06 aprile 2011

"Lucchese anni Trenta" di Luciano Luciani

La ‘semina’ sportiva e umana

di uno straordinario allenatore,

Ernest Erbstein.







Se la Storia

Se la Storia, quella grande, quella con la S maiuscola quasi sempre ti delude, le storie degli uomini in carne e ossa, invece, spesso ti sorprendono. E se gratti appena appena i decori patinati della retorica, oppure la ruggine che si stratifica sulle vicende umane, allora, può capitare di imbatterti in piccoli tesori: vite generose rimaste in ombra, esperienze di alto significato morale e civile poco note perché i loro protagonisti furono figure minori o addirittura minime. Gente che non vinse mai, ma neppure fu mai vinta. E il loro agire ha lasciato tracce difficilmente cancellabili dalla memoria collettiva, contrassegnate come sono dal gusto per l’avventura intellettuale e politica, dall’attrazione per l’eresia, dalla ricerca, faticosa e contraddittoria, di strade nuove.

Memorie importanti per noi, assolutamente necessarie se davvero intendiamo costruire un futuro migliore dell’attuale presente.

Dove meno te l’aspetti

Spesso queste storie hanno origine là dove meno te l’aspetti.

Per esempio su un campo di calcio, proprio quei rettangoli verdi intorno a cui, da qualche anno e anche nella nostra città, sembrano concentrarsi tutte le stupidità e le violenze, le intolleranze e i micro fascismi di cui appaiono capaci non pochi abitatori del nuovo millennio.

Lucca, campionato di calcio 1936/37. Prima storia: l’allenatore errante

Ora il nostro sguardo deve volgersi all’indietro. Alla Lucca dei nonni, al suo stadio inaugurato da poco più di un anno, il Porta Elisa, al campionato di calcio 1936/37, il primo che la Lucchese gioca nella massima serie. Formazione tipo: Olivieri, Perduca, Pescini, Scher, Callegari, Neri, Coppa, Marchini, Michelini, Andreoli, Gringa. L’allenatore che ha compiuto il miracolo di portare una piccola squadra di provincia a competere con le grandi si chiama Ernest Erbstein: tra i migliori tecnici europei del suo tempo è di origine ungherese ed ebreo. Nelle foto di rito appare sempre dignitosissimo: cravatta, doppiopetto e un’aria del tipo ‘ma cosa ci faccio io, qui?’

Scrive di lui il giornalista Massimo Novelli:

“Era un uomo calcisticamente preparatissimo, con una profonda cultura e una grossa intelligenza calcistica che lo portava a studiare e ad attuare innovazioni tecniche e sistemi di preparazione a quei tempi sconosciuti in Italia”.

Nel ’38 si trasferisce a Torino e per via delle leggi razziali è costretto a cambiare cognome in Egri. Ma in Italia non è più vita e il tecnico e la sua famiglia, tra cui la figlia Susanna poi grande danzatrice e coreografa, se ne vanno, raminghi e semiclandestini in un’Europa ormai a ferro e fuoco, scansando fortunosamente persecuzioni e deportazioni. Nell’immediato dopoguerra lo ritroviamo ancora a Torino alla guida della squadra granata, quella dei cinque scudetti consecutivi: il ‘Grande Torino’, consegnato alla leggenda calcistica e non solo dal tragico incidente della primavera 1949 nel cielo sopra Superga. Con i suoi giocatori muore anche Ernest Erbstein, ‘l’allenatore errante’, l’interprete brillante ed efficace del calcio più moderno sino ad allora mai praticato sui campi di calcio italiani.

Seconda storia: il calciatore partigiano

A Lucca il tecnico ungherese aveva avuto modo di conoscere e apprezzare le qualità di un giovane professionista del pallone: il faentino Bruno Neri, mediano sinistro proveniente dalla Fiorentina della cui promozione in serie A era stato tra i principali artefici, nel 1933 campione del mondo universitario. Un atleta che alle doti di generosità e combattività univa una tecnica elegante e sicura: un eccellente calciatore, uno dei migliori laterali sinistri degli anni Trenta, correttissimo in campo e altruista: “dovete giocare per i compagni” era solito ripetere ai giovani nel corso della sua breve carriera di allenatore. Ma Neri ha anche altre doti, inusuali per un giocatore di calcio: è un uomo colto, ama la poesia, legge i versi del suo conterraneo Dino Campana, a Firenze frequenta il Caffè delle ‘Giubbe Rosse’, ritrovo di intellettuali se non dichiaratamente antifascisti almeno in sentore di fronda rispetto al senso comune imperante. A Lucca “è la città a incantarlo. Le vecchie mura, la chiesa di San Michele, la tomba di Ilaria del Carretto, opera somma di Jacopo della Quercia, i palazzi del Fillungo, arricchiscono il suo animo. Quel 1937 trascorso a Lucca rinsalda in lui la passione per l’arte, per la letteratura, per la bellezza” (M.Novelli). La stagione in maglia rossonera è anche quella della convocazione in Nazionale: Milano, 25 ottobre 1936, Italia – Svizzera 4 a 2. Poi, per 66 partite, la maglia granata del Torino anteguerra sempre con l’amico Erbstein, e, con l’arrivo della guerra, la fine della carriera. Con i soldi messi da parte Neri acquista una fabbrichetta a Milano e allena la squadra dei suoi esordi, il Faenza. Richiamato sotto le armi come soldato semplice viene mandato in Sicilia: lo sbarco alleato, il 25 luglio, l’8 settembre, l’occupazione tedesca gli aprono definitivamente gli occhi sulla natura del fascismo e sulla necessità di schierarsi e battersi in prima persona. Con la stessa dedizione e generosità di cui aveva dato così ampie prove sul campo di calcio, Neri aderisce all’ Ori (Organizzazione Resistenza Italiana) che sull’Appennino tosco-emiliano, in collegamento con il Cln e l’Oss americano, raccoglie informazioni, recupera gli aviolanci alleati alle formazioni partigiane, svolge azioni di sabotaggio. Bruno Neri, costretto da una spiata nel maggio 1944 a darsi alla macchia è diventato il partigiano ‘Berni’, vicecomandante del battaglione Ravenna.

La sua ultima partita Neri la gioca un paio di mesi più tardi, il 10 luglio all’eremo di Gamogna, sopra Marradi. Quando ‘Berni’ e il comandante ‘Nico’, gli zaini pieni di importanti documenti da consegnare alla banda partigiana di Corbari, si imbattono in una pattuglia di militari tedeschi: “Sono in molti, marciano sicuri, hanno i Mauser in pugno… Berni e Nico si guardano impauriti. Imbracciano i mitra. Nico si fa il segno della croce. … Cominciano a sparare. Berni non ha il tempo di godersi gli ultimi secondi della partita. Di ricordare il tempo che è andato. Di pensare a quella Germania sconfitta a Torino durante i giochi goliardici. Ben altra partita va concludendosi il 10 luglio 1944. Gli ultimi colpi di Sten Berni li regala al nulla, come il triplice fischio di un arbitro. Su di loro si avventano i tedeschi che li finiscono con la baionetta. Muore così il mediano che giocava sempre per i compagni” (Greison-Lunardini, ‘L’ultimo tiro del partigiano Berni’, “Il Manifesto”, 9 XI 2004).

Terza storia: Scher, il centromediano comunista

Centromediano tostissimo, Bruno Scher. Fortissimo e insieme ricco di indubbie capacità tecniche: un istintivo senso tattico, anticipo, tempismo. Abile nel gioco di testa tirava delle legnate formidabili con entrambi i piedi. Dotato di polmoni d’acciaio, scorrazzava infaticabile per il campo durante tutti i novanta minuti. Un giocatore così non poteva passare facilmente inosservato: tant’è che dopo aver indossato per tre anni la casacca del Lecce nella serie cadetta e per un anno quella del Bari in serie A, era in predicato per passare a una società importante, una del Nord, nientemeno che l’Ambrosiana Inter. E si diceva anche che il c.t. della Nazionale, Vittorio Pozzo, fosse un suo estimatore: nel suo futuro poteva esserci anche la maglia azzurra. Ma, se erano in tanti a pronosticargli un avvenire denso di soddisfazioni e di ambiti traguardi, pure la sua carriera sembrava stranamente bloccata. Tutti lo volevano, ma non lo pigliava nessuno. Il motivo? Non solo Bruno Scher era istriano, e quindi agli occhi torvi del fascismo un ‘italiano di confine’, demidiato e inaffidabile, ma soprattutto manifestava palesi convinzioni comuniste. C’era da finire al confino, altro che convocazione in Nazionale! Ragion per cui, a soli 25 anni, la sua carriera poteva dirsi bella che terminata. Fu Erbstein a fare carte false per averlo a Lucca, altro protagonista della bella avventura che, in quattro anni, doveva portare la compagine del Porta Elisa, inaugurato proprio in quegli anni dalla Prima Divisione alla serie A. Ancora un anno di relativa serenità, poi il fascismo lucchese non sopportò più quell’atleta dal cognome straniero e, quel che è peggio, ‘rosso’ che più ‘rosso’ non si può. “Prima dell’inizio del torneo 1938/39” raccontano gli Autori di Lucchese 100 anni, Scher “fu avvicinato da un dirigente rossonero vicino al partito fascista e consigliato a modificare il cognome, a italianizzarlo: da Scher a Scheri. Una semplice “i” avrebbe messo le cose a posto. Ma il comunista Scher non era tipo da scendere a compromessi. Non voleva rinunciare né al cognome e nemmeno alle sue origini. Così prima dell’inizio del campionato aveva già fatto le valigie per tornare prima al Sud, dove le novità del regime giungevano diversi mesi dopo, e poi nella sua terra d’origine” (p. 78). Fermo per un anno, poi confuso nel ‘generone’ della serie C, Scher esce di scena silenzioso, ma senza rinunciare neppure a un grammo della propria dignità.

Quarta e ultima storia: ‘gatto magico’ Olivieri

Aldo Olivieri, ‘gatto magico’, portiere del Verona, della Lucchese, del Torino, della Nazionale mondiale del 1938 è stato un’altra creatura di Erbstein che lo volle con sé per oltre un decennio: a lui l’estremo difensore rimase sempre legatissimo, al punto da chiamare la figlia Susanna, lo stesso nome di quella di Erbstein e farle frequentare la sua scuola di danza classica. L’Italia fascista non ha lesinato riconoscimenti a ‘gatto magico’, ma Olivieri non aderì mai al regime. Certo, non fu neppure un antifascista militante: praticò, come milioni di italiani, quella ‘dissimulazione onesta’ che permetteva di sopravvivere e ad alcuni di vivere con qualche agio quegli anni difficili. Però poteva capitare che, quasi per caso, il pensiero vero, le convinzioni profonde tornassero a galla: “Quando giocavo, fui punito in un solo caso. Erano gli anni fascisti, io entrai in campo senza fare il saluto romano, strinsi la mano al capitano avversario e l’arbitro me la fece pagare. Io non sono mai stato fascista. Anche in Nazionale: mi adeguavo, ma non approvavo. Dei giocatori, soltanto Monzeglio era un fanatico in camicia nera. Anche Pozzo non confondeva la politica col calcio, e difatti faceva in modo che del Duce non si parlasse mai. Sì, eravamo obbligati a fare il saluto, a recitare, e io recitavo. Ma mai ho preso la tessera: se si ama la libertà, non si può essere fascisti” (intervista a Marco Bonetto).

La grande lezione umana e sportiva, morale e di vita che, per gran parte degli anni Trenta, l’’allenatore errante’ Erbstein aveva tenuto a Lucca non era andata perduta.


Da “Arcipelago”

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