23 febbraio 2009

"Miti, Emblemi, spie" di Carlo Ginzburg


di Emilio Michelotti



L’ambizione della corrente storiografica che non a caso nasce dopo il sommovimento sessantottino è quella di sottrarsi sia alle secche del razionalismo sia alle paludi dell’irrazionalismo. Il metodo di ricerca storica ruota attorno alla possibilità di inserire nella incerta “scienza” della narrazione dei fatti l’ermeneutica applicata a testi letterari – il gusto del particolare rivelatore –e a testi pittorici o scultorei (con un esplicito riichiamo a ABY WARBURG)

Dallo studio del folklore, della etnologia, della mitologia (Mondo Magico di De Martino, Dialoghi con Leucò di Pavese, Morfologia della fiaba e Radici storiche dei racconti di fate di Propp, I re taumaturghi di Bloch, Antropologia strutturale di Lévi-Strauss), Ginzburg trae lo spunto per una lettura della storia come scontro fra culture diverse – in special modo fra cultura alta (colta) e cultura bassa (popolare).

Raccogliere miti e credenze provenienti da ambiti culturali diversi sulla base di affinità formali è, mi pare, la caratteristica principale dello stile di ricerca – innovativo all’interno di un generale ripensamento sulla figura dello storico – usato da Carlo Ginzburg per ricostruire i percorsi e gli eventi . Egli “usa la morfologia come una sonda per scandagliare uno strato inattingibile agli strumenti consueti della conoscenza storica”.

La “scoperta”, egli afferma, “che mi pare inconfutabile, è quella dell’esistenza di un nucleo mitico che per secoli, forse per millenni, ha mantenuta intatta la propria vitalità (ma, vorrei chiedergli, nell’analogia fra benandanti e sciamanesimo va riconosciuta una continuità storica o un rapporto tipologico?).

Una continuità, egli risponde, che è rintracciabile al di là delle innumerevoli variazioni: però, diversamente da Lévi-Strauss e da Jung, egli non la riconduce a “una generale tendenza dello spirito umano”. Scartate “le pseudo spiegazioni che non fanno altro che riproporre il problema (archetipi, inconscio collettivo)”, l’incontro inevitabile era con Freud e Dumézil.

Per Freud il complesso centrale della mitologia è lo stesso della nevrosi – la teoria psicoanalitica serve a comprendere il mito. Per Jung è esattamente l’inverso – nel mito-archetipo-inconscio collettivo è nascosta la spiegazione della nevrosi. In altre parole “siamo noi che pensiamo i miti” (Ginzburg, Freud e senso comune) oppure “sono i miti che pensano noi” (Jung, Lévi-Strauss e interpretazioni irrazionalistiche)?

Ginzburg valorizza le varianti, in polemica con il vecchio strutturalismo: la differenza fra le varianti e soprattutto i contesti entro i quali agisce il mito è grande, più grande ancora è quella fra il vivere passivamente un mito (i miti pensano noi) e il cercare di darne un’interpretazione critica. Un banale razionalista?

Nient’affatto: la formula di Lévi-Strauss ha il grandissimo merito di sottolineare provocatoriamente “l’indefinita approssimazione di ogni categoria analitica”.
L’irrazionale è l’altra faccia della storia, guai a non tenerne conto. (come già diceva cinquant’anni prima il grande, grandissimo Eric Robertson Dodds, aggiungerei).

Carlo Ginzburg. Miti, emblemi, spie. Einaudi, 1986