di Mirta Vignatti
Chiudo in questo
momento il libro dopo una seconda e più ponderata lettura e devo proprio
scriverlo a chiare lettere: il romanzo è notevolissimo, oserei dire per certi
versi superiore a “Domani nella battaglia pensa a me”. Non è un caso che sia
stato premiato con un importante, autorevole riconoscimento in Spagna (e il
relativo assegno è stato dignitosamente rifiutato dall'autore).
Lo stile è quello tipico di Marìas: una scrittura magnetica, densa
di significati, che avvolge il lettore con il suo periodare lungo e a volte
digressivo; i dialoghi sono quasi sempre ipotizzati, le battute spesso
precedute da ciò che il personaggio pensa di poter rispondere a ciò che
l'interlocutore potrebbe dire in determinate situazioni. Insomma, la narrazione
si muove tra ipotesi e realtà, tra pensieri e parole, poggiandosi su fatti che
dietro la loro apparente realtà nascondono forse altre verità o altre
possibilità combinatorie.
E' un romanzo di
cui indovineremmo subito l'autore, se ce lo facessero leggere celandone il
nome: corrisponde infatti in pieno alla poetica di Marìas, alla sua scrittura
psicologico-filosofica, incentrata in questo caso sulle opposizioni
verità/menzogna, vita/morte, egoismo/rispetto.
La trama, pur nella
complessità e profondità delle riflessioni che induce, è di una semplicità ed
essenzialità disarmanti: una giovane editor di una casa editrice di Madrid
osserva ogni mattina, nel bar dove fa colazione, una coppia -presumibilmente
coniugi- che ritrova sempre allo stesso tavolino intenti anch'essi alla loro
consumazione; la coppia offre di sé un'immagine che lascia pensare a serenità
ed affetti consolidati, e la giovane donna si lega a questa presenza
quotidiana, senza tuttavia scambiare nessuna parola né accennare a sorrisi,
fantasticando su quella che potrebbe essere la loro vita: una bella casa, gli
affetti, i figli, un certo benessere denunciato dal loro aspetto e dal loro
abbigliamento. Ma la realtà non è quella che sembra, e la vicenda prenderà una
direzione imprevista, assumendo le caratteristiche di un “anti-noir”
psicologico. Non mi dilungo oltre perché molto è già stato scritto, e meglio,
da Concita De Gregorio in una
recensione-intervista a Javier Marìas segnalata da una attenta amica lettrice e
davvero imperdibile: ubi maior, minor cessat.
Aggiungo soltanto che il romanzo è
impreziosito da due importanti rimandi metaletterari, da non considerarsi come
digressioni ma perfettamente coerenti con la narrazione e funzionali alla sua
completa interpretazione. Si tratta della citazione e di continue riprese da
una novella di Balzac e da un passo
de “I
tre moschettieri” di Dumas.
E a proposito del
citazionismo e del periodare per flussi di pensiero mi rifaccio (perdonate
l'autocitazione) a quanto già scritto nella recensione di “Domani nella
battaglia pensa a me”; quanto già detto in quella sede trova qui ampia
conferma, oltre che nell'ambito più generale del post-modernismo, anche a
livello di prossimità di contesti e contaminazione di generi: le ultime 30 pagine
de “Gli innamoramenti” potrebbero essere le scene di un film di Almodòvar, tali e quali.
Lasciatemi però concludere con un omaggio e
una riflessione sulla traduzione. Questo libro è stato tradotto da Glauco Felici, venuto improvvisamente a
mancare poco dopo aver terminato la sua ultima, sontuosa opera. L'editore ha
avuto appena il tempo di apporre in epigrafe un “in memoriam”, essenziale pur
nella sua freddezza. Penso tuttavia che sarebbe stato il caso di prevedere
almeno una fascetta in cui ricordare con maggior enfasi il lavoro di Glauco
Felici, che proprio con questo romanzo trova compimento per sempre. Da ora in
poi sarà un altro Marìas quello che leggeremo in traduzione italiana, essendo
venuto a mancare quello “scrittore dietro lo scrittore” che fino ad ora ci
aveva fatto conoscere -con le sue competenze, le sue scelte linguistiche, la
sua cultura- il grande autore spagnolo. E credo che noi che leggiamo ora,
coscienti della tragica morte di Glauco, percepiamo in maniera più complessa il
tessuto linguistico non facile di Marìas, reso peraltro splendidamente dalle
scelte e dalle parole del traduttore. Credo che non si possano non provare
sensazioni particolari nel leggere riflessioni sulla morte, su quali memorie
rimangono e si elaborano nel lutto, su come sopravvivono i congiunti del
defunto, pensando che queste riflessioni ci sono state veicolate dalle parole
pensate e scelte da Glauco Felici e che probabilmente saranno state anche le
sue ultime premonitrici riflessioni.
Non conosco quali
reazioni abbia avuto Javier Marìas nell'apprendere la notizia della morte del
suo traduttore appena dopo aver terminato il lavoro con “Gli innamoramenti”.
Marìas e Felici si conoscevano e l'autore aveva scherzosamente nominato il suo
traduttore “visconte” di un regno immaginario di menti elette. Sono sicura che
Marìas, oltre alla perdita incolmabile, avrà colto nel fatto drammatico una
ulteriore conferma degli intrecci di letteratura e vita, una conferma della
foresta intricata di coincidenze e casualità che è la vita, nella quale ci
muoviamo componendo le nostre esistenze tassello dopo tassello, ma anche
ferendoci e sanguinando ad ogni piè sospinto.
Javier Marìas, “Gli innamoramenti”, Einaudi
2012.
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