“Il
tempo lotta al buio col tuo sogno
boscaglia
verde e bianca
quercia
fanciulla quercia millenaria
il
vento ti sradica e trascina e rade al suolo
apre
il tuo pensiero e lo disperde”
(Octavio Paz, Temporale)
(Octavio Paz, Temporale)
Mario Vargas Llosa,
o la letteratura come orgia perpetua
Per molto tempo Mario
Vargas Llosa fu per me l’autore de L’orgia perpetua Flaubert e Madame
Bovary (Rizzoli, Milano 1986, pp.256). Questo saggio magistrale cadde in un
periodo di intensa e ingenua scoperta del romanzo. Dopo il primo amore per
Dostoevskij e Tolstoj; per Padre e figli di Turgenev, con la sua
meravigliosa elegia finale sulle meste figure dei genitori, degna di un dipinto
di Millet; e dopo qualche racconto di Pietroburgo di Gogol, letto male e
abbandonato a metà per un tentativo di goffo arrembaggio all’Ulysses, fu
la volta dell’opera di Flaubert. Non che il suo mondo narrativo fosse
particolarmente accessibile rispetto ad altri classici; ma quella manciata di
personaggi entrarono a segnare la mia adolescenza in modo durevole, fin quasi a
prevalere sulla realtà quotidiana, che, per un magico rovesciamento, stingeva i
suoi contorni contro i caratteri e le voci di Frédéric Moreau, della signora
Arnoux, di Salomé, di Felicita la domestica dal cuore semplice, del farmacista
Homais. E in questa persistenza dei personaggi flaubertiani entrava in gioco il
bovarismo del viveur de romans, espressione coniata da Albert
Thibaudet per indicare il lettore che, sospesa la credulità terrestre di
Sancho per sposare la causa di Don Chisciotte, si slancia in un volo ideale,
fino all’abbandono, nelle iridescenti, evocative e spregiudicate menzogne del
romanzo. Ed è proprio in questo ratto del cuore e della mente che i miti
irrompono come torme moresche di venti, e spargono la loro malia potentissima
nelle mente dei lettori adolescenti. Una sera faticavo persino ad
addormentarmi, perché non sapevo di aver chiuso il libro su uno dei vertici
della letteratura europea e brancolavo stordito nel buio. Era precisamente la
scena in cui Léon, dall’interno del fiacre nel cui ventre sta viaggiando con
Emma, grida al cocchiere di continuare la corsa, di spronare i cavalli sempre
più forte. Léon che, per un’intera sequenza, diventa urlo sferzante proveniente
da una capsula ermeticamente chiusa: “Continui!”; “Vada avanti!”; “No, sempre
diritto!”, in un delirante climax erotico sempre più concitato; mentre il pover’uomo
“dall’alto del suo sedile, lanciava alle osterie sguardi disperati. Non capiva
quale furore della locomozione spingesse quegli individui a non volersi
fermare.”; e chi, nelle strade o sul porto, vedeva passare quella vettura
indemoniata, con i ronzini sudati e il cocchiere “quasi piangente di sete”,
sbarrava gli occhi davanti a quella “carrozza con le tendine abbassate, che
ricompariva di continuo, più chiusa di una tomba e sballottata come una nave.”;
fino a quando - termina Flaubert - in aperta campagna, “una mano nuda passò
sotto le tendine di tela gialla.”
I lettori tra i sedici e i
diciotto anni subiscono l’attrazione oscura e seducente dell’eros. In questo
territorio innominabile, amica e sorella mi divenne la penna del sedicenne
Flaubert il cui immaginario di metafore, il cui fraseggio gonfio di parole
erotizzate ebbe l’effetto di spiovere sugli oggetti inaccessibili della mia
psiche, accendendoli di luce nuova. Memorie di un pazzo e Novembre erano
pur sempre mondi partoriti dall’esperienza di un mio coetaneo, il quale andava
scoprendomi la natura umana adolescente, la passionalità incontrollata, la
lingua mistica dell’amore-passione stando immerso nell’ombelico sotterraneo
della scrittura come “orgia perpetua”. Così, portato dalla parola saggistica di
Mario Vargas Llosa, scoprivo l’inesauribile tastiera dell’umanità flaubertiana:
un campionario di individui calati in perfette macchine narrative. E nonostante
siano passati due lustri, ho ancora chiaro il ricordo della sensazione di
stupore e ammirazione che provai di fronte al trittico finale, a quei Trois
contes concepiti da Flaubert nel 1876, a quattro anni appena dalla morte e dopo
aver perduta la sua musa epistolare, Louise Colet. Tre racconti: scritti senza
tremito e con la perfezione di un maestro orologiaio.
Suona vero che ogni
adolescenza gira dentro il suo personalissimo zodiaco di miti eterni. Il mio,
almeno sul terreno della letteratura, era quel Flaubert sempre così lontano dal
confessare agli amici il suo ritiro dalla scrittura. Era l’ostinato anacoreta
che compulsava centinaia di libri in vista del grandioso progetto di Bouvard
et Pécuchet. Per lui, fedele ad una vocazione demoniaca che gli rubava
tutto il tempo della vita per convertirlo in scrittura, l’allontanamento dallo
scrittorio di Croisset sarebbe stato un suicidio. Flaubert non era più solo un ‘classico’,
divenne presto il mito per eccellenza di resistenza alla vita nel fuoco della
creazione artistica. Mi riempiva di coraggio il destino di questo scrittore:
messo precocemente sulla via della scrittura e cosciente, fin dall’adolescenza,
di esser nato per far parte del novero degli scrittori che muoiono con la penna
in mano. Flaubert incarnava il tipo di scrittore per il quale il pur minimo
cedimento della volontà creativa avrebbe, da un lato, trascinato al fallimento
un intero sistema esistenziale e, dall’altro, avrebbe sancito il tradimento di
una fede nella scrittura vissuta come mistica irrinunciabile. Ma come ogni fede
autentica, anche quella flaubertiana era profondamente venata. Numerose crepe
correvano sulla superficie della sua vocazione: l’Epistolario è tutto
tramato di crisi sboccate in feroci invettive contro la vita; in minacce di
gesti estremi; in martiri di ore e di giorni, folli scoperte espressive; in
separazioni e divorzi dalla musa. Come quella di Baudelaire, muse malade dalle
iridi colme di visioni notturne e paurose malinconie, anche la musa
flaubertiana era frequentemente maltrattata: bestemmie, imprecazioni, rifiuti,
odi, rancori, nostalgia di un desiderio di normalità, fughe memorabili e
ritorni struggenti di padre, di figlio, di amante - era questo il romanzo che
quotidianamente si svolgeva nell’officina creativa di Croisset.
In questo quadro di
impressioni e sensazioni adolescenziali, Mario Vargas Llosa irruppe a
suggerirmi la parola giusta: la letteratura, per scrittori viscerali come
Flaubert, era “un’orgia perpetua”. Lo provavano vertici come Madame Bovary e
l’Educàtion sentimentale; oppure, eterni ritorni su opere della
giovinezza, come la ripresa del possente cartone preparatorio delle giovanili Tentation
de Saint-Antoine; e lo registrava, in medias res, il lavico corso
delle idee, delle intuizioni, delle grida verbali, delle confessioni
strazianti, delle malinconie e degli scatti di innovazione stilistica che senza
posa continuavano a levigare il grande letto della Correspondances.
Al grande castello
flaubertiano giustapponevo la letteratura critica. Dopo l’opera di Mario Vargas
Llosa, fu la volta della storica monografia di Victor Brombert; alla
quale seguirono stralci dell’incompiuta cattedrale saggistica di Sartre
e le pagine finemente ricamate di Pietro Citati sugli scintillanti occhi
di Emma. Nei corsi di letteratura francese, a Pisa, la voce di un maestro come Francesco
Orlando mi avrebbe rivelato l’esistenza di Mimesis di Erich
Auerbach, uno dei saggi più belli scritti sotto il cielo dell’Occidente. Lì,
attraverso l’analisi del realismo dantesco, rabelaisiano, stendhaliano, zoliano
avrei trovato molti punti fermi sulla natura del realismo di Flaubert. E sempre
nell’ambito della francesistica pisana - evidentemente in un torno d’anni
particolarmente fecondi - sarebbe arrivato l’anno del secondo incontro più
importante della mia vita, quello con Norina Fornasier, il cui stile e
pensiero non assomigliava a nessun altro ascoltato e appreso in ambito
accademico fino a quel momento. Poetessa (Infanzie, Kolibris edizioni,
2012), studiosa e traduttrice di Baudelaire, esperta di scritture femminili del
Novecento; autrice del più bel saggio italiano su Marguerite Duras (Marguerite
Duras un’arte della povertà, ETS, 2001), Norina Fornasier sapeva leggere il
romanzo francese realista dell’Ottocento con lo stupore intatto e appassionato
di una matricola. Profonda conoscitrice di Freud (e di un metodo psicoanalitico
trasferito sulle opere letterarie senza fumisterie interpretative) e della
natura umana, Norina Fornasier ci parlava di Flaubert dal di dentro del
processo creativo, non solo facendo ruotare le lezioni sulla verità del testo;
attraversando la selva dell’epistolario e degli stadi redazionali di Madame
Bovary; intrecciando l’analisi dei romanzi ad una più vasta rete di
discipline ausiliarie (la storia, la psicoanalisi, la stilistica, l’antropologia,
le pagine di Marx sull’ascesa del capitalismo e sul romanzo come moderna epopea
borghese); ma ci portava soprattutto nel cuore segreto dei romanzi smontando e
rimontando, sotto i nostri occhi, il meccanismo dello stile, l’uso dei dettagli
quotidiani incendiati di ‘realismo visionario’ (ricordo l’analisi dell’irreale
berretto di Charles Bovary nel primo capitolo), ricostruendoci, passo passo,
gli occhiali del romanziere sul mondo, sull’uomo e sulla vita in provincia di
Emma, dal cui angolo di terra Flaubert finiva per cogliere lo spirito della
provincia tout court. Norina Fornasier faceva lezione pensando come
un romanziere, sedotta dal desiderio, forse, che qualcuno di noi avrebbe un
giorno seguito quella strada con coraggio e ostinazione; o, chi, già
incamminato, non l’avrebbe tradita grazie alla resistenza etica e al mestiere
di scrivere esemplati da Flaubert. Nessuno riuscì a farmi capire il profondo
senso dell’apprendistato creativo e il lavorio della malinconia che lo divora e
alimenta, come le lezioni di Norina Fornasier su Flaubert, e, più tardi, su
Baudelaire e Proust.
Intanto, sullo sfondo,
campeggiava sempre il profilo de L’orgia perpetua di Mario Vargas Llosa.
Pochi altri testi, per quanto profondamente intelligenti, continuavano a
portarsi addosso quella lucidità di pensiero, quella penetrazione nella natura
del romanzo e quel viaggio nelle viscere espressive del personaggio che
conteneva questo saggio su Flaubert. Era chiaro che in quelle pagine era
filtrata molta sostanza delle lezioni di letteratura di un maestro come Miguel
de Unamuno. Ma nell’allievo il contenuto e la prassi del grande padre
intellettuale erano trasformati e arricchiti nelle maglie di uno splendido
metodo analitico sorretto da una non comune finezza di pensiero e libertà di
movimento. Quante volte Vargas Llosa avrà
letto e riletto le pagine di Miguel del Unamuno sulla natura della
forma-romanzo e sul Don Chisciotte, per poi tornarvi sopra con i propri
occhiali di lettore sapiente? Anzi, questo suo dialogo, dimostra quanto sia
vero l’adagio che dice “non ci si libera mai dei grandi maestri intellettuali”;
nemmeno con la maturità, nemmeno con la scoperta di un proprio stile; possiamo
tutt’al più fingere di dimenticarli, far finta di ucciderli allontanandoci dal
loro verbo, criticando alcuni limiti del loro lavoro; contestandone l’autorità
generazionale sgusciando schivi di spalle lungo opposti sentieri. Ma tutto
questo meccanismo raffinato di paziente erosione si ingolferà quando scopriremo
che la nostra parola scritta non ha mai realmente abbandonato i suoi idoli; e
che, in modi diversi e invisibili, essa continuerà a trattenerli vicino a sé,
anche quando li farà tacere, discosti su qualche riva lontana. La nostra parola
li aveva accolti nel suo grembo arcaico, in un giorno di orfanità, con la
promessa di non restituirli più al passato. E forse la scrittura giocherà ad
illudersi che ogni pagina possa andare adulta per il mondo, mentre continuerà
sottopelle a tessere struggenti lettere al padre.
***
Ortega y Gasset, o
della bellezza delle argomentazioni
Per molti anni ancora, anche
il nome di Ortega y Gasset sarebbe rimasto legato a un unico libro e ad
un unico personaggio: quello delle meditazioni sul Don Chisciotte, scritte nel
1914. Almeno fino a quando avrei scoperto che questo pensatore e intellettuale,
classe 1883, allievo di Miguel de Unamuno, diviso tra la docenza universitaria
a Madrid, inarcata su psicologia, metafisica e letteratura, e la militanza in
riviste e gruppi, nel 1984 aveva dato alle stampe una delle raccolte di saggi
più belle del secolo: Lo spettatore (Guanda, Milano 1993, pp.234, Euro
13,94).
Bisogna essere dotati di una
singolare bravura nel riuscire a tenere insieme, senza dissonanze e con variate
soluzioni di continuità, una piccola estetica portatile del tranvai e l’iconografia
bacchica in Tiziano, Poussin e Velàzquez; una meditazione sulla democrazia e
una disquisizione sulla funzione della cornice nell’opera d’arte; così come
occorre un gusto infinitamente sottile per la variazione di registro stilistico
nel saper affiancare, senza stridore, incipit folgoranti come: “Nella
morfologia dell’essere femminile forse non ci sono figure più strane di quelle
di Giuditta e di Salomé, le due donne cha hanno ciascuna due teste: la loro e
quella tagliata.” e un’acuta disanima
storica di ciò che è stata la dittatura fascista. E occorre, inoltre, un ampio
e mobile occhio intellettuale per tessere, nel disegno di un unico ordito,
campi dello scibile umano tra loro tanto lontani nel tempo e nello spazio, come
il meraviglioso fascio di glosse sui canti e i racconti dell’antico Egitto e
certe riflessioni sulla civiltà moderna, sulla crisi della cultura, sulle
masse, sul lessico contemporaneo, e sulla struttura della psiche maschile e
femminile. L’aspetto sorprendente di quest’impasto magmatico non è solo la
versatilità della poligrafia e la pluralità dei registri; quanto quella cifra
di purissima e cartesiana linearità che non viene mai meno, anzi ci guida nelle
viscere delle province e delle propaggini di un vastissimo territorio mentale.
Si fiuta lo stile del pensiero di Ortega y Gasset in ogni interstizio
concettuale e in ogni metafora chiarificatrice. Quando leggiamo, ad esempio: “L’incomprensione
della vita infantile che ci affligge, dipende dal fatto che giudichiamo gli
atti dei bambini come se questi fossero sommersi nel nostro stesso ambiente” (La
psicologia del sonaglio), e, nel capitolo dopo: “la Gioconda è la donna
essenziale, che conserva intatto il suo incanto. Madre e sposa, sorella e
figlia sono i precipitati che dà la femminilità, le forme che la donna riveste
quando cessa di essere donna e non lo è ancora. La maggior parte delle donne
hanno solo un’ora nella loro vita e gli uomini sono dei don Giovanni solo per
qualche momento.” (Cercando un tema). Ad unire momenti così differenti
in una scia di tensione, maculata di lampi apodittici, è uno degli elementi
portanti connaturati ai più bei diari intellettuali dell‘Occidente: la
bellezza delle argomentazioni. Non so se questa espressione sia legittima
tanto da poter fissare, oltre il campo delle suggestioni, la forza di un valore
universale del pensiero; ma ci sono scrittori che possiedono in tale grado la
capacità di pulire il concetto fino a conferirgli una vita adamantina che
davvero non riesco ad immaginare altre formule per esprimere questo dono. Le
loro pagine sono simili a paesaggi che un occhio nudo può esplorare nei primi
piani, come nelle quinte più lontane, senza mai perdere il nitore dei contorni
degli oggetti e dell’insieme.
Quando leggiamo opere come gli
Essais di Montaigne, i Caratteri di La Bruyere, Aut-Aut
di Kierkegaard, Danubio di Claudio Magris, l’affresco
letterario italiano di Francesco De Sanctis o qualsiasi libro di Elias
Canetti e del messicano Octavio Paz, questo tipo singolare di
bellezza - la bellezza delle argomentazioni - ci viene incontro in tutta
la sua concretezza, assume lo statuto inventivo di un’assoluta chiarità
meridiana e si impone come indelebile marchio di fabbrica della grande
tradizione della saggistica.
In questa costellazione di
pleiadi, la medesima condizione privilegiata permea di sé ogni brano de Lo
spettatore di Ortega y Gasset. Per coglierne la portata è sufficiente
trascegliere, tra i molti possibili, due interventi legati a questioni
letterarie. Ne Il Don Chisciotte nella scuola, il filosofo prende le
mosse interrogandosi sulla legittimità necessaria del romanzo di Cervantes
nella formazione giovanile e finisce a trattare, quasi per gemmazione, la
natura della pedagogia, della macchina nella modernità, del desiderio, del mito
e dell’ambiente. Mentre in Tempo, distanza e forma nell’arte di Proust, Ortega
spiega la rivoluzione espressiva del romanziere francese sviluppando il
concetto di “invenzione” così come la tradizione antica l’aveva modellato e così
come la recherche creativa di Proust ha saputo rinnovare, grazie ad un
nuovo “tempo” e ad un nuovo “spazio” della memoria e dell’inconscio ricostruiti
letterariamente per poetiche intermittenze del cuore. Ancora una volta, una
bellezza particolare si raccoglie nelle prima righe del saggio: “Ma c’è un
altro tipo di scrittori che hanno la fortuna o la genialità di essersi
imbattuti in un filone di ‘cose’. La loro situazione è molto simile a quella
degli inventori scientifici. Con una semplicità e con un’evidenza stupefacenti
hanno trovato che il loro piede scivolava su un nuovo campo di possibilità estetiche.
Se, servendosi di una vaga parola mistica, si suole chiamare ‘creatori’ gli
scrittori suddetti, bisognerà chiamare questi ‘inventori’, nel senso più latino
della parola. Hanno trovato una nuova fauna occulta in paesaggi intatti; almeno
hanno trovato un nuovo modo di vedere, una semplice legge ottica con un certo
indice inusitato di rifrazione. La posizione di questi autori è molto più
solida: anche se la loro opera è sempre identica a se stessa e non promette
cose nuove, spettacoli inediti, è difficile che manchi in noi il desiderio di
vedere. Quando Platone cerca una categoria sicura in cui iscrivere i filosofi
si decide per la classe dei filoteamoni o amici del vedere. Forse pensava che
la virtù più costante dell’uomo fosse un certo entusiasmo visuale.”
Fluidità della conversazione;
profondità di pensiero e di sentimento; solidità e naturalezza stilistica;
estro e improvvisazione; abilità tessitrice nel discoprire corrispondenze tra
campi lontani: sono solo alcuni arpeggi della scrittura saggistica di José
Ortega y Gasset. Ma c’è un altro elemento unificatore, una sorta di tonalità di
fondo che avvicina il pensiero del filosofo spagnolo e la sua prosa alla grande
forma del saggio europeo. Per comprendere questa appartenenza al saggio come “genere
letterario” dobbiamo rileggere ciò che dice Alfonso Berardinelli nel suo
celebre La forma del saggio. Vien fatto di chiedersi: che cosa
contraddistingue il bravo e rigoroso ricercatore scientifico dal saggistica di
razza? Per più di duecento pagine Berardinelli ci spiega “forse il più mutevole
e inafferrabile dei generi”, interrogando le pagine di Leopardi, di Nietzsche e
di Ruskin, dei “saggisti in versi o anche in prosa”. E quando ci descrive lo
statuto di questo organismo sfuggente e composito come qualcosa che riesce ad
inglobare un’ispirazione “sussultoria, incostante, disorganica”; una scrittura
porosamente dilatata sul proprio presente e “in perpetua instabilità”; un
dettato imbastito da un “visionario del pensiero e un dialettico della metafora”
che “scontento di se stesso, finisce per scontentare tutti, sia chi lo vorrebbe
più dialettico, sia chi lo vorrebbe più visionario”, sentiamo che da questo
identikit emerge una fisionomia non lontana dal temperamento di Ortega y
Gasset. Ritroviamo, ad esempio, il suo spirito di osservazione delle cose in
questa frase di Berardinelli: “Il saggista non inventa universi alternativi, né
costruisce una ben organizzata e speculare teoria del reale. Se può sembrare
che si tenga un po’ al riparo, con le sue divagazioni, dalla verità e dalla
bellezza, è solo perché non osa fronteggiarle o non crede che fronteggiarle
sia possibile. Sceglie la via indiretta
e momentanea, fa risuonare i concetti come voci, li fa entrare in scena come
maschere.”
Ortega y Gasset possiede tutto
questo? Bisogna leggerlo per sentirlo.
Mario Vargas Llosa, L’orgia
perpetua. Flaubert e Madame Bovary, Rizzoli, Milano 1986, pp.256, euro
11,36
José Ortega y Gasset, Lo
spettatore, a cura di Crlo Bo, Guanda, Milano 1993, pp.234, Euro 13,94
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