21 dicembre 2012

"Simone De Beauvoir" di Irving Penn


Paris, 1957

di Gianni Quilici
 
Foto non immediata come potrebbe apparire a prima vista, ma studiata. Lo studio, però, non impedisce mai ciò che potremmo chiamare “poesia”. E’ come il pittore che  dipinge un oggetto. Non copia, insegue una propria visione, a volte trasfigurando ciò che naturalmente si vede.

Così Irving Penn: predispone uno scenario e una luce. Per la verità molto semplici. Una poltrona ( che nello scatto si intravede appena) ed una luce con l’ombra che via via sfuma...

Su questo quadro viene collocata e si colloca  Simone De Beauvoir. L’obbiettivo la coglie frontalmente in primo piano. Per raggiungere questa posizione, come vediamo, ha dovuto far ruotare la testa. Se proviamo a eseguire quel movimento ci accorgiamo che ciò provoca una contrazione di muscoli, che se, per un verso, indica una volontà, per un altro può favorire quello sguardo. E comunque, a parte ciò, è quello sguardo volitivo e fermo, ma insieme leggero, privo, cioè, di ostentazione e di forzature, in un volto chiaro-scuro severo, ma limpido e pulito, che colpisce e dà “unicità” alla foto.

In più le ombre come elemento dialettico. L’ombra che dalla guancia sfiora l’occhio, le ombre sullo sfondo. Sottolineature appena contrastanti,  che danno maggiore impronta espressiva allo scatto.  

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di David Pugnana

Wikipedia dà una definzione sottile di 'fotogenìa': "La fotogenia è la capacità di maggiorazione estetica della realtà". Per quanto il termine fotogenia sia acquisito nel linguaggio corrente, tanto che nessun avanzerebbe più dubbi semantici, non sapevo che essa fosse (anche) quest'altra cosa. Nella definizione dell'enciclopedia, tutto si rovescia. Fotogenia non è più, quindi, la bellezza innata che possiedono alcuni soggetti e altri no; non è più quella miscela di linee e volumi (in)scritti in un viso con particolare maestria e che, stando nell'obbiettivo come in un habitat naturale, sviluppano senza sforzo potenza iconica. Su questo statuto della fotogenìa, da sempre, siamo tutti d'accordo: ogni album di famiglia ha i suoi soggetti che vengono particolarmente bene, persino quando a scattare non sia un Irving Penn, ma uno degli innumerevoli fotografi di provincia dai quali le famiglie o i singoli, all'inizio del XX secolo, andavano per contemplarsi in fotografia, e, talvolta, senza sapienti dosaggi delle luci e delle ombre. Zie, nonne, cugine, amiche, padri e madri di un tempo lontano attraversano il tempo e le trasformazioni storiche della bellezza secondo le epoche, mantendendo intatta la loro fama di 'belle' e 'belli', impreziosendo l'araldica del casato con la loro fotogenia.

Ma la fotogenia come risultato di una 'maggiorazione estetica' prodotta da una "capacità" è un altro paio di maniche. Significa che in mezzo è avvenuta una "costruzione": uno "studio" finalizzato alla ricerca di un valore aggiunto di bellezza, qualcosa che 'maggiori' il Vero di natura, incrementandolo, accrescendolo, dilatandolo. Con che cosa? Con " l'estetica", come vuole la definizione.

E' un tasto che ha già toccato Gianni Quilici,scomponendo l'immagine di Simone de Beauvoir nelle sue chiavi formali: il disporsi delle zone di luce; la curvatura dei capelli che prosegue nella lama d'ombra della guancia e si scioglie sul bavero del cappotto; la tramatura fittissima del bavero, e quello schiaffo di luce che dallo schienale della poltrona rampolla sulla spalla e si fa puntolino nell'iride. Un gioco di rispondenze perfetto su cui la riflessione di Gianni ha portato l'accento e che la definizione di Wikipedia definisce "capacità". E' il dominio sull'immagine che possiedono grandi fotografi come Penn.

 Nel caso specifico della 'fotogenia' della scrittrice francese, il risultato non è scaturito dalla sua fama; né è schiavo della cronaca e dell'affettività, ma ha subito una 'maggiorazione estetica": si è svincolata dalla base di realtà, cioè dal pericolo del 'documento', per dotarsi di un abito estetico e psicologico più ampio, quello di uno sguardo fermo e screziato che aveva già fissato la prosa del "Secondo sesso" e de "I mandarini" e che, di lì a poco, sarebbe rifluito negli oggetti interiorizzati della sua memoria e nella luce, atroce e bellissima, dell'infanzia con "Memorie di una ragazza perbene".

Sullo sfondo, passa tutta una fotogenia degli scrittori francesi ancora da scrivere. Una fotogenia spesso feroce nel registrare i mutamenti spaventosi dei visi degli scrittori. Tre casi-limite su tutti: il Baudelaire di Nadar, prima e dopo aver scritto "I fiori del male"; il Rimbaud di Carjat dopo "La stagione all'Inferno", sul limitare dei diciannove anni, prima dell'abbandono della letteratura per l'Africa; e quella corrosione, crudele e prosciugante, della bellezza del viso di Artaud, la cui fotogenia si rovescia nel suo opposto: dallo splendore del primo piano in "Giovanna d'Arco" allo scavo degli ultimi anni, dove la sigaretta sembra pendere non più da una bocca, ma da una ferita. 
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