di Cosima Di Tommaso
Sto finendo di
leggere (l'ho fatto tutto di un fiato) il libro di Andre Agassi, Open'.
Mi ha lasciato di
stucco: non potevo immaginare...
Sul finire degli
anni '80/inizi anni '90 - ricordo - non volava una mosca nel primo pomeriggio,
alla Casa dello studente di Lecce, perché alcuni di noi seguivamo
religiosamente alla televisione, le sue partite.
Lo abbiamo sempre
creduto un atleta felice e realizzato, oltre che bello. L'ho sempre misteriosamente
amato e stimato, a prescindere. Ora so perché.
Il suo libro
potrebbe apparire a prima immagine, solo una delle tante biografie di vip. Ma
non è così. Andre Agazzi ha avuto il
coraggio di concretizzare un lavoro spietato sulla sua biografia, di svelare a
sé e al mondo, un nucleo remoto che affonda le sue radici nel proprio
umanissimo destino. Nel farlo su di sé, apre scenari nuovi nel risvegliare e
ampliare il proprio interesse e la propria comprensione per gli altri e per le
loro condizioni di vita.
Credevo che il suo
giocare a tennis rendesse felici. E invece no. Andrea è stato un bambino prima,
un adolescente, un uomo, plagiato da un padre dispotico che gli ha ‘’cucito’’
addosso il proprio scellerato ideale di vita.
«Odio il tennis,
lo odio con tutto il cuore, eppure continuo a giocare, continuo a palleggiare
tutta la mattina, tutto il pomeriggio, perché non ho scelta. Per quanto voglia
fermarmi non ci riesco. Continuo a implorarmi di smettere e continuo a giocare,
e questo divario, questo conflitto, tra ciò che voglio e ciò che effettivamente
faccio mi appare l'essenza della mia vita...» scrive Andrea Agassi.
Nel 2001 la sua
"Andre Agassi Foundation for Education" ha creato, in accordo con lo
stato del Nevada, una scuola pubblica modernissima ed efficientissima per
bambini e ragazzi dai 3 ai 18 anni poveri e continua a raccogliere fondi per le
sue finalità sociali. Non il tennis, uno sport, dopotutto, spocchioso e
drammaticamente solitario, ma sport di squadra dove si impara a giocare tutti
insieme.
Andre Agassi.
''Open'', Einaudi, 2011.
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