavoro maturo e ambizioso: l'autore, nonostante sia agli esordi, sa dimostrare una grande perizia nel tratteggiare personaggi e situazioni e, soprattutto, padronanza nell'organizzare la struttura narrativa divisa in punti di vista dei diversi personaggi (prevalentemente 5) che diventano altrettanti io-narranti, alla stessa maniera che nel capolavoro Le ore.

Anche se a quello la materia narrativa avrebbe portato, Michael Cunningham non si limita ad un romanzo di sentimenti, di analisi intimistica dell'evoluzione di pre-adolescenti che diventano uomini. L'autore ambisce a riportarci il disagio e gli effetti di una discutibile educazione familiare su un'intera generazione cresciuta in una emblematica città statunitense del Middle West, nel periodo del post-Woodstock, e ci riesce appieno.

Personalmente non sono propensa ad incasellare certi autori nel novero della cosiddetta “letteratura gay”, ma certo -tra tutti gli scrittori che hanno scelto a livello personale di vivere una diversa affettività e di rispecchiarla nelle proprie opere- (e penso a David Leavitt e al nostro Pier Vittorio Tondelli, se proprio un paragone bisogna fare) Cunningham giganteggia e si fa il vuoto intorno in quanto a eleganza di stile, capacità introspettiva, talento narrativo e sincerità nel descrivere i rapporti personali senza mai speculare con facili morbosità.

Il titolo del romanzo ha a che fare con l'idea di casa come isola, come spazio eletto dove approdare insieme a compagni e compagne affini, dove vivere, maturare e realizzarsi insieme, puntellandosi l'un l'altro perché da soli si andrebbe alla sbando. Due sono le case-approdo in questo romanzo: un appartamento a New York e, alla fine, una casa colonica nei pressi di Woodstock. Ma in entrambi i casi una fuga vanifica l'ideale della famiglia allargata, a significare i profondi disagi nelle capacità interpersonali dei personaggi.

Questo concetto di spazio dove “ritrovarsi” e “ritrovare” anime affini, lo troveremo in seguito anche in “Dove la terra finisce”, libro del 2002 dove Cunningham descrive Provincetown e Cap Code, una sorta di Finis Terrae scelta da artisti, scrittori e comunità gay più che per viverci, per condividere con persone “scelte” i frammenti della propria esistenza. Una sorta di fuga dal mondo omologato del benessere e dello stress, dal mondo dei rapporti freddi e superficiali verso un'idea di nostalgica utopia.

Michael Cunningham. Una casa alla fine del mondo. Bompiani

26 settembre 2012

“Quartiere di Glasgow” di Bert Hardy






di Gianni Quilici

Come in un film neorealista
in cui molto è necessario
quasi nulla superfluo…

Due bimbi in primo piano
quasi frontali quasi intrecciati
sguardi sorpresi quasi di sfida
padroni della strada
vivi autentici
come lo sfondo nudo e indefinito
in cui si intravedono corpi
come realistici fantasmi


 di Davide Pugnana
Spesso lo spunto per un buon commento giunge da quel gioco di corrispondenze che Baudelaire saggista chiamava " l'occhio intellettuale": una sorta di adesione interpretativa al fatto artistico che non mette in gioco l'occhio di carne; ma gli scenari interni di un dialogo d'inconsci che dall'immagine di superficie ci sposta su altri livelli di senso e di contesto.

Sembra una contraddizione. Negare il primato all'occhio di carne, soprattutto davanti alla lettura di una fotografia o di un dipinto, suona come un errore di metodo, o, peggio, come un tradimento. E lo è, soprattutto quando ad essere percepiti sono scatti e composizioni pittoriche che chiedono di essere ri-creati secondo i loro fondamenti figurativi, perché su questi sono nati, robustamente ancorati alla loro base di realtà. Per cui non si capisce la loro portata se non si ripercorrono il disegno, il colore, la concezione dello spazio, i pesi compositivi; l'iconografia, e, in essa, il grado più o meno spiccato di mimesi con cui l'autore sviscera le cose del reale, le sbuccia e le trasmuta in puri simboli o in archetipi.

Orientandosi in questa direzione, la fotografia è stata letta in due modi: o imbastendoci sopra della cesellata 'letteratura' o andando ad attingere al gergo del vocabolario della critica d'arte. Nel caso di alcuni scatti, però, queste lenti dell'occhio di carne portano a risultati fuorvianti. Insistere a maneggiarle equivale ad usare un cannocchiale imperfetto, composto da una teoria di lenti ustorie.

Letta in queste due chiavi, quindi, anche l'immagine fotografica di Bert Hardy ci tenta verso il pathos retorico dei bambini dickensiani, della miseria impoetica, del neorealismo senza consolazione dei ragazzi di vita, delle infanzie mutilate; o, viceversa, ci stimola ad un elogio della fuga prospettica, del silenzio spaziale e desertico, a cui risponde il nodo plastico e dinamico dei due bambini, e quel palo che, felicemente fuori-centro, scandisce un'urbana sezione aurea resa possibile dalla verticalità del muro di sinistra.

Suggestioni e funamboliche percettive di fascino; ma calate nei reami di uno specchio dalla doppia deformazione: quella lirico-descrittiva e quella pittorica. Due vizi d'origine della critica fotografica. Nello scenario di Hardy non un accento o un sibilo increspa ai toni elegiaci dell'orfanità; né c'è una luce di meriggio o di crepuscolo che piova sulla scena addolcendola verso timbri evocativi e impressionistici. Il regno dello scibile fotografico come regno delle icone che si avvitano nell'occhio di carne e lì rimangono - ombre aggiunte alla grande galleria della storia dell'arte - qui non trova spazio.

 La rappresentazione di Hardy appartiene alla famiglia di quegli scatti davanti ai quali l'occhio fisico non serve; e occorre, per chiarirne la portata e la sostanza, cercare là dove pare impossibile qualsiasi lacerto, qualsiasi contatto o eco che non suoni posa intellettualistica. Un azzardo, certo; per quel tanto di arbitrario che sottintende, e tuttavia dimostrabile.

Un possibile anello di commento a questo scatto lo troviamo, ad esempio, in uno scritto di Walter Benjamin, dedicato all'analisi dell'infanzia secondo il suo mondo oggettuale: la tessitura di dettagli quotidiani che la definiscono, non i giochi fabbricati, ma gli scarti marginali che le mani adulte accatastano e quelle bambine riassestano in sensi e forme inedite:
 "I bambini sono fondamentalmente portati a frequentare i luoghi dove si lavora, dove in modo evidente si opera sulle cose. Sono attratti irresistibilmente dai materiali di scarto che si producono in officina, nelle attività domestiche o lavorando in giardino, nelle sartorie e nelle falegnamerie. Negli scarti di lavorazione riconoscono il volto che il mondo delle cose rivolge a loro, a loro soli. Con gli scarti di lavorazione i bambini non riproducono le opere degli adulti, tendono piuttosto a porre i vari materiali in un rapporto reciproco nuovo e discontinuo, che viene loro giocando. I bambini, in questo modo, si costruiscono il proprio mondo oggettuale da sé, un piccolo mondo dentro a quello grande. E bisognerebbe avere negli occhi le regole di questo piccolo mondo oggettuale quando si voglia creare qualcosa di appositamente pensato per i bambini e non si preferisca lasciare che sia la propria attività, con tutto quanto vi è in essa di funzionale e di accessorio, a trovarsi da sola la strada verso di loro."

In questo passaggio scorre intera la sostanza dell'immagine di Hardy: una sorta di 'sotto-fondo in figura' dell'icona fotografica, non visibile nello scatto nudo ma palpabile nei dettagli di contesto puramente 'normale' che Benjamin ci restituisce. E' questo il territorio dell'occhio intellettuale. Occorre andare a frugare nei pozzi del non-visto, anche quando abbiamo di fronte uno scatto come questo di Hardy, fermo nella sua accessibile e diurna pienezza di senso. Nessuna strozzatura drammatica viene a turbare questa infanzia; nessuna concessione al gusto del puro visibilismo. C'è una tessitura di oggetti minimi in cui i due bambini sono immersi e l'intrusione della parola di Benjamin ci fa andare al prima e al dopo di quei quattro passi sul marciapiede; ridona senso allo scarto di capitale importanza: alla gettatezza del punteruolo, che tra qualche istante verrà raccolto per una nuova destinazione.








25 settembre 2012

"Brazil" di Steve McCurry



di Gianni Quilici

Quando la notte (o il giorno?) lentamente si avvicina
ma la luce permette ancora di vedere
in quegli attimi
miracolosamente
sospesi e incerti
con un paesaggio quasi da preistoria

ecco il punctum barthesiano
la falcata di uomo in corsa
la sua ombra ingigantita a dismisura
certamente realtà
ma pure sogno
 

di Davide Pugnana

La tentazione dell'Herzog di Bellow non trascura nessuno, è un bel vizio onomaturgico che non fa distinzioni, e preferisce visitare gli amanti della fotografia, al pari di quelli del cinema.

 Che bel campo di sensazioni sarebbe una lettera scritta a Steve Mc Curry sulla corsa di quest'uomo che non poteva essere iscritta se non in un bacino di luce riflessa; e il suo complementare nell'ombra che si dilunga come un'eco geometrica; e il dondolio imperfetto di isole che si restringono, in una manzoniana catena non interrotta di monti, tutti a seni e a golfi, a seconda dello sporgere e del rientrare di quelli; e poi, quasi a un tratto, vanno a ristringersi lontani, e a prender corso e figura di fiume, tra un promontorio a destra, e un'ampia costiera dall'altra parte; e ancora campeggia il declivio di roccia, dove il segno dell'umano corre a congiungere le due rive, e par che renda ancor più sensibile all'occhio questa trasformazione alata. E segni il punto in cui il passo cede il posto alla metafora viva: quella che porta il singolo scatto dentro il canone dei grandi Vangeli fotografici.

 Dopo la cartuccia letteraria, seduto nel suo stanzino in penombra, cambiando l'angolazione sguincia dall'una all'altra natica, l'Herzog della critica aggiungerebbe, a metà della sua epistola, che una corrente iconografica sotterranea passa in questa foto, quasi che le venature sottili della grande lastra siano fili d'argento tirati ad unire il footing futurista della carne, stupendamente sagomata contro l'aurora ventosa, e l'ombra del Discobolo greco, reincarnatosi per un istante tra le striscianti larve della grotta di Platone.

 Mio caro Steve - rinsangua Herzog, stimolato dalla trovata del classico - tu sai che il mezzo santifica il fine e che la filosofia fotografica in tempi di velociferico la sia fa con la macchina-predatrice, che ha abolito il rauco clic per una piccola pressione, silenziosa e taumaturgica. Quel bel corpo adonico fuso allo spazio naturale si dissolverà nella sua bellezza vitale. Sarà restituzione di un antico prestito di polvere. Io lo so, la tua macchina-predatrice, Steve, rimarrà abbandonata sul promontorio, nella calma attesa che la corsa s'infiammi nello scialo dei triti giorni. E anche le isole oscilleranno più incerte e sbeccate. 

Non eri tu quel monstrum che ci avevi dato il sogno di bellezza intatta di una mendicante vermeeriana e, con la stessa inesorabile lucidità, ce l'avevi ridonata con le mani di Cronos?

23 settembre 2012

"L'insostenibile leggerezza dell'essere" di Milan Kundera


di Mirta Vignatti

Ho sentito il bisogno di rileggere -e dopo più di vent'anni- “L'insostenibile leggerezza dell'essere” di Milan Kundera. Di solito le riletture non sono il mio forte: soltanto due libri in questi ultimi anni, “Manuale di pittura e calligrafia” di Saramago (ormai consumato, sottolineato e interiorizzato al 100%) e “Racconti con figure” di Tabucchi. Entrambi hanno a che fare con la mia attività principale, che è la pittura, così come -per estensione e in minimissima parte- anche il capolavoro di Kundera “L'insostenibile leggerezza dell'essere”. 

Certo, il bello delle riletture è che si scoprono sempre cose nuove, si scoprono insospettabili tracce di intertestualità con altri libri, si vivono nuove sensazioni.

 Del libro di Kundera non posso che confermare la grandezza dell'impianto narrativo concepito dall'autore, con quella avvincente e -a suo tempo- innovativa commistione di romanzesco, dimensione aforistica, riflessioni filosofiche, intuizioni letterarie (pesantezza/leggerezza, su cui avrebbe in seguito avuto molto da scrivere Calvino nelle sue “Lezioni americane”), strati linguistico-freudiani (il “fiume semantico”), memoria e testimonianza storica (Dubcek e la primavera di Praga, la dissidenza e la repressione sovietica).

 Per certi versi il libro mi ha fatto pensare a “Il gioco del mondo” o più ancora a “El libro de Manuel” del mio Cortàzar

Credo che “L'insostenibile leggerezza dell'essere” possa essere annoverato tra quei libri fondamentali che non dovrebbero mai mancare nelle nostre librerie, appunto perchè si presta a ripetute riletture, anche parziali. E sempre di Kundera, mi riservo di leggere “Lo scherzo”, considerato dal mio maitre à penser Pietro Citati “uno dei pochissimi grandi libri degli ultimi 40 anni”. 

Tornando al capolavoro testè riletto, Kundera ci presenta due coppie -Tomàs e Tereza, Franz e Sabina) analizzate nei loro comportamenti, sentimenti, pensieri e retropensieri da un io-narrante che li osserva e li interpreta. 

Più che personaggi romanzeschi, sono specimen, attori che agiscono nel teatrino della vita (e in quel contesto particolare della Praga invasa dai carri armati sovietici), animati e/o condizionati da casualità, ricorrenze, simmetrie, sogni, privazione delle libertà individuali, cedimenti verso una sessualità compensativa non omologata. Sono coppie emblematiche che corrono drammaticamente incontro al loro destino e che servono all'autore per proporre una sua analisi politico-sociale esistenziale. I periodi storici sono mutati, ma la testimonianza civile di Kundera si pone in questo romanzo come denuncia sempre attuale nei confronti dei regimi ottusamente repressivi di ogni tempo e di ogni luogo.

Milan Kundera. L'insostenibile leggerezza dell'essere. Adelphi. 

16 settembre 2012

"Novecento italiano. I libri per comporre una biblioteca di base" di Guido Davico Bonino


di Davide Pugnana

Al di là delle pubbliche confessioni, e persino delle chiese
segrete, si forma in ogni lettore, via via che il tempo sfolla
e arricchisce la sua memoria, una serie di piccole, imprevedibili
antologie. Nessuna stella polare guidò la scelta di quelle pagine,
che spesso non sono, né per spirito né per stile, di quelle che,
al primo incontro, egli riconosce per sue. Una seconda forza
adamantina, le attirò insieme, le costellò di Pleiade bizzarre,
in quella zona della mente dove gli echi inattesi - l’urto dell’atollo
contro la chiglia - hanno il compito di rivelarci sopra noi stessi
più di quanto non consentiamo a sapere.(Cristina Campo)


Tansillo, Giambattista Gelli, Francesco Maria Zanotti, Testi, Guidi, De Lemene, Benedetto Menzini: niente più che una catena di nomi e cognomi, sciorinati ad elenco; quasi caduti fuori dal tempo immobile ed effimero di una rubrica qualunque. Questi nomi diranno poco o nulla al lettore di oggi; probabilmente avevano già smesso di parlare ai lettori del Novecento. E forse, spingendoci ancora più addietro, apparivano larve che si aggrumavano in confusa ricordanza persino nelle menti più fresche di quei lettori di primo Ottocento che, nel 1828, si trovarono a sfogliare le pagine della Crestomazia poetica, un’impresa che Leopardi aveva composto durante il soggiorno pisano tra il 1827 e il 1828, e che costituiva il secondo tempo di un lavorio antologico che aveva già dato il prezioso frutto della prosa. Ma rispetto ai fiori narrativi della prima, questa volta Leopardi si ripresentava ai lettori con una bizzarra scelta di poeti, fortemente voluta dall’editore Antonio Fortunato Stella e la cui adunanza formava una galleria densa di presenze oscure, come il coro delle mummie che cantano versi meravigliosi e terribili nella penombra dello studio di Federico Ruysch. E non dissimile da quello dell’imbalsamatore doveva essere stato lo stupore del lettore dell’Ottocento davanti al coro di poeti sconosciuti. “Diamine! Chi ha insegnato la musica a questi morti, che cantano di mezza notte come galli?” Ripetiamo spesso l’esclamazione di Ruysch, anche nell’oggi, quasi ad ogni bilancio storico-letterario, disegnato nella speranza di mappare le poetiche del nostro tempo e, attorno alla loro fluidità liquida, erigere argini robusti che sappiano essere orizzonti di senso contro la debordante illeggibilità orfica di tanta poesia contemporanea. 

La Crestomazia poetica si offriva, quindi, come una scelta di poeti border-line, fuori moda della tradizione letteraria italiana, situati sui bordi marginali dell’editoria e del gusto corrente. Ciò dovette suscitare non poche polemiche nel mondo delle lettere, amplificate dalla fama del compilatore. La stessa finezza etimologica del sostantivo leopardiano doveva rifulgere in negativo, poiché nel lemma aulico ’crestomazia’, che ci limitiamo a tradurre come sinonimo di “antologia”, vi era riposta una radice di senso che ben suggeriva l’intento educativo rivolto al bon gout del lettore colto: quello cioè di un criterio di selezione orientato ad un fine estetico e pratico insieme: l‘ “apprendimento delle cose utili”. Le scarne righe di preambolo alla Crestomazia poetica sono un documento preziosissimo per capire i criteri che hanno guidato il Leopardi nelle scelte. 

Il primo  intento era quello di un’antologia che facesse conoscere il panorama della poesia lirica minore, la quale più che ad una funzione quantitativa era promossa a polo di attrazione intorno a cui far gravitare l’intera scelta poetica leopardiana. Gli esempi dei minori che l’antologista trascelse costituì, in realtà, un insieme di esperienze letterarie e poetiche senza le quali, evidentemente, neppure il discorso sui maggiori avrebbe avuto possibilità di esistere. Prendeva corpo così l’immagine complessiva di una tradizione poetica colta d’en bas, secondo una prospettiva obliqua; ma tesa a restituire lo sviluppo storico delle poetiche, l’evoluzione dei generi e l’impiego dei metri e dei temi seguiti però lungo il corso laterale dei rivoli. 

Il risultato dell’operazione leopardiana è quella di averci resi esteticamente fruibili autori del tutto minori o trascurati, come, per fare un esempio tra i numerosi altri possibili, Serafino d’Aquila o il Fortiguerri, presentati sotto una luce che genera nel lettore un’impressione del tutto favorevole. Di una certa portata innovativa fu anche la scelta di offrire un’antologia priva di note, se non là dove fossero strettamente necessarie a livello linguistico: quella che poteva apparire trascuratezza filologica si rivelava pregio notevole, poiché abolendo un imponente corredo di riferimenti extratestuali il lettore veniva sollecitato ad un contatto vergine con i brani poetici presentati.

La tentazione dell’antologia è un portato soprattutto moderno. Nasce da un impulso ordinatore che, prima o poi, assale tutti i tipi di lettori: da quelli che lo fanno per mestiere al lettore comune, preda di un’innata e inestinguibile febbre umanistica. L’antologia sottintende l’idea taumaturgica di poter racchiudere nello spazio di un volume, centripeto e percorribile, il laborioso lavorio di scoperta e scrematura degli autori e delle opere che vanno ad incunearsi nei giorni e nelle ore di silenzio del lettore, nella luce di una precisa e intensa piega biografica dell’antologista. Proprio per questo senso di intima appartenenza, il lievito di ogni antologia è il sogno autobiografico di un microcosmo in cui tornare a rispecchiarsi con tutto il carico del proprio folle volo di conoscenza, non importa se piccolo o grande, purché mantenga la fiamma vitale delle radici, la loro ricerca  (come suggerisce il titolo di  una della più belle antologie del Novecento, quella di Primo Levi, La ricerca delle radici) attraverso una tradizione di voci che la scuola, l’incontro eccezionale con i maestri, o la bussola dell’intuizione e della solitaria curiosità, hanno immesso nella nostra vita. 

La compilazione delle antologie non è mai un terreno neutrale; in esse rifluiscono gli autori dei quali ci sentiamo figli adottivi o nipoti; libri che portano impressa a fuoco la cifra della nostra formazione giovanile; titoli dotati del potere delle agnizioni; pagine che sentiamo di dover rileggere ad ogni torno di generazione, e, soprattutto, parole, parole porosissime di valenze semantiche che hanno strutturato il nostro universo concettuale e irrigato il nostro linguaggio. Questa sostanza umana che permea di sé il più arido elenco di nomi e di testi è il senso più alto dell’antologia come genere insieme didattico-divulgativo e intimamente autobiografico. Da sempre, in molte soffitte, scrittoi, biblioteche private, interstizi di scaffali, in semplici quaderni a righe sono racchiusi sconfinati depositi e telegrafici registrazioni di brani ricopiati in bella grafia: collane di versi, talora chiosate, ancorate ad una data ed un luogo; frasi-guida cerchiate o sottolineate perché hanno disbrogliato un dilemma antico o hanno rischiarato una stagione di vita. In parte, se vogliamo, è questo il nocciolo segreto del gusto, tutt’altro che erudito ed antiquario, di compulsare i cataloghi, i dizionari, le enciclopedie: la pazienza di andare a scovare quelle sezioni gremite di presenze inattese, e lì scoprire i libri i cui soli titoli ci spingono ad evadere verso il desiderio di possederli tutti. 

Proviamo con un altro elenco: Federico Verdinois, Cesare Pescarella, Carlo Vallini, Libero Bigiaretti, Paola Masino, Vittorio Clemente, Bartolo Cattaffi, Adriano Spatola, Mario Pomilio, Gregorio Scalise, Franca Grisoni, Claudio Piersanti, Luca Doninelli. Anche qui, come nel caso dell’antologia leopardiana, assunta come ideale prototipo, l’effetto è quello di un manipolo di nomi che non suggeriscono nulla; che non stimolano nessuna memoria; nessun titolo d‘opera che suoni immediatamente familiare. Sono presenze perturbanti, sommerse dal tempo e dall’oblio. Eppure l’ultimo di questi, quello del Doninelli, risale ad una pubblicazioni recente (1990). Ricollocati nel loro contesto, questi nomi vengono a comporre la rosa di autori della raccolta di Guido Davico Bonino dedicata ai poeti e ai narratori che hanno fatto il Novecento italiano. La scelta cronologica si estende su ampie campiture: si va dal 1885 al 1990, secondo una periodizzazione che Davico Bonino misura a partire dagli ultimi quindici anni dell’Ottocento agli ultimi venti del Novecento, e che affida ai due brevi scritti di prologo e di epilogo di Novecento italiano. I libri per comporre una biblioteca di base, Einaudi, 2008, euro 14,50, pp. 388. Parte dei criteri di selezione di Davico Bonino sono vicini a quelli leopardiani, come documenta l’esempio dei nomi estrapolati a caso dalla raccolta. Ma nel caso di Novecento italiano non ci muoviamo esclusivamente nei modi e nelle forme del genere antologico; la sua portata saggistica si spinge al di là della citazione di brani significativi, i quali sono peraltro assenti nella loro veste tradizionali di ‘fiori‘ trascelti dalla tradizione; e arriva cioè ad inglobare tre livelli, sui quali si struttura l’intera raccolta: il prontuario, come contenitore complessivo; il diario intellettuale, come sostrato autobiografico dell’antologista; e il singolo medaglione dentro cui fluisce e si fissa il profilo del giudizio elegante. Come nel caso della parola crestomazia, anche prontuario ha un suo spessore etimologico: l’origine latina del sostantivo neutro è “promptuarium” che significa “armadio, dispensa”, luogo fisico dove si chiudono e conservano cose, per custodirle e salvarle dalla dispersione; ma altresì immagine spaziale che richiama l’idea di nicchia, e, secondo una metafora enciclopedica, manuale contenente le nozioni fondamentali di una  specifica disciplina, disposte in modo tale da rendere agevole la ricerca o la consultazione. Nel prontuario di cose letterarie raccolte e ordinate da Davico Bonino troviamo autori, sia maggiori sia minori, ordinati in ordine cronologico e contrassegnati secondo il genere dell’opera, o narrativo o poetico.

Nell’inesauribile catasto della letteratura novecentesca, perennemente riordinato e ancora da riordinare, l’autore trasceglie i libri canonici, le voci possenti dei classici entrati nella tradizioni come i ‘maggiori’, senza i quali l’educazione alla letteratura e la formazione della biblioteca risulterebbe desultoria e lacunosa: troviamo Il piacere e l’Alcyone di D’Annunzio;  Myricae e Canti di Castelvecchio di Pascoli; Il codice di Perelà di Palazzeschi; Il podere di Tozzi; La coscienza di Zeno; e poi le memorabili narrazioni di Anna Banti, Mario Soldati, Gianna Manzini, Tomasi di Lampedusa, Luigi Meneghello e Giorgio Manganelli, fino ad Ennio Flaiano e Lalla Romano, e ai dimenticati in vita Guido Morselli e Stefano D’Arrigo, per citare, sfogliando a caldo, i più vistosi. Così accadde sull’asse della poesia: dai poeti fin de siécle a Saba, Ungaretti, Montale, Caproni, Bertolucci e Giudici, Zanzotto, si attraversa l’intero Novecento lirico in lingua, senza trascurare la preziosa linea della poesia dialettale, da Giacomo Noventa a Paolo Bertolani a Biagio Marin. 

Ma il vero spazio privilegiato Davico Bonino lo riserva ai testi passati in sordina; ai derelitti rimasti fuori dal recinto ufficiale delle storie letterarie; agli sbilanciati rispetto alle grandi codificazioni della critica. È proprio questo secondo continente sepolto che il prontuario di Davico Bonino ha il merito di mettere in luce, offrendo al lettore, nelle sue impreviste scorrerie, la bussola e la mappa di un Novecento letterario notturno. L’antologista rende giustizia ai randagi e ai negletti, a quei poeti e narratori isolati come frammenti laterali di una storia letteraria non scritta, punteggiata di titoli la cui assenza si avverte, anello dopo anello. È il coro dei ’minori’ a costituire la spina dorsale di Novecento italiano. Come ogni antologia e ogni storia letteraria, anche questo prontuario presuppone il confronto dialettico con un canone ufficiale, costituitosi tra manualistica e storiografia: quel “grande padre” che le generazioni hanno contestato, modificato e riassestato, mentre parallelamente il corso della letteratura continuava ad essere spostato come il corso di un fiume. Scrive Claudio Magris in Rami di un medesimo tronco (ora in Alfabeti, Garzanti 2008, p.24): “Anche la più completa e intelligente storia letteraria ha le sue chiusure; l’ideale etico-civile-passionale di De Sanctis non potrebbe mai rendere giustizia a Kafka e ai reietti e randagi poeti dell’assenza, colonne della letteratura moderna, costituita da frammenti laterali e priva di un saldo centro, e di cui forse non si può fare storia in modo classico. Ogni storiografia letteraria è destinata a generare i ’grandi dimenticati’ rivendicati con tanta forza da Ermanno Zaccagnini e destinati a riemergere nella loro grandezza, come i molti autori ritrovati da Guido Davico Bonino in quel felice ’prontuario’ che è il suo Novecento italiano.”

Il prontuario di autori di Davico Bonino non squaderna il Novecento letterario inseguendo l’ideologia del suo autore, né ricerca l’utopia consolatrice ed esaltante di un policentrismo mappabile secondo geografia e centro, tendenze di poetica e capolavori; la sua cifra, al contrario, è riportare, sotto la luce del presente, una zona sommersa di nomi e di opere che per quanto figlie legittime di un secolo vivo e pulsante alle nostre spalle, abbiamo dimenticato. Ma questo è l’alone poetico delle antologie, la loro lotta per scoprire le voci che, sepolte, resistono al tempo; quelle pagine e quei personaggi che spingono il loro mormorio dentro il secolo magari dalle penombre delle biblioteche comunali; o sopravvivono in qualche erudito repertorio di nomi e di titoli bibliografici che sono una manzoniana guerra illustre contro il tempo e che, pur nella bidimensionalità dell’elenco, trasmettono il senso della complessità del secolo, della varietà delle sue forme.

Davico Bonino disseppellisce i ‘minori’ togliendoli dai bordi sfrangiati degli ultimi e dall’aridità del repertorio ridonandogli corpo e sangue attraverso una galleria di medaglioni. Medaglioni che non si offrono come il frutto di un abitudine al commento critico scaltrito dall’esperienza; né seguono altra narrazione storica che non sia il lineare filo cronologico. Essi sono come delle giare al cui interno si raccoglie il distillato della lunga frequentazione degli autori amati e sono, al contempo, il portato elegiaco di un amore umanistico per i testi ufficiali e non ufficiali della storia letteraria italiana. Al loro interno, come in un nicchia, l’antologista deposita il cuore pulsante del libro, la cifra di unicità per la quale occorre ricordarli e tornarli a leggere; fino a consegnarci, in filigrana, un ritratto in piedi dell’autore lavorato in punta di bulino.

Qualche essais tra i più significativi. Il prontuario si apre proprio con l’opera di un minore, La canaglia felice di Cletto Arrighi (alias Carlo Righetti) del 1885: “intrigante romanzo del milanese Righetti, eroico ’dragone lombardo’ contro gli Austriaci e poi indaffaratissimo giornalista, cui dobbiamo la ‘ripresa’ del termine ’scapigliatura’ in un suo giovani romanzo (Gli ultimi coriandoli, dedicato nel 1856 al Manzoni). Il termine ebbe successo tanto che Cletto lo adottò nel titolo del successivo (1862) ’romanzo contemporaneo’ La Scapigliatura e il 6 febbraio (Un dramma di famiglia). Questo vorrebbe esserne il seguito, ma si legge con gusto in sé e per sé. Le ’canaglie’ sono persone moralmente spregevoli a qualunque ceto appartengano: e a Milano abbondavano nell’aristocrazia, come il conte Sparvieri, nel popolino, come l’ex commessa di sartoria Bigietta, sua amante, e come il ganzo di lei, quello spilungone dello Sganzerla, un locch, cioè un balordo, un ozioso e vagabondo. Non manca il borghese, l’ex torinese Carlo Rey, che - per godersi la Bigietta - si traveste da canaglia. La ritroverà in un letto d’ospedale, accoltellata dal suo drudo. Il moralismo di molte pagine è debordante, ma i ritratti d’ambiente hanno un che di asprigno, che finisce per coinvolgere.” Anche per i primi vent’anni del Novecento gli esempi notevoli tra i dimenticati non mancano. Davico Bonino ricorda l’Antologia apocrifa (1927) del torinese Paolo Vita-Finzi: “Vita-Finzi imboccò la carriera diplomatica e fu nostro rappresentante nelle più diverse sedi, da Mosca a Buenos Aires. […] Ma dal 1925 aveva ripreso a pubblicare su ’L’Italia che scrive’ impeccabili parodie dei nostri ’classici moderni’ (Pascoli, il divino Gabriele, il malinconico Guidog), dei poeti suoi contemporanei (Ungaretti e Montale), dei filosofi (Croce e Gentile), dei critici (Cecchi e Praz), spaziando dalla narrativa ’sublime’ (l’impervio Gadda) alla ’bassa e stagnante’ (Guido da Verona). Il tutto con un’impareggiabile leggerezza di tocco, frutto di minuziose letture e riletture, sino all’inattesa ’stoccata’ finale: com’è nella consuetudine dei migliori fiorettisti.”. Altrettanto interessante è il caso di Lorenzo Montano, autore veronese, nato da madre russa e padre austriaco (il suo vero cognome è Lebrecht), autore di un romanzo dimenticato ma singolare: Viaggio attraverso la gioventù secondo un itinerario recente, pubblicato lo stesso anno della Coscienza di Zeno, nel 1923: “Questo romanzo, dalla raffinata scrittura e dalle altrettanto raffinate ascendenze (tra la Francia e l’Inghilterra del romanzo epistolare, oltre al Goethe delle Affinità elettive, come ha osservato uno specialista, Gian Paolo Marchi), si ’fonda’ sul supposto diario di ’uno di quei bighelloni e  perdigiorni di che purtroppo è pieno il mondo’: un viaggiatore irrequieto, che, sullo sfondo d’una cittadina di provincia, ama, in successione, due donne assai diverse tra loro, Biancanera e Delfina: con l’inserimento tra le due di una moderna etéra, Floriana. Come il viaggiatore, anche l’Eros dilegua (è questo uno dei motivi più fascinosi del libro) insieme all’irrecuperabile gioventù: “Finità?…Questo breve tumulto d’ombre come passioni, incoerenti, fuggite, sarebbero stata la gioventù? Essa proprio.” 

Saltando negli anni Quaranta, ci viene incontro il lucchese Arrigo Benedetti con Una donna all’inferno (1944): “Questa sua terza raccolta di racconti è illuminata dalla novella splendida, a cui s’intitola: il riesame, post mortem, dell’esistenza terrena di Caterina, diversa da tutte le altre del paese, tanto da meritarsi, ancora viva quella tenebrosa destinazione finale. Ma cosa ha commesso, dalla nascita al trapasso, quella tanto conclamata ’peccatrice’? Forse è stata, semplicemente, una tempra più forte di quella delle vicine, epperciò è parsa a tutti una ribelle, addirittura una ’diversa’. Gianfranco Contini, nell’individuare le ’genuine qualità’ di questo narratore poco più che trentenne […] segnala ‘tra gli eccellenti del secolo’ un altro racconto della silloge, Un prato: una ragazza, intenta a leggere in uno spazio erboso, dove alcune mamme portano i bimbi a giocare, altri riposano e  giovani di passaggio la guardano ammirati: una sorta di mirabile ’piano-sequenza’, per servirci del lessico cinematografico.”. 

Per gli anni Sessanta, Davico Bonino sceglie un’opera dal significativo titolo di Pseudobaudelaire (1964) del parmense Corrado Costa, che fondò la rivista sperimentale “Malebolge” con alcuni rappresentanti del Gruppo 63: “Vicino per affinità elettive e per appassionate letture alle esperienze di scrittura automatica e collettiva, dei surrealisti francesi, Costa in questa - che è la prima di sei sillogi poetiche, realizzate da solo o con altri poeti […] - persegue un’idea di lirica come ’sogno ad occhi aperti’, in cui le immagini si dispongono secondo linee orizzontali in apparente disomogeneità: mentre, in realtà (nella realtà prelogica delle visioni), esse ubbidiscono ad una stringente logica della concatenazione; e, per lo più, da immagine di apparente ‘soavità naturale’ (d’improvviso la rosa che comincia a ridere / apre e chiude la bocca: / un giorno (il giorno come questo) s’incammina / ai lati del giardino…) si può essere costretti a trascorrere ad immagini di drammatica crudezza : “Il giovane dal cuore fucilato/ compie diciotto anni sotto la riva del fiume/ la sua vita continua/ nei giorni che non nascono mai…” 

Per gli anni Ottanta e Novanta, infine, gli esempi si infittiscono. Due, tra i molti che Davico Bonino allinea rispettivamente per la poesia e per la prosa, potrebbero incuriosire il lettore: la poetessa messinese Jolanda Insana, insegnante e traduttrice di alcuni lirici greci, la quale, collocata tra Andrea De Carlo ed Edoardo Sanguineti, compare con il suggestivo titolo di  Fendenti fonici 1979-1980 (1882), “Questa sua seconda raccolta è, a nostro avviso, fortemente indicativa di quella che una giovane studiosa, Raffaella Scarpa, ha definito come ’ volontà di rendere in poesia non semplicemente la realtà, ma gli effetti del suo carico’. Ma di cosa il reale assomma la poetessa e in che modo l’esercizio della poesia la sgrava di tanto peso?”; mentre sul versante della narrativa, al 1990 risale I due fratelli del bresciano Luca Doninelli: “Questo suo libro d’esordio.’che immediatamente abbagliò la critica per la sua densità etica e tragica’ (per citare un critico-narratore Paolo Di Stefano), si componeva di due romanzi brevi. Fu il primo […] ed eponimo a colpire i lettori di professione. È la scabra storia di un rapporto difficile, anzi impervio, tra padre e figlio. Il primo, un giudice a riposo, ormai ottantenne, persuade con sempre maggior frequenza il secondo a lunghe passeggiate, a gite sul lago. Vuole, forse per la prima volta, parlargli a cuor aperto. C’è un segreto che lo attanaglia: è stato sposato una prima volta (chi ascolta non sapeva), ha avuto un figlio, William: costui voleva da adolescente farsi prete, il padre glielo impedì, lo strappò al collegio, lo lasciò morire, forse lo indusse al suicidio. L’altro, dinanzi a quell’uomo da poco, dalle mani tremanti da vecchio, che tuttavia ha avuto in extremis il coraggio di vomitare fuori quella ’storia rivoltante’, non sa se inorridire o se impietosirsi e solidarizzare fraternamente… Abbiamo pensato leggendo ad un grande Scrittore della Colpa, nell’Italia d’oggi poco frequentato (a quanto sappiamo), Fedor Dostoevskij: e scusate se è poco…”

Non c’è una segnaletica luminosa fissa, che ci guidi nella lettura di Novecento italiano. Davico Bonino ci lascia liberi di correre in questo paesaggio letterario italiano. Una condizione di spirito, tra le tante possibili, è la curiositas svagata con la quale sfogliamo il dizionario e i severi lemmi dell‘enciclopedia lasciataci dagli avi: saltando, assaggiando, passando rapidi dalla N alla S, perché là c’e un desiderio immediato che chiedi udienza o una lacuna di conoscenza che è rimasta dal liceo. Oppure, all’opposto, c’è l’inerpicarsi ‘col rampino’, trascrivendo interi brani per una nostra antologia segreta; o appuntando ai bordi qualche glossa, sugli spazi bianchi agli estremi della pagina, come ectoplasma di un’idea che desideriamo rimanga viva e danzante, non si sa mai. Infine, c’è la filosofia del camminarci dentro a naso in sù, solitari e pensosi come flaneur tra le vie secondarie di una metropoli, aperti a qualsiasi suggestioni e fantasticheria.   

Guido Davico Bonino. "Novecento italiano. I libri per comporre una biblioteca di base"2008, euro 14,50, pp. 388. Einaudi.