Paris, 1957 |
di Gianni Quilici
Foto non immediata
come potrebbe apparire a prima vista, ma studiata. Lo studio, però, non impedisce
mai ciò che potremmo chiamare “poesia”. E’ come il pittore che dipinge un oggetto. Non copia, insegue una
propria visione, a volte trasfigurando ciò che naturalmente si vede.
Così Irving Penn:
predispone uno scenario e una luce. Per la verità molto semplici. Una poltrona
( che nello scatto si intravede appena) ed una luce con l’ombra che via via
sfuma...
Su questo quadro
viene collocata e si colloca Simone De
Beauvoir. L’obbiettivo la coglie frontalmente in primo piano. Per raggiungere
questa posizione, come vediamo, ha dovuto far ruotare la testa. Se proviamo a
eseguire quel movimento ci accorgiamo che ciò provoca una contrazione di
muscoli, che se, per un verso, indica una volontà, per un altro può favorire
quello sguardo. E comunque, a parte ciò, è quello sguardo volitivo e fermo, ma
insieme leggero, privo, cioè, di ostentazione e di forzature, in un volto
chiaro-scuro severo, ma limpido e pulito, che colpisce e dà “unicità” alla foto.
In più le ombre come
elemento dialettico. L’ombra che dalla guancia sfiora l’occhio, le ombre sullo
sfondo. Sottolineature appena contrastanti, che danno maggiore impronta espressiva allo
scatto.
@ @ @
di David Pugnana
Wikipedia dà una definzione sottile di
'fotogenìa': "La fotogenia è la capacità di maggiorazione estetica della
realtà". Per quanto il termine fotogenia sia acquisito nel linguaggio
corrente, tanto che nessun avanzerebbe più dubbi semantici, non sapevo che essa
fosse (anche) quest'altra cosa. Nella definizione dell'enciclopedia, tutto si
rovescia. Fotogenia non è più, quindi, la bellezza innata che possiedono alcuni
soggetti e altri no; non è più quella miscela di linee e volumi (in)scritti in
un viso con particolare maestria e che, stando nell'obbiettivo come in un
habitat naturale, sviluppano senza sforzo potenza iconica. Su questo statuto
della fotogenìa, da sempre, siamo tutti d'accordo: ogni album di famiglia ha i
suoi soggetti che vengono particolarmente bene, persino quando a scattare non
sia un Irving Penn, ma uno degli innumerevoli fotografi di provincia dai quali
le famiglie o i singoli, all'inizio del XX secolo, andavano per contemplarsi in
fotografia, e, talvolta, senza sapienti dosaggi delle luci e delle ombre. Zie,
nonne, cugine, amiche, padri e madri di un tempo lontano attraversano il tempo
e le trasformazioni storiche della bellezza secondo le epoche, mantendendo
intatta la loro fama di 'belle' e 'belli', impreziosendo l'araldica del casato con
la loro fotogenia.
Ma la fotogenia
come risultato di una 'maggiorazione estetica' prodotta da una
"capacità" è un altro paio di maniche. Significa che in mezzo è
avvenuta una "costruzione": uno "studio" finalizzato alla
ricerca di un valore aggiunto di bellezza, qualcosa che 'maggiori' il Vero di
natura, incrementandolo, accrescendolo, dilatandolo. Con che cosa? Con "
l'estetica", come vuole la definizione.
E' un tasto che ha
già toccato Gianni Quilici,scomponendo l'immagine di Simone de Beauvoir nelle
sue chiavi formali: il disporsi delle zone di luce; la curvatura dei capelli
che prosegue nella lama d'ombra della guancia e si scioglie sul bavero del
cappotto; la tramatura fittissima del bavero, e quello schiaffo di luce che
dallo schienale della poltrona rampolla sulla spalla e si fa puntolino
nell'iride. Un gioco di rispondenze perfetto su cui la riflessione di Gianni ha
portato l'accento e che la definizione di Wikipedia definisce
"capacità". E' il dominio sull'immagine che possiedono grandi
fotografi come Penn.
Nel caso specifico della 'fotogenia' della
scrittrice francese, il risultato non è scaturito dalla sua fama; né è schiavo
della cronaca e dell'affettività, ma ha subito una 'maggiorazione
estetica": si è svincolata dalla base di realtà, cioè dal pericolo del
'documento', per dotarsi di un abito estetico e psicologico più ampio, quello
di uno sguardo fermo e screziato che aveva già fissato la prosa del
"Secondo sesso" e de "I mandarini" e che, di lì a poco,
sarebbe rifluito negli oggetti interiorizzati della sua memoria e nella luce,
atroce e bellissima, dell'infanzia con "Memorie di una ragazza
perbene".
Sullo sfondo,
passa tutta una fotogenia degli scrittori francesi ancora da scrivere. Una
fotogenia spesso feroce nel registrare i mutamenti spaventosi dei visi degli
scrittori. Tre casi-limite su tutti: il Baudelaire di Nadar, prima e dopo aver
scritto "I fiori del male"; il Rimbaud di Carjat dopo "La
stagione all'Inferno", sul limitare dei diciannove anni, prima
dell'abbandono della letteratura per l'Africa; e quella corrosione, crudele e
prosciugante, della bellezza del viso di Artaud, la cui fotogenia si rovescia
nel suo opposto: dallo splendore del primo piano in "Giovanna d'Arco"
allo scavo degli ultimi anni, dove la sigaretta sembra pendere non più da una
bocca, ma da una ferita.
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