29 luglio 2014

I racconti di Enzo Guidi: originali e disperati



di Gianni Quilici

Dopo un notevole romanzo, “Dalmatica”, purtroppo poco conosciuto, Enzo Guidi ha raccolto una serie di racconti “Occhiatina a San Pietro e altre fughe” (Maria Pacini Fazzi editore), ognuno dei quali è stato illustrato con la solita sottile e simbolica ironia da Antonio Possenti.

“Occhiatina a San Pietro” è uno di questi racconti, il più esteso e elaborato. Un vero e proprio racconto picaresco di due giovani: Ruby, che ama scrivere canzoni sadiche su musiche d’amore dolciastre, con la voce da basso cavernosa, che usa “sadicamente” per imitare l’unico suo vero, grande idolo, Elvis Presley; e Frankie, orfano e bambinone, che vorrebbe una donna, senza tuttavia riuscire a trovarla. Proprio quest’ultimo si sogna che tutti coloro che muoiono sono tenuti nascosti dal Papa nei sotterranei del Vaticano da cui non li fanno più uscire. Ruby è perplesso, ma quando Frankie tira fuori una cassa di birra tedesca “originale, gotica, sadica e dura” riesce a convincersi …  Da qui inizia l’avventura a Roma dei due che Enzo Guidi sa raccontare con maestria: l’euforia iniziale, la fatica e il caldo, la fame e la mangiata pantagruelica, l’arresto e la paura, fino al magnifico finale realistico e allucinato, che scava profondamente dentro le due psicologie.

Le altre “fughe” sono una trentina di racconti brevi di vario genere: alcuni poetici, dichiaratamente autobiografici, colgono la dimensione lirica di un’infanzia ipersensibile e il flusso di una giovinezza inquieta e impassibile in una Lucca pigra e misteriosa; diversi rappresentano atmosfere da incubo, percorse da una febbrile visionarietà di un mondo crudele e grottesco, sempre più atomizzato, in cui si trova a vivere un Io scisso e sradicato, una sorta di illuminista dell’irrazionalità.

Ciò che unisce questi racconti è una comune visione del mondo e un linguaggio funambolico e potente, felice nel cogliere i dettagli, che amalgama efficacemente il tono quotidiano più volgare con le riflessioni più sottili.  
                                                                                      
Enzo Guidi. Un'occhiatina a San Pietro e altre fughe. Maria Pacini Fazzi Editore. Lucca. Euro 12,00

20 luglio 2014

"Io ti troverò" di Shane Stevens



di Camilla Palandri

 E’ solo un momento iniziale la  sensazione di scoraggiamento che prende di fronte al voluminoso romanzo di Shane Stevens, di circa 8oo pagine,  ma scompare  rapidamente  perché la narrazione coinvolge  subito.


L’incipit è un fatto di cronaca vera che ebbe molta risonanza nell’America negli anni 50.
 Il caso di  Caryl Chessman  che, condannato a morte nello stato della California per reati vari, diventò scrittore in carcere  e lottò tenacemente contro la propria sentenza riuscendo ad avere dopo ben otto rinvii in dodici anni. Alla fine giustiziato fu assunto come simbolo per il movimento  che si batteva contro l'abolizione della pena di morte.

 Nel testo la realtà si fonde sapientemente con l’invenzione letteraria  fino a farne perdere quasi i confini ed è in questo contesto che emerge la figura dell’efferato serial killer Thomas Bishop. Figura che lascia sconcertati per la crudeltà e allo stesso tempo affascina per la fredda lucidità della mente.
Sullo sfondo c’è la società americana degli anni 70 il cui lato oscuro viene rappresentato  da una carrellata di personaggi che ruotano intorno alla figura del mostro: psichiatri, giornalisti, politici, criminali, poliziotti. Tutti dietro al folle con qualcosa da ottenere e qualcosa da nascondere.

Nella prima parte l’autore ricostruisce la storia del protagonista e lo sviluppo della sua personalità disturbata,dall’infanzia traumatica con una madre crudele che lo sevizia  al suo orribile omicidio,dall’internamento in un istituto psichiatrico in cui trascorre larga parte della sua giovinezza  alla fuga e  quindi l’inizio di quella escalation di violenza che lui considera la sua “opera vendicatrice”.
La follia viene analizzata nei suoi particolari ,i lati più oscuri ed inquietanti della mente umana e il Male puro vengono ben rappresentati, nascosti  dietro l’apparenza di un giovane di bell’aspetto, gentile , a prima vista innocuo.
Così adesca le sue vittime , con le buone maniere.
In realtà l’incontro ,di solito casuale, è solo l’inizio di un piano studiato nei dettagli sempre con il solito epilogo.
Bishop  si rende inafferrabile perché tutto è accuratamente programmato nella sua mente folle. Cambia  continuamente territorio, assume nuove identità, pianifica tutto con freddo calcolo, senza mai compiere passi falsi.
 E’ un vero mostro, anche se talvolta,nei momenti in cui le sue visioni oniriche lo riportano alle sofferenze infantili subite, suscita quasi un sentimento di pietà, perché è quel  vissuto di dolore la causa primaria della sua alienazione .

L’altro personaggio rilevante del romanzo, il reporter investigativo  che sarà chiamato ad occuparsi del caso, entra in scena nella seconda parte del libro.
Adam Kenton è l’unico che riesce prima ad identificare il serial killer e poi a penetrare nei meccanismi  tortuosi della sua mente scoprendo tracce che altri non hanno colto. 
C’è qualcosa di particolare  che lo accomuna a Bishop, un vissuto  di  tristezza che rimanda all’infanzia e che pur nella diversità delle situazioni, ne accentua le similitudini.
 
Inizia così una serrata “caccia all’uomo” che vede coinvolti una miriade di personaggi per motivi diversi, ma sarà l’intuito di Kenton che porterà all’epilogo la vicenda.

Il ritmo diventa sempre più incalzante  e nella parte finale  si assiste ad una vera e propria lotta contro il tempo per impedire al folle omicida di terminare la sua impresa , un’impresa di proporzioni grandiose con la quale vuole passare alla storia.

Bello il finale che si chiude con un interrogativo e non concludendo in modo definitivo lascia quindi  aperte altre possibilità .

 Frequenti  sono i cambi di punti di vista che  vivacizzano la narrazione che presenta tuttavia alcuni difetti: le  parti in cui l’autore si dilunga sui meccanismi della politica e del giornalismo appesantiscono la narrazione,  ci sono troppi  personaggi  sulla scena, la facilità con cui il protagonista  attua i suoi cambiamenti d’identità  li rende molto inverosimili.

E’ comunque senza dubbio un bel thriller che vale la lettura per chi ama il genere.
La narrazione che utilizza lo stile della  cronaca è molto scorrevole e la tensione  rimane viva fino alla fine,  anzi si accentua con il progredire della storia.


Scritto  nel 1979 da Shane Stevens, pseudonimo di un scrittore americano  la cui figura è rimasta avvolta nel mistero  e di cui si sono perse rapidamente le tracce, il romanzo fu elogiato dallo stesso Stephen King  che lo definì uno dei migliori libri mai scritti sul Male assoluto.

Titolo: Io ti troverò
Autore: Shane Stevens
Editore: Fazi
Traduttore: Levantini S.; Bottali G.
Pagine: 798


19 luglio 2014

"Per Marinella Lazzarini” di Laura Poggetti




Di te parleranno

 Non ce l'ho fatta a sentire gente parlare di te
di te parlano meglio le foglie
le nuvole alte e i trilli degli uccelli
di te parlerà la tua assenza
in un mondo di colpo impoverito
di te parleranno certe matite colorate
o i pizzi antichi e candidi
sulla madia di legno
...di te e della tua macchina del tempo
e dei tuoi sì e dei tuoi no
capaci di tagliare in due la storia
parlerà chi grazie a te
è andato avanti

                    Laura Poggetti


" Joe Matita e la Nebbia Dorata" di Patrizia Gori e Gian Paolo Degli Agosti ti




di Luciano Luciani

Editori e librai sono concordi nell’affermare che, oggi, all’interno di una crisi generalizzata della lettura e dei suoi strumenti (libri, giornali, periodici), il ‘comparto forte’ delle attività editoriali è rappresentato dai cosiddetti libri per ragazzi..

In proposito, basti pensare al successo dei libri che hanno come protagonista il topo intellettuale Geronimo Stilton, o alla fortunata serie nata nel 2007 dall’ironico Diario di una schiappa, per tacere della diffusione planetaria dei sette libri con le avventure del celeberrimo, e sopravvalutato, apprendista mago Henry Potter. Insomma, se una considerazione merita di essere fatta è quella per cui sino alle soglie dell’adolescenza i giovanissimi leggono e leggono tanto. Per smettere, poi, in maniera del tutto repentina appena mettono piede nella scuola superiore, dove, immancabilmente sono colpiti dal Grande Virus della Non Lettura: potrebbe essere uno spunto mica male per qualche narratore fantasioso e qualche pagina divertente…
Insomma, non solo l’immaginario dei pre-adolescenti esiste (ebbene sì, c’è vita su Marte!), ma è in perenne fermento e ha continuamente bisogno di alimentarsi di storie ben scritte, di avventure mosse e vivaci, intrise di una fantasia senza se senza ma e di sentimenti forti. Che possano assurgere al ruolo di nuovi miti su cui plasmare i propri comportamenti, uniformarsi, trasgredire, trasformarsi… In una parola, crescere.

Tutte considerazioni queste sollecitate dalla lettura dell’ancora fresco di stampa Joe Matita e la Nebbia Dorata, libro scritto a quattro mani da Patrizia Gori e Gian Paolo Degli Agosti, autori con alle spalle una notevole frequentazione, per qualità e quantità, con l’invenzione letteraria e la parola scritta. Ne è protagonista Joe, un’età compresa in quella terra di nessuno che si situa tra la fine dell’infanzia e l’inizio dell’adolescenza, e un talento assoluto per il disegno. Un giorno, il nostro piccolo eroe, tornando a casa da scuola, percepisce intorno a sé delle presenze inquietanti: due misteriosi personaggi, infatti, lo stanno braccando. E non è una buona cosa perché i due, là dove dovrebbero esserci le mani, presentano delle minacciose tenaglie. Chi sono? Da dove vengono? E soprattutto cosa vogliono da lui? Inizia così sotto il segno della tensione e del turbamento, un’avventura fantastica che porterà Joe e il suo amico Tobia a viaggiare nella immensità degli spazi siderali fino al pianeta Sponk, abitato dai Pirati Stellari e governato dal feroce comandante Nero.

Non sarà facile per Joe e il suo compagno riconquistare la perduta libertà, che arriverà solo dopo una fantasmagorica girandola di incredibili esperienze, di bizzarri imprevisti, di straordinarie traversie che metteranno a dura prova le doti di intelligenza, resistenza e creatività dei due ragazzi. E sarà proprio il dono innato di Joe, saper inventare nuovi mondi con il semplice ausilio di una matita, a riportarli a casa, alla famiglia, agli amici e a favorire la caduta del perfido potere di Nero sul pianeta Sponk e sui suoi abitanti. Una favola ben raccontata questo di Joe Matita, fruibile nel linguaggio, godibile nei continui e improvvisi colpi di scena che danno ritmo alla storia, condivisibile nei valori che la sostengono:l’amore per la libertà, l’amicizia, l’importanza per tutti di seguire sempre la propria vocazione profonda.
Una storia per far sognare i piccoli e riflettere i più grandi.

Patrizia Gori – Gian Paolo Degli Agosti, Joe Matita e la Nebbia Dorata, Europa edizioni, collana Edificare Universi, 2014, pp. 117, Euro 12, 90


“Documenti e studi” per il settantesimo anniversario della Liberazione di Lucca



di Luciano Luciani
I materiali presenti in questo numero 36 di “Documenti e studi”, semestrale dell’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea in Provincia di Lucca, intendono riproporre ai Lettori non solo alcuni contenuti originali, ma il complessivo clima di commossa partecipazione e di consapevole riflessione che hanno già connotato le prime manifestazioni per il settantesimo anniversario della Liberazione di Lucca dal nazifascismo.
Altre iniziative seguiranno in città e in provincia e, con i saggi contenuti in queste pagine, “Documenti e studi” vuole esserci e contribuire ad ampliare gli orizzonti della ricerca storica locale, favorire gli approfondimenti, individuare nuovi collegamenti tra le vicende, riconoscere magari nuovi protagonisti rimasti sino a ora sconosciuti: insomma, illuminare zone rimaste ancora oscure della vita sociale, civile, politica, militare di Lucca e della sua provincia di quell’anno tragico e terribile che va dal settembre ’43 al settembre ’44. E questo, secondo un’organizzazione tematica per “luoghi significativi” in quanto scenari e testimoni di memorie magari minori, magari minime, ma comunque importanti per dipanare il filo della Storia e delle storie dell’ultima guerra mondiale in Toscana e in provincia di Lucca. Un conflitto che ha colpito soprattutto i civili, e che per noi italiani è stata anche una “maledetta guerra tra fratelli”. Ha conosciuto, però, pagine straordinarie di “resistenza comunitaria”, scritte da donne e uomini comuni, protagonisti e non certo comparse della storia, che, anche senza imbracciare un fucile, hanno saputo offrirci una mole di sofferenze e impegni attivi senza i quali l’impatto della guerra sulla società italiana sarebbe stato ancora più dirompente e l’iniziativa degli antifascisti, partigiani e Alleati di certo più complicata.

Molti sono i “luoghi della memoria” che raccontano questa esperienza plurale anche nel nostro territorio, da Farneta a Sant’Anna di Stazzema, dal Piglionico a Castelnuovo Garfagnana, da Sillico a Nozzano, dalla Pia Casa alla Stazione di Lucca. Nell’anno del settantesimo anniversario della Liberazione l’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea in Provincia di Lucca li ricorderà e valorizzerà, in collaborazione con gli enti locali, mediante l’apposizione di una serie di targhe commemorative che, tramite un apposito QR code, rimanderanno anche a un’apposita sezione del nostro sito web nel quale confluiranno documenti, testimonianze, fotografie relative a ciascun luogo. Spezzoni di storia e memoria individuali che andranno a comporre una memoria comunitaria, che ci pare irrinunciabile per guardare al futuro.

In Castiglione sotto le bombe, con un’apprezzabile vivacità narrativa supportata da documenti e testimonianze, Feliciano Bechelli racconta ai Lettori cosa accadde a Castiglione di Garfagnana e ai suoi abitanti tra l’estate 1944 e l’aprile 1945: una piccola comunità di montagna costretta, suo malgrado, a fare i conti con la grande Storia e a conoscere paura e fame, bombardamenti e distruzioni, attentati e rappresaglie.

Paolo Folcarelli, autore di due libri importanti sulla Manifattura Tabacchi di Lucca (La Manifattura Tabacchi di Lucca, una fabbrica, una storia, 2005; Nel tempo che perde la memoria. La manifattura Tabacchi di Lucca, 2011), nel suo saggio La Manifattura Tabacchi, un preciso tratto identitario della città, intrecciando materiale documentario e testimonianze orali, ci restituisce non solo le vicende e i protagonisti interni a una delle più rilevanti strutture produttive della Lucchesia, ma anche il “sentimento del tempo”: le voci che correvano per la città; la paura dei bombardamenti; il cibo razionato; le file mentre dentro e fuori le Mura si combatte una guerra sorda e feroce.

Con Andare al cinema, Giuseppe Guidi ci racconta i locali cinematografici della città, intesi come luoghi di socialità e cultura popolare, praticati e vissuti anche in quell’anno maledetto di fame, paura, rappresaglie. Ognuno di essi collegato con la scoperta del mondo circostante, visto e rielaborato con gli occhi di un adolescente di allora: le storie apprese sul grande schermo per comprendere la Storia. Pagine lievi, sul filo della memoria, ricche di spunti documentari e intrise di una garbata ironia.

Armando Sestani che con Il Real Collegio di Lucca, illustra il ruolo svolto da questa importante struttura cittadina nella storia recente di Lucca. L’Autore prende in esame soprattutto la destinazione assistenziale di questo edificio: prima, per iniziativa di monsignor Torrini, arcivescovo di Lucca, spazio destinato al soccorso degli sfollati, un’attività organizzata e gestita dagli Oblati del Volto Santo, ma anche sede di un’intensa attività antifascista (estate 1944); poi, sino al gennaio 1956, sede del Centro profughi di Lucca riservato agli esuli giuliano-dalmati dell’immediato dopoguerra. Per dirla con le parole dell’Autore, un “luogo di rifugio e solidarietà, ma anche di sofferenza ed emarginazione per migliaia di persone”.

Anche Roberto Pizzi ed Elena Profeti rielaborano il tema dei “luoghi della memoria” dal loro specifico punto di vista, quello di studiosi attenti alle vicende e ai protagonisti, alle manifestazioni e ai miti e simboli del periodo risorgimentale. Nei Luoghi della memoria risorgimentale nella Valle del Serchio, Elena Profeti illustra, contestualizzandoli dal punto di vista storico/estetico, i monumenti e le epigrafi realizzati per ricordare i protagonisti delle battaglie del nostro riscatto nazionale della Valle del Serchio, mentre Roberto Pizzi con Il monumento a Benedetto Cairoli sulle Mura urbane di Lucca partecipa al Lettore le tematiche relative alla statuaria risorgimentale a Lucca e alla complicate vicende che hanno prima allontanato e poi riportato sul Baluardo della Libertà il bronzo raffigurante l’uomo di Stato lombardo, opera di Urbano Lucchesi, importante artista dell’Ottocento toscano.
Il numero si chiude, come sempre, con la sezione delle recensioni librarie.

15 luglio 2014

"II ritorno" di Fabrizio Puccinelli



di Luciano Luciani

C’è un elemento ricorrente che lega questi racconti, “ritrovati” a più di vent’anni dalla scomparsa dell’Autore, Fabrizio Puccinelli (1936 – 1992): ed è il sentimento di una irriducibile disarmonia tra i protagonisti delle narrazioni e lo scenario in cui essi sono inseriti. Un nebuloso senso di disagio, una impalpabile stanchezza, una sfuggente pena esistenziale percorrono tutte le pagine della raccolta a partire dal primo racconto Il ritorno che dà il titolo al libro.

In esso un protagonista anonimo narra, in prima persona, come proprio mentre reduce della guerra d’Albania stia per rimettere piede a casa sua, venga rastrellata dai tedeschi negli ultimi giorni dell’occupazione militare dall’area geografica compresa tra le pendici a oriente delle Apuane e la valle del Serchio. Poi, come sfuggito fortunosamente alle voglie di violenza e di rappresaglia di quei militari, riconosciuti con sollievo i luoghi familiari, venga accolto nel cortile di casa prima da una mamma, ormai completamente imbiancata, e poi dalla sposa e il figlio.

Sembrerebbe un testo di memorialistica partigiana rielaborato in chiave narrativa, una scrittura tardo-resistenziale che, nel 1965, data di pubblicazione del racconto sulla rivista “Il Mondo” di Mario Pannunzio, conosceva ancora qualche fortuna letteraria e soprattutto cinematografica in occasione del ventesimo anniversario della Liberazione. Un nostos narrato secondo un’epica dimessa, stanca, antieroica. Un racconto interessante, ma senza grandi novità: la letteratura resistenziale, infatti, dopo gli “eroici furori” dell’immediato dopoguerra, aveva già prodotto testi di impianto più riflessivo, più meditativo, più capaci di una comprensione più larga della storia recente, della guerra e delle sofferenze che essa aveva introdotto non solo nella società e nella storia, ma nell’animo umano. La sorpresa vera per il lettore giunge là dove tanta letteratura resistenziale terminava: la liberazione, la fine della guerra, il ritorno a casa, la faticosa ripresa della normalità… È proprio a questo punto che inizia la storia che Puccinelli intende davvero raccontare: la vicenda di una condizione di disagio, di disaccordo, di incapacità a riconoscersi nel proprio tempo e nel proprio ambiente. Un dissenso ancor più doloroso perché avviene in una circostanza che dovrebbe essere di gioia, di festa, di esultanza… Così nel registro mantenuto sino a ora di una narrazione di segno realistico, l’Autore, introduce una torsione affabulatoria e il racconto assume un andamento favolistico. Trasfigurano i confini tra realtà e illusione e la valle liberata, fin a ora piena di sole, si popola progressivamente di ombre ingannevoli, di presenze che non corrispondono a dati reali, ma sono proiezioni delle speranze del protagonista. Fino alla improvvisa rivelazione di una condizione umana, personale e collettiva, di dolore, di desolazione, di squallore.

È questo senso di anomia, questa perdita di orientamento, di posizionamento storico-sociale-esistenziale, che ritroviamo anche negli altri racconti, espresse in modo più acuto nel secondo racconto, La raccolta, pubblicato in due puntate sempre sul “Mondo” nell’inverno del 1966. Qui la protagonista, Simona, in un tempo che assomiglia agli anni che vanno dalla ricostruzione a quelli che arrivano a lambire il boom economico e in luoghi che coincidono sempre con la valle del Serchio, per quanto si adoperi con dedizione per salvare i modi di una vita anteguerra, se non felice almeno serena, non riesce in questa sua dura impresa. Perché sembra essere intervenuta una “gelata”, un grande freddo degli animi, sotto la specie di un inarrestabile mutamento economico-sociale, dei costumi, che spopola le valli, vuota i paesi, allenta e inaridisce gli antichi legami di amicizia, solidarietà, appartenenza.

Puccinelli racconta gli anni in cui gli italiani pensarono di poter barattare le loro anime con l’aumento del prodotto interno lordo e del reddito pro capite: un processo inarrestabile che ci portò a sperperare un patrimonio morale fatto di tradizioni, credenze, valori, culture. E già allora nelle coscienze più sensibili, più avvertite, più acutamente attente a quello che si acquistava e a quello che si perdeva, si provava disorientamento, delusione, un sentimento lancinante di perdita.

Puccinelli è tra quanti riuscirono a intravvedere, prima e meglio, la catastrofe etica e culturale che l’affermazione delle magnifiche sorti e progressive della modernità e del consumismo stava preparando per tutti noi e ne fa raccontare lo spaesamento a Simona, che vede sfaldarsi la piccola comunità amicale nata attorno a sé e ai luoghi dell’infanzia e della giovinezza: Stefano, l’amico ex partigiano, sempre incerto tra restare e andarsene, sempre sul piede di una partenza ogni volta rimandata, muore in un incidente in moto; Rosalba, l’amica dei giorni spensierati dell’adolescenza, dopo un’effimera storia d’amore con Stefano, preferisce optare per la vita più facile e gratificante della Versilia. E a Simona e ai suoi fratelli non resta che aderire  all’indicazione/maledizione di Ungaretti, valida per tutti i Lucchesi, quelli di città e di campagna, di collina e montagna: “Qui la meta è partire”.

È, a mio modestissimo parere, La raccolta il racconto più bello, carico com’è di una percezione della modernità più subita che davvero desiderata, denso di malinconia, intriso di nostalgia per un passato a suo modo armonioso, ma destinato a un’irrimediabile estinzione.

Ai primi due racconti di impianto storico-realistico seguono pagine in cui i dati concreti (ambienti provinciali, paesani; piccole comunità sul limite tra tradizione e modernità) si intrecciano con elementi eccentrici e bizzarri. Merita di essere ricordato Fabulator qualis humanus dove un operatore della Grande Macchina che sovraintende all’equilibrio della società, ormai destinato al pensionamento, osserva e descrive, con qualche distante preoccupazione i segni di un progressivo incepparsi di quell’organismo sociale complessivo di cui cerca di comprendere senza riuscirci il senso ultimo. Un testo che si segnala anche per l’invenzione linguistica, contrappuntato com’è da espressioni in latino, l’indizio, nota il prefatore Franco Petroni del tentativo di Puccinelli “di ancorarsi a qualcosa di antico e quindi illusoriamente stabile” in un mondo sempre più incerto, fragile, privo di memoria.


Fabrizio Puccinelli, Il ritorno Sette racconti, a cura di Giovanni Armillotta, prefazione di Franco Petroni, collana Oggetti e Soggetti, ARACNE editrice, Roma 2014, pp. 150, Euro 14,00

05 luglio 2014

Il tunnel” di Ernesto Sabato




di Gianni Quilici

Ne Il tunnel del grande scrittore argentino Ernesto Sabato (Sopra eroi e tombe) c’è la radiografia di un’ossessione: l’amore di Juan Pablo, un pittore famoso per una ragazza, donna che è riuscita a comprendere il significato nascosto di un suo quadro. Amore, che, non trovando limiti, ha bisogno continuamente di conferme, senza poter avere sicurezze assolute, in quanto le conferme possono essere ipocrite, trovando il protagonista nell’immaginazione ogni possibile traccia di tradimento, ogni possibile colpa. La donna amata è quindi –in quanto libertà- possibile tradimento.
Non c’è salvezza psichica, quindi, per il pittore, che narra in prima persona, né il suicidio può essere una soluzione, perché esso è “gettarsi in grembo al nulla assoluto ed eterno”.

Questa ossessione non è lineare, ma è il risultato di un paranoico colloquio del pittore con se stesso, in cui rimugina a fondo i fatti, li esamina a lungo da differenti punti di vista. A volte è autocritico: riconosce che sta esagerando, che la sua è soltanto un’immaginazione morbosa, che ha le sue responsabilità e colpe o che, comunque, senza di lei la vita non avrebbe senso.

Racconta:
Per un secondo, lo spavento di dover distruggere quel che rimaneva del nostro amore e di rimanere definitivamente solo mi fece vacillare. Pensai che forse era possibile gettar da parte tutti i dubbi che mi torturavano. Che m’importava quel che fosse Maria al di là di noi stesi? Vedendo quelle panchine, quegli alberi, pensai che mai avrei potuto rassegnarmi a perdere il suo appoggio, non fosse che durante quegli istanti di comunione, di misterioso amore che ci univano. A misura che avanzavo in queste riflessioni andavo abituandomi all’idea di accettare il suo amore così, senza condizioni; e sempre più mi terrorizzava l’idea di rimanere senza nulla, assolutamente nulla(….) Alla fine cominciò a possedermi una gioia straripante, nel rendermi conto che nulla era perduto e che da quell’istante di lucidità poteva cominciare una nuova vita”.


Salvo poi, ogni volta, ricadere nelle sue tormentate e angosciose fissazioni sulla base di indizi puramente ipotetici, fino a precipitare in quello che il protagonista definisce “tunnel”. Il tunnel in cui va a finire Jaun Pablo, Ernesto Sabato ce lo fa conoscere, da subito, attraverso le parole dello stesso pittore, nell’incipit:
Basterà dire che sono Juan Pablo Castel, il pittore che uccise Maria Iribarne: suppongo che tutti ricordino il processo, e che non occorrano maggiori spiegazioni sulla mia persona”.
Un delitto, viene da pensare, che è rivolto anche verso se stesso nel bisogno  

Non è quindi un giallo, ma del giallo ha la tensione emotiva nella concatenazione di un delirio complesso tra follia e, a suo modo, razionalità, che è la grandezza del romanzo sottolineata, tra l’altro, da grandi scrittori.
Camus: “Ammiro la sua durezza, la sua intensità”; Thomas Mann: “Un libro impressionante”; Graham Green: “Ho una grande ammirazione per la  magnificenza della sua analisi psicologica”.

Ed è un delirio che diventa sarcasmo feroce nei confronti degli intellettuali, che discutono senza conoscere il valore ed anche il dolore delle cose. C’è un capitolo esemplare in questo senso, in cui il pittore si trova, suo malgrado, in una di quelle conversazioni intellettualistiche fitte di falso sapere e di inconsapevole presunzione, tra il cugino di Maria, che lui sospetta essere di lei l’amante, e la magra, così la definisce, “che fumava con un lunghissimo bocchino. Aveva un accento parigino, era maligna e miope”.

Il tunnel. Ernesto Sabato. Feltrinelli.