09 maggio 2010

"Quando partisti, come son rimasta! come l’aratro in mezzo alla maggese" di Luciano Luciani

Il secolo che ha tenuto dietro all’unificazione politica e amministrativa del nostro Paese ha conosciuto un fenomeno di proporzioni bibliche ancora oggi in gran parte trascurato, poco indagato, misconosciuto: l’esodo di almeno 25 milioni di connazionali.

A cacciarli lontano dai loro modesti beni, dalle povere case, dai luoghi di origine il rapporto ineguale tra il Nord e il Sud la contraddizione città-campagna, la spietatezza di leggi economiche tutte volte a garantire esclusivamente i privilegi e gli interessi di una borghesia tanto rapace quanto meschina, tanto gretta quanto priva della coscienza del bene collettivo.

Ad allontanarli dai borghi e dalle campagne – l’emigrazione nostrana è non solo ma soprattutto contadina – la volontà di sfuggire a un fiscalismo occhiuto; scongiurare la maledizione e l’avvilimento delle malattie (malaria, pellagra, tubercolosi…); la speranza di un lavoro decoroso e retribuito quel tanto che permetta una vita degna di essere vissuta: garantire il cibo a tutta la famiglia, una casa decente, l’accesso alla cultura almeno per i figli. Come suona il testo di una poesia di Pietro Gori, l’avvocato anarchico “cavaliere dell’ideale”, l’Italia, “genitrice amorosa” per alcuni, tratta da “bastardi” la maggioranza dei suoi figli e li costringe all’estero in una diaspora di proporzioni immense:

Ho creduto alla patria

E in estasi graziosa,

vagheggiata l’avevo

genitrice amorosa.


Ma un giorno vidi affollarsi,

silenziosa e grave,

un’orda di emigranti

a bordo di una nave.


Erano i tuoi figli, o Italia,

erano i tuoi bastardi

che partivan silenziosi e beffardi.


Allora il ver compresi,

o vecchio ideal: l’infransi

contemplai le tue vittime

ti maledissi e piansi.

Nel corso di alcuni decenni i protagonisti di questa dispersione planetaria arriveranno a toccare ogni punto del pianeta: dalla Terra del Fuoco all’Australia, dai deserti africani a quelli gelati del Canada e dell’Alaska, in una silenziosa epopea “che per vastità costanza e caratteristiche non trova riscontro nella storia moderna di nessun altro popolo” (E.Enriquez Agnoletti).

A tutt’oggi ci sembra che – se non in maniera parziale ed episodica, spesso distorta dal nazionalismo o viziata dal paternalismo – non siano apparse intelligenze e penne di storici e saggisti, romanzieri e poeti interessate o capaci di raccontare e interpretare le ragioni, le passioni, le durezze e le sofferenze, gli egoismi e gli eroismi di oltre cento anni di emigrazione italiana. Una vicenda enorme, formidabile che per dirla con uno storico illustre come Fernand Braudelha validamente contribuito, col rinnovare la sostanza, al decollo umano delle Americhe: quella portoghese, quella spagnola, quella anglosassone”.

Per terre assai lontane” partirono tre milioni e mezzo di veneti, due milioni di piemontesi e altrettanti dalle province della Campania; più di due milioni emigrarono dalla Sicilia, un milione e mezzo dalla Calabria e un milione sono gli abruzzesi costretti a cercare avventurosamente fortuna all’estero. Se veneti e friulani si disseminarono dalla Russia all’Egitto e si confusero col mosaico dei popoli dell’impero austro-ungarico e di quello ottomano, liguri e piemontesi si orientarono preferibilmente verso la Francia, il Paese europeo, che, a cavallo tra XIX e XX secolo, accolse il maggior flusso di lavoratori italiani. Tra il 1876 e il 1909 ogni anno più di 30.000 emigranti – saliti a oltre 80.000 nel 1913 – passarono le Alpi alla ricerca di una faticosa sistemazione. E visto che nessuno raccontava o cantava questa loro umana avventura, lo faceva con accenti ora allegri, ora malinconici l’anonimo autore di E tutti va in Francia:

E tutti va in Francia, in Francia per lavorar…

Ma come devo fare se tutti vanno via

o che malinconia da sola resterò…la la la …

torneremo torneremo coi marenghi nel taschino

torneremo a San martino per venirvi a ritrovar

torneremo torneremo suonerà la banda in testa

sarà proprio una gran festa ed andremo a fare l’amor…

Ma l’emigrazione “mordeva” anche la civile e avanzata Lombardia, come appare dagli ultimi versi di Quaranta ghei d’inverno, una delle canzoni intonate nel corso delle agitazioni che scossero l’alto Milanese negli anni tra il 1885 e il 1889:

i pòer paisan intanta il là a spettà

la letera dell’America che la dev rivà”

(i poveri contadini intanto non hanno altro da sperare/che la lettera di chiamata che deve arrivare dall’America).


Ad una prima fase, che arrivò a lambire la fine del secolo scorso, in cui il fenomeno migratorio interessò prevalentemente le regioni settentrionali e in cui gli emigranti appaiono relativamente colti e qualificati dal punto di vista professionale, ne successe una seconda: dai primi anni del Novecento fino alla metà degli anni Venti si mossero masse enormi di italiani poveri, prevalentemente meridionali, analfabeti, dequalificati professionalmente. Nel progressivo processo di proletarizzazione delle nostre campagne, l’emigrazione rappresentò l’unica strada praticabile per sopravvivere.

Milioni di connazionali parteciparono a questa vicenda biblica, “esportati” all’estero secondo i disegni della classe dirigente liberale. L’emigrazione è una valvola di sfogo. È l’antidoto alla rivoluzione sociale, l’alternativa alla pressione delle masse contadine che avrebbe finito per imporre trasformazioni di sicuro non favorevoli ai secolari rapporti di proprietà nelle campagne. Sidney Sonnino, che non era certo un fior di democratico ma aveva il pregio di parlare chiaro così si esprimeva: “…tutta l’elevazione sociale sarebbe inutile e non riuscirebbe a contenere la ribellione delle masse se non vi fosse un esodo continuo dalle campagne: in Toscana verrebbe minacciata la mezzadria, nel sud persisterebbe il brigantaggio”.

Gli rispondono gli stornelli beffardi di un anonimo autore toscano, che, cuciti assieme, costituiscono Italia bella, mostrati gentile, un polemico canto di fine secolo sui mali dell’emigrazione:

Italia bella, mostrati gentile

e i figli tuoi non li abbandonare,

sennò ne vanno tutti ni’ Brasile

e ‘un si ricordon più di ritornare.


Ancor qua ci sarebbe da lavorà

senza stà in America a emigrà.

Il secolo presente qui ci lascia,

il millenovecento s’avvicina;

la fame ci han dipinto sulla faccia

e per guarilla ‘un c’è medicina.


Ogni po’ noi si sente dire: E vo

là dov’è la raccolta del caffè.

L’operaio non lavora

e la fame lo divora

e qui’ braccianti

un sa come si fare a andare avanti.

Spererem ni’ novecento,

finirà questo tormento,

ma questo è il guaio

il peggio tocca sempre all’operaio.


Nun ci riman più che preti e frati,

moniche di convento e cappuccini,

e certi commercianti disperati

di tasse non conoscono i confini.

Verrà un dì che anche loro dovran partì

là dov’è la raccolta del caffè.


Già nei versi di Italia bella, mostrati gentile si annuncia il secondo momento dell’emigrazione italiana, quello in cui l’esodo assunse proporzioni gigantesche e in cui “il primato migratorio passò ad alcune regioni meridionali. In testa risultò allora la Sicilia, con il 12,8% degli emigranti, seguita dal 10,9% della Campania e dal 6,9% della Calabria”. Assai più consistente e in genere orientato verso destinazioni transoceaniche – nel solo 1913 si contano ben 111.159 siciliani in partenza per gli Stati Uniti – il flusso di emigranti compreso tra il 1901 e il 1915 ha lasciato tracce durature nell’immaginario e nella memoria collettivi anche grazie ad alcuni canti popolari ben presto diventati famosi e rimasti tali negli anni:


E mamma mamma dammi cento lire

che in America voglio andar

E cento lire io te li dono

ma in America non andar

E la sorella che si pettinava

mamma mamma lasciala andar

Ed il fratello nella finestra

mamma mamma lasciala andar


E quando fu in mezzo al mare

il bastimento s’inaffondò

O pescatore che tu peschi l’onda

peschi pure la mia bionda

E se la pesco se non la pesco

la balena se la mangiò


Il testo appena riportato e Il tragico affondamento della nave Sirio, altrettanto celebre e che racconta in maniera dolente un naufragio dell’agosto 1906, con i loro contenuti tragici esprimono bene lo stato d’animo diffuso tra le donne e gli uomini che emigravano e che percepivano il destino precario che li aspettava nelle nuove terre, sentite come ignote e ostili:


E da Genova il Sirio partivano

Per l’America varcare, varcare i confin

E da bordo cantar si sentivano tutti allegri del suo, del suo destin.


Urtò il Sirio un orribile scoglio

Di tanta gente la mise…la misera fin:

padri e madri abbracciava i suoi figli

che si sparivan tra le onde, tra le onde del mar.


Più di centocinquanta annegati,

che trovarli nessu…nessuno potrà

e fra loro un vescovo c’era

dando a tutti la sua bene…la sua benedizion.

Nel dispiegarsi del fenomeno migratorio colpisce il silenzio degli intellettuali. Scrittori, poeti, romanzieri, uomini di teatro – che pure avevano saputo accompagnare la formazione dello Stato unitario, contribuendo a creare presso l’opinione pubblica le condizioni migliori per la realizzazione del processo risorgimentale- -abbacinati da altri miti (imperialismo, superomismo, volontà di potenza, esasperato culto del bello…) di fronte all’emigrazione, ai suoi mali e ai suoi di protagonisti tacquero.

Eppure, per oltre trent’anni, milioni di uomini, donne, bambini male in arnese furono visibili: affollarono le sale d’aspetto di terza classe di tutte le stazioni ferroviarie d’Italia, si ammassarono disordinatamente sulle banchine dei porti di Genova, Napoli, Livorno… Fisicamente ancora presenti all’Italia, erano però già assenti per il senso comune del tempo che preferiva non vederli, ignorarli. Erano gli Iloti dell’economia negli anni di Crispi e di Giolitti, erano l’unica merce che il nostro Paese poteva permettersi di esportare.

Solo due letterati furono capaci di pietas - che riuscì a trasformarsi anche in sintesi artistica – nei confronti delle donne e degli uomini costretti a emigrare, delle famiglie che li attendevano: Giovanni Pascoli e Edmondo De Amicis.

Tolstoiano, neofrancescano, ideologicamente debole e ambiguo quanto si vuole, pure Giovanni Pascoli fu tra i pochissimi intellettuali del Novecento, che, a proposito del fenomeno dell’emigrazione seppe trovare accenti umanissimi, densi di sincera condivisione del destino di quanti erano cacciati dalle loro case e dalla loro terra in cerca di lavoro, giustizia sociale, libertà, migliori condizioni di vita.

Dai Primi poemetti, Pisa 1904 e dal suo testo più famoso Italy traiamo alcune strofe, ispirate al tema della diaspora dei lavoratori italiani nel mondo:


e cheap la vita, e tutto cheap; e in faccia

Ognuno si godeva i cari

ricordi, cari ma perché ricordi:


quando sbarcati dagli ignoti mari

scorrean le terre ignote con un grido

straniero in bocca, a guadagnar denari

per farsi un campo, per rifarsi un nido…


O rondinella nata in oltremare!

Quando vanno le rondini e qui resta

il nido solo, oh! che dolente andare!


Non c’è più cibo qui per loro, e mesta

la terra e freddo è il cielo, tra l’affanno

dei venti e lo scosciar della tempesta…


Hanno un po’ più di fardello

che le rondini e meno hanno di fede.


Si move con un muglio alto il vascello.

Essi, in disparte, con lo sguardo vano,

mangiano qua e là pane e coltello.


Vanno serrando i denti e le mascelle,

serrando dentro il cuore una minaccia

ribelle, e un pianto forse più ribelle.


Offrono cheap la roba, cheap le braccia,

indifferenti al tacito diniego;

no, dietro mormorare odono: Dego!


Dego è un termine spregiativo che “deriva, mi pare”, scrive Pascoli nelle note ai Primi poemetti “da dagger = pugnale” affibbiato agli italiani negli ambienti dell’emigrazione, argomento su cui ha scritto non poco anche Edmondo De Amicis, “il socialista più amato dai conservatori”. E non solo in alcuni episodi del celeberrimo Cuore (1886), ma anche in Sull’oceano, un raro esempio di nostrana letteratura di viaggio.

Abbastanza convenzionali, ma comunque sinceramente commossi e partecipi questi suoi versi, pubblicati su “La terra” periodico socialista lunigianese fondato nel 1898 da Alceste De Ambris e Luigi Campolonghi.


Gli emigranti

Con gli occhi spenti, con le guance cave

Pallidi, in atto addolorato e grave

Sorreggendo le donne affrante e smorte

Ascendono la nave

Come s’ascende il palco della morte.


E ognun sul petto trepido si serra

Tutto quel che possiede sulla terra:

Altri un misero involto, altri un patito

bimbo che gli si afferra

al collo, dalle immense acque atterrito.


Salgono in lunga fila, umili e muti,

E sopra i volti appar, bruni e sparuti

Umido ancor di desolato affanno

Degli estremi saluti

Dati ai monti che più non rivedranno…


E li hanno nel cuor in quei solenni istanti

I bei clivi di allegre acque sonanti,

E le chiesette candide, e i pacati

Laghi cinti di piane,

E i villaggi tranquilli ove son nati!


E ognun forse, sprigionando un grido,

Se lo potesse tornerebbe al lido;

Tornerebbe a morir sopra i nativi

Monti, nel triste nido,

Dove piangono i suoi vecchi malvivi…


Il 10 marzo del 1884 Edmondo De Amicis (1846-1908), giornalista e scrittore già ampiamente affermato, si imbarca sul Nord America (ribattezzato Galileo nelle pagine del suo romanzo/reportage pubblicato nel 1889), destinazione Montevideo. Il letterato ritrae con immediatezza e vivacità i veri protagonisti di queste pagine: non i passeggeri di prima classe, ma gli emigranti che abitavano il ponte di terza. Proprio nel contrasto tra la povertà e la miseria dei secondi e il lusso ostentato dei primi sta la vis polemica ancora attuale di questo romanzo che piacque a Giacosa e a Fogazzaro, a Croce e a Turati: il Galileo che attraversa l’Atlantico diventa davvero lo specchio dell’Italia di fine secolo:

Il Galileo portava mille e seicento passeggieri di terza classe, dei quali più di quattrocento tra donne e bambini: non compresi nel numero gli uomini dell’equipaggio, che toccavano quasi i duecento. Tutti i posti erano occupati. La maggior parte degli emigranti, come sempre proveniva dall’Italia alta, e otto su dieci dalla campagna Molti Valsusini, Friulani, agricoltori della bassa Lombardia e dall’alta Valtellina: dei cantadini d’Alba e d’Alessandria che andavano all’Argentina non per altro che per la mietitura, ossia per mettere da parte trecento lire in tre mesi, navigando quaranta giorni. Molti della Val di Sesia, molti pure di que’ bei paesi che fanno corona ai nostri laghi, così belli che pare che non possa venire in mente a nessuno d’abbandonarli: tessitori, di Como, famigli d’Intra, segantini del Veronese. Della Liguria il contingente solito, dato in massima parte dai circondari di d’Albenga, di Savona e di Chiavari diviso in brigatelle, spesate del viaggio da un agente che le accompagna, al quale si obbligano di pagare una certa somma in America, entro un tempo convenuto. Fra questi c’erano parecchie di quelle robuste portatrici d’ardesie di Cogorno, che possono giocar di forza coi maschi più vigorosi. Di Toscani un piccolo numero: qualche lavoratore d’alabastro di Volterra, fabbricatori di figurine di Lucca, agricoltori dei dintorni di Firenzuola, qualcuno dei quali, come accade spesso, avrebbe forse un giorno smesso la zappa per fare il suonatore ambulante. C’erano dei suonatori d’arpa e di violino della Basilicata e dell’Abruzzo, e quei famosi calderai, che vanno a far sonar la loro incudine in tutte le parti del mondo. Delle province meridionali i più erano pecorai e caprai del litorale dell’Adriatico, particolarmente della terra di Barletta, e molti cafoni di quel di Catanzaro e di Cosenza. Poi dei merciaiuoli girovaghi napoletani; degli speculatori che, per cansare il dazio d’importazione, portavano in America della paglia greggia che avrebbero lavorato lì; calzolai e sarti della Garfagnana, sterratori del Biellese, campagnuoli dell’isola di Ustica. In somma, fame e coraggio di tutte la province e di tutte le professioni, ed anche molti affamati senza professione, di quelli aspiranti ad impieghi indeterminati, che vanno alla caccia della fortuna con gli occhi bendati e con le mani ciondoloni, e son la parte più malsana e men fortunata dell’emigrazione. Della donne il numero maggiore aveva con sé la famiglia; ma molte pure erano sole, o non accompagnate che da un’amica; e fra queste, parecchie liguri, che andavano a cercar servizio come cuoche o cameriere; altre che andavano a cercar marito, allettate dalla minor concorrenza con cui avrebbero avuto a lottare nel nuovo mondo; e alcune che emigravano con uno scopo più largo e più facile. A tutti questi Italiani erano mescolati degli Svizzeri, qualche Austriaco, pochi Francesi di Provenza. Quasi tutti avevan per meta l’Argentina, un piccolo numero l’Uruguay, pochissimi le repubbliche della costa del Pacifico. Qualcuno, anche, non sapeva bene dove sarebbe andato: nel continente americano,senz’altro: arrivato là, avrebbe visto. C’era un frate che andava alla Terra del Fuoco.

Nei versi dei cantastorie e nei canti popolari dell’epoca si ritrovano speranze ingenue, desiderio di riscatto sociale attraverso il lavoro indefesso, aspettative di un miglioramento della propria condizione, il più delle volte destinate ad andare deluse:


Contadini e operai che vanno in America a lavorare (1893)

O cari fratelli or state a sentire

Che molti braccianti l’Italia abbandona

Lasciando la terra e l’aria sì bona

Per andare in America a lavorar.


Andiamo avanti

Fratelli italiani

Andiamo in America

A lavorar


Ben là si guadagna al giorno sei lire

Vestiti leggeri ma ben casermati

Soggetti ai padroni come i soldati

Sebben si fatica c’è libertà


Andiamo avanti…


Il viaggio ci costa ma tutto è pagato

Chi attende da Italia i lavoranti

Paga già prima con buoni contanti

Se vuole nostre braccia per guadagnar


Andiamo avanti…


L’America è grande ben più dell’Italia

Le terre son boschi, arene, vallate

Per quanti ci vanno son già preparati

Le squadre in Colonia per lavorar


Andiamo avanti…


Fatica, lavora e mai non ti stanca

Che ricco, istruito ben presto sarai

Così dall’America ripari ai tuoi guai

E torni coll’oro i fondi a camprar


Andiamo avanti…


Io lascio la casa e lascio l’amante

Viaggio per terra ed anche per mare

Se dall’America posso tornare

Lo giuro non voglio mai più lavorar


Andiamo avanti

Fratelli italiani

Andiamo in America

A lavorar


Trenta giorni di nave a vapore

Un testo di origine piemontese diffuso a partire dalla zona di Cuneo in tutta l’Italia settentrionale e che rimanda alla prima emigrazione, quella a metà degli anni settanta dell’Ottocento. Nei suoi versi si colgono ancora alcune note di ottimismo e orgoglio professionale destinate a venire meno nei decenni successivi:


Trenta giorni di nave a vapore

Fino in America noi siamo arrivati

Fino in America noi siamo arrivati

Abbiamo trovato né paglia né fieno

Abbiam dormito sul piano e terreno

Come le bestie abbiamo riposà

Come le bestie abbiamo riposà


America allegra e bella

Tutti la chiamano l’America sorella…

Tutti la chiamano l’America sorella

Tialallallà – lalalallalà – lalalallalà


Ci andremo coi carri dei zingari

Ci andremo coi carri dei zingari

Ci andremo coi carri dei zingari

In America voglio andar


America allegra e bella

Tutti la chiamano l’America sorella

Tutti la chiamano l’America sorella

Tialallallà – lalalallalà – lalalallalà


E la Merica l’è lunga e l’è larga

L’è circondata da monti e da piani

E con l’industria dei nostri italiani

Abbiam formato paesi e sità

E con l’industria dei nostri italiani

Abbiam formato paesi e sità…