di Mirta Vignatti
"Dimmi quello che leggi e ti dirò chi sei' ,è vero; ma ti conoscerei meglio se mi dicessi quello che rileggi.” François Mauriac
Consentitemi per una volta di anteporre una citazione in epigrafe a questa recensione: non è un caso che citi Mauriac -più avanti sarà chiaro- come non è a caso che abbia scelto una frase che parli di riletture. Credo infatti che il lettore forte che “rilegge” -oltre che qualificarsi e “dare una precisa immagine di sé”- fornisca anche segnali e indicazioni che valgono a definire i grandi romanzi della grande letteratura, riconoscendoli come tali proprio in virtù del fatto che solo i grandi libri vengono riletti.
Per quanto mi
riguarda leggo molto, ma i libri che rileggo (sistematicamente e anche a
distanza di tempo) sono pochi e si possono contare sulle dita delle due
mani; tra questi ci sono opere (anche poesie) di Borges, Cortàzar,
Calvino, Del Giudice, Kundera, Saramago. “Il tempo è un dio breve” entra
a far parte di questo gruppo ristretto: ne termino or ora una seconda
lettura, che probabilmente non sarà l'ultima.
E dopo quel tempo di
sacro silenzio che sempre faccio trascorrere a libro chiuso, per
risistemare le emozioni e razionalizzare gli stimoli ricevuti,
lasciatemi dire che non deve stupire l'accostamento della recente fatica
della Veladiano con i grandi classici elencati prima.
E' un libro, questo, che si pone già come “classico” fin dalla sua uscita; un libro a mio parere destinato a fare da punto di riferimento, che non segue correnti e che non ha pari nella narrativa italiana contemporanea. Un libro con il quale l'autrice delimita un proprio territorio di appartenenza nel mondo delle lettere, uno spazio peraltro poco frequentato soprattutto in questi ultimi decenni: quella narrativa, cioè, vincolata ai temi della fede e dei dubbi esistenziali, vissuti e proposti dalla parte di chi crede; una narrativa caratterizzata dal sentire cristiano modulato in tutte le sue pienezze, crisi, lacerazioni.
E' un libro, questo, che si pone già come “classico” fin dalla sua uscita; un libro a mio parere destinato a fare da punto di riferimento, che non segue correnti e che non ha pari nella narrativa italiana contemporanea. Un libro con il quale l'autrice delimita un proprio territorio di appartenenza nel mondo delle lettere, uno spazio peraltro poco frequentato soprattutto in questi ultimi decenni: quella narrativa, cioè, vincolata ai temi della fede e dei dubbi esistenziali, vissuti e proposti dalla parte di chi crede; una narrativa caratterizzata dal sentire cristiano modulato in tutte le sue pienezze, crisi, lacerazioni.
Personalmente non sono mai stata in sintonia con posizioni
confessionali e/o integraliste; nella narrativa -per educazione e per
cultura- ho sempre cercato altro. Ciò comunque non vuol dire che neghi
l'importanza di certi autori che hanno legato la loro produzione alle
tematiche del sentire cristiano; come nel cinema (penso a certe opere di
Ermanno Olmi o al bellissimo “Il vangelo secondo Matteo” di Pasolini),
so che esiste un versante apprezzabile della letteratura che delle
problematiche legate alla fede o a certa religiosità più o meno
dichiarata ha fatto il proprio fulcro, e in questo senso mi viene in
mente quella certa narrativa francese che va dal secondo dopoguerra fino
a tutti gli anni '50, quella forbice che comprende l'”ortodosso”
Bernanos, il “dubbioso” Mauriac e l'”eretico” Gide. In questo solco, che
credo non abbia avuto significative corrispondenze in Italia a parte
certo teatro di Diego Fabbri e Ugo Betti o figure come Mario Pomilio e
Giovanni Testori, autori sui quali però non ho elementi per
approfondire, Maria Pia Veladiano va ad occupare uno spazio tutto suo,
dato che -per idiosincrasie personali- tendo ad escludere qualsiasi
accostamento con Susanna Tamaro, come da qualcuno avanzato.
Maria
Pia Veladiano mi aveva già colpito con “La vita accanto”, sua opera
d'esordio da me molto apprezzata, e attendevo con ansia una seconda
prova. Devo dirlo subito: qui siamo di fronte a un formidabile romanzo,
dotato di grande forza e pathos coinvolgente, e l'autrice non solo sa
confermarvi il suo enorme talento narrativo , ma opera a mio parere un
salto di qualità ancora più qualificante a livello di stile, di
linguaggio e di riferimenti culturali su cui vale la pena soffermarsi.
Prima di tutto il linguaggio: sono convinta che dietro a “Il tempo è un
dio breve” ci sia stato da parte dell'autrice un lavoro certosino sulla
parola, cesellando e distillando termini fino a costruire una lingua
pulita, essenziale, capace di creare suggestioni perfettamente
corrispondenti ai contesti descritti (quanto sono tangibili le nebbie
autunnali lombarde, la neve e il clima natalizio in Alto Adige, l'estate
in Sardegna o in quella Liguria così botanicamente ridondante!) e ai
contenuti forti narrati (l'inadeguatezza e la crisi dello spirito, il
male di vivere, i dubbi esistenziali, l'amore la malattia la morte).
Legando le descrizioni e le vicende ai temi esistenziali, la Veladiano
sceglie la parola con tutte le sue potenzialità semantiche, parola non
soltanto intesa come lemma, ma anche come “Verbo”, come parola che crea e
anticipa significati con tutta la sua forza figurale. C'è una sacralità
che vuole essere resa, quasi un clima liturgico dentro il quale
l'effettualità si deve compiere soltanto dopo aver lasciato intendere
le cause, spesso annunciate da premonizioni, sogni, memorie genetiche;
la scrittura ha un ritmo a volte rapsodico e un tono a volte quasi
ieratico, che fa pensare alle cantate sacre di Bach; una scrittura
limpida, adamantina (ma non fredda) che mi ha ricordato a tratti quella
di Daniele Del Giudice e -per rimanere in ambito femminile- quella dei
primi lavori di Paola Capriolo.
L'autrice, per scelta, opera scarti e
sottrazioni e una materia che avrebbe potuto cedere a retoriche ed
emotive affabulazioni ci viene invece resa con una essenzialità e una
limpidezza che stupiscono. La trama è fatta di corollari che si
sviluppano da un nucleo di rilevanza universale: l'amore materno portato
fino alle più estreme conseguenze, narrato attraverso un monologo di
forte tensione.
Ildegarda, la protagonista, è donna messa alla prova
dalla vita fin dalla sua giovinezza, ma è donna dotata di “umanissimo
amore” e illuminata da un'anima toccata dalla grazia e votata al bene
(“animal grazioso e benigno”): in questo sta la sua forza, pur con tutte
le sue crisi e i suoi angosciosi perché; il personaggio è di quelli che
non si dimenticheranno mai, di quelli che si scavano una nicchia nella
mente del lettore e lì rimangono; la grandezza del suo sacrificio
avrebbe potuto alimentare una scrittura da tragedia greca, e invece ci
viene resa quasi in punta di piedi , con la discrezione ed il silenzio
che hanno sempre caratterizzato la sua vita. Come non apprezzare la
penna che l'ha descritta e la mente che l'ha pensata? La capacità
narrativa e la cultura teologica dell'autrice riescono a dar vita in
modo straordinario al grande personaggio di Ildegarda, dotata di
trasparente semplicità nella sua complessa accettazione del vivere, pur
se investita dal male che un dio crudele e distratto consente,
nonostante che il “miracolo” per certi versi avvenga.
Sono queste le
letture che riempiono di gioia, che ci fanno pensare e che vogliamo
ricominciare. A libro chiuso, infatti, non si può non venir sopraffatti
da un'ondata di grande commozione, simile -per fare un paragone in
ambito cinematografico- a quella che si prova dopo l'ultimo fotogramma
di Ordet di Dreyer, film che mi piace accostare a questo formidabile
romanzo; e si prova tutto il rispetto e tutta l'ammirazione che si deve
-ed è una agnostica che lo scrive- verso chi crede, verso chi vive la
propria fede pur se combattuta da dubbi e contraddizioni, e ha il
coraggio di mettere a nudo la propria anima fin nelle sue pieghe più
recondite. Leggete questo libro, per favore. Privarsene vuol dire
rinunciare a un grande arricchimento dello spirito. E di questi tempi
non c'è niente di cui abbiamo più bisogno.
Maria Pia Veladiano, “Il tempo è un dio breve”, Einaudi 2012.
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