05 dicembre 2012

"Il tempo è un Dio breve" di Maria Pia Veladiano




di Mirta Vignatti

"Dimmi quello che leggi e ti dirò chi sei' ,è vero; ma ti conoscerei meglio se mi dicessi quello che rileggi.” François Mauriac
Consentitemi per una volta di anteporre una citazione in epigrafe a questa recensione: non è un caso che citi Mauriac -più avanti sarà chiaro- come non è a caso che abbia scelto una frase che parli di riletture. Credo infatti che il lettore forte che “rilegge” -oltre che qualificarsi e “dare una precisa immagine di sé”- fornisca anche segnali e indicazioni che valgono a definire i grandi romanzi della grande letteratura, riconoscendoli come tali proprio in virtù del fatto che solo i grandi libri vengono riletti.
 
Per quanto mi riguarda leggo molto, ma i libri che rileggo (sistematicamente e anche a distanza di tempo) sono pochi e si possono contare sulle dita delle due mani; tra questi ci sono opere (anche poesie) di Borges, Cortàzar, Calvino, Del Giudice, Kundera, Saramago. “Il tempo è un dio breve” entra a far parte di questo gruppo ristretto: ne termino or ora una seconda lettura, che probabilmente non sarà l'ultima.
 
E dopo quel tempo di sacro silenzio che sempre faccio trascorrere a libro chiuso, per risistemare le emozioni e razionalizzare gli stimoli ricevuti, lasciatemi dire che non deve stupire l'accostamento della recente fatica della Veladiano con i grandi classici elencati prima.
E' un libro, questo, che si pone già come “classico” fin dalla sua uscita; un libro a mio parere destinato a fare da punto di riferimento, che non segue correnti e che non ha pari nella narrativa italiana contemporanea. Un libro con il quale l'autrice delimita un proprio territorio di appartenenza nel mondo delle lettere, uno spazio peraltro poco frequentato soprattutto in questi ultimi decenni: quella narrativa, cioè, vincolata ai temi della fede e dei dubbi esistenziali, vissuti e proposti dalla parte di chi crede; una narrativa caratterizzata dal sentire cristiano modulato in tutte le sue pienezze, crisi, lacerazioni.
 
Personalmente non sono mai stata in sintonia con posizioni confessionali e/o integraliste; nella narrativa -per educazione e per cultura- ho sempre cercato altro. Ciò comunque non vuol dire che neghi l'importanza di certi autori che hanno legato la loro produzione alle tematiche del sentire cristiano; come nel cinema (penso a certe opere di Ermanno Olmi o al bellissimo “Il vangelo secondo Matteo” di Pasolini), so che esiste un versante apprezzabile della letteratura che delle problematiche legate alla fede o a certa religiosità più o meno dichiarata ha fatto il proprio fulcro, e in questo senso mi viene in mente quella certa narrativa francese che va dal secondo dopoguerra fino a tutti gli anni '50, quella forbice che comprende l'”ortodosso” Bernanos, il “dubbioso” Mauriac e l'”eretico” Gide. In questo solco, che credo non abbia avuto significative corrispondenze in Italia a parte certo teatro di Diego Fabbri e Ugo Betti o figure come Mario Pomilio e Giovanni Testori, autori sui quali però non ho elementi per approfondire, Maria Pia Veladiano va ad occupare uno spazio tutto suo, dato che -per idiosincrasie personali- tendo ad escludere qualsiasi accostamento con Susanna Tamaro, come da qualcuno avanzato.
 
Maria Pia Veladiano mi aveva già colpito con “La vita accanto”, sua opera d'esordio da me molto apprezzata, e attendevo con ansia una seconda prova. Devo dirlo subito: qui siamo di fronte a un formidabile romanzo, dotato di grande forza e pathos coinvolgente, e l'autrice non solo sa confermarvi il suo enorme talento narrativo , ma opera a mio parere un salto di qualità ancora più qualificante a livello di stile, di linguaggio e di riferimenti culturali su cui vale la pena soffermarsi.
 
Prima di tutto il linguaggio: sono convinta che dietro a “Il tempo è un dio breve” ci sia stato da parte dell'autrice un lavoro certosino sulla parola, cesellando e distillando termini fino a costruire una lingua pulita, essenziale, capace di creare suggestioni perfettamente corrispondenti ai contesti descritti (quanto sono tangibili le nebbie autunnali lombarde, la neve e il clima natalizio in Alto Adige, l'estate in Sardegna o in quella Liguria così botanicamente ridondante!) e ai contenuti forti narrati (l'inadeguatezza e la crisi dello spirito, il male di vivere, i dubbi esistenziali, l'amore la malattia la morte). Legando le descrizioni e le vicende ai temi esistenziali, la Veladiano sceglie la parola con tutte le sue potenzialità semantiche, parola non soltanto intesa come lemma, ma anche come “Verbo”, come parola che crea e anticipa significati con tutta la sua forza figurale. C'è una sacralità che vuole essere resa, quasi un clima liturgico dentro il quale l'effettualità si deve compiere soltanto dopo aver lasciato intendere le cause, spesso annunciate da premonizioni, sogni, memorie genetiche; la scrittura ha un ritmo a volte rapsodico e un tono a volte quasi ieratico, che fa pensare alle cantate sacre di Bach; una scrittura limpida, adamantina (ma non fredda) che mi ha ricordato a tratti quella di Daniele Del Giudice e -per rimanere in ambito femminile- quella dei primi lavori di Paola Capriolo.
 
L'autrice, per scelta, opera scarti e sottrazioni e una materia che avrebbe potuto cedere a retoriche ed emotive affabulazioni ci viene invece resa con una essenzialità e una limpidezza che stupiscono. La trama è fatta di corollari che si sviluppano da un nucleo di rilevanza universale: l'amore materno portato fino alle più estreme conseguenze, narrato attraverso un monologo di forte tensione. 
Ildegarda, la protagonista, è donna messa alla prova dalla vita fin dalla sua giovinezza, ma è donna dotata di “umanissimo amore” e illuminata da un'anima toccata dalla grazia e votata al bene (“animal grazioso e benigno”): in questo sta la sua forza, pur con tutte le sue crisi e i suoi angosciosi perché; il personaggio è di quelli che non si dimenticheranno mai, di quelli che si scavano una nicchia nella mente del lettore e lì rimangono; la grandezza del suo sacrificio avrebbe potuto alimentare una scrittura da tragedia greca, e invece ci viene resa quasi in punta di piedi , con la discrezione ed il silenzio che hanno sempre caratterizzato la sua vita. Come non apprezzare la penna che l'ha descritta e la mente che l'ha pensata? La capacità narrativa e la cultura teologica dell'autrice riescono a dar vita in modo straordinario al grande personaggio di Ildegarda, dotata di trasparente semplicità nella sua complessa accettazione del vivere, pur se investita dal male che un dio crudele e distratto consente, nonostante che il “miracolo” per certi versi avvenga.
 
Sono queste le letture che riempiono di gioia, che ci fanno pensare e che vogliamo ricominciare. A libro chiuso, infatti, non si può non venir sopraffatti da un'ondata di grande commozione, simile -per fare un paragone in ambito cinematografico- a quella che si prova dopo l'ultimo fotogramma di Ordet di Dreyer, film che mi piace accostare a questo formidabile romanzo; e si prova tutto il rispetto e tutta l'ammirazione che si deve -ed è una agnostica che lo scrive- verso chi crede, verso chi vive la propria fede pur se combattuta da dubbi e contraddizioni, e ha il coraggio di mettere a nudo la propria anima fin nelle sue pieghe più recondite. Leggete questo libro, per favore. Privarsene vuol dire rinunciare a un grande arricchimento dello spirito. E di questi tempi non c'è niente di cui abbiamo più bisogno.
Maria Pia Veladiano, “Il tempo è un dio breve”, Einaudi 2012.
 

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