22 aprile 2015

" Sullo stile di Benedetto Croce" di Davide Pugnana



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LE PENOMBRE CHE FASCIANO

 IL FATTO DELL'ARTE

Leggendo alcune pagine di Benedetto Croce per osservarne la qualità dello stile, il meccanismo e il ritmo della pagina, ho ripensato alla giustezza del giudizio che ne diede Giacomo Debenedetti verso il 1949, delineando l'autobiografia della sua generazione: «L’appello ci veniva dalle penombre che fasciano il fatto dell’arte, come l’ha circoscritto il Croce: dall’infinito, perenne mormorio della foresta intorno alla radura illuminata».
 La metafora plastica della pagina come "radura" rischiarata dalla luce zenitale, lembo luminoso ai cui confini preme, non vista ma udita, la formicolante vastità della foresta circostante, forma un equivalente perfetto della scrittura crociana.
Certo, si può anche non essere d'accordo con la posizione di Croce, anzi si può decidere di dire no alla sua ricerca, oppure si può scegliere la posizione, cosiddetta generazionale, di chi decide di essere non tanto "anticrociano", quanto "postcrociano". Insomma, di capire storicamente e poi correggere; di passare al vaglio sistematico prima di ingolfarsi a giudicare e condannare.
Croce fu un'idra di Lerna dalle molte teste e per comprenderne la configurazione dei tratti occorre averle fissare tutte, almeno una volta.


Come esempio esplicativo della metafora di Debendetti ho scelto di trascrivere un brano - quanto 'da antologia' si vedrà! - del saggio sulla filosofia di Giambattista Vico:



"La storia di Roma, a mala pena generalizzata e integrata qua e là con quella della Grecia, si scorge nelle "degnità" vichiane che formolano leggi della dinamica sociale. Gli uomini prima sentono il necessario, dipoi badano all'utile,. appresso avvertiscono il comodo, più innanzi si dilettano del piacere, quindi si dissolvono nel lusso, e finalmente impazzano in istrapazzar le sostanze. Ci vogliono prima uomini immani e goffi come i Polifemi, affinché l'uomo ubbidisca all'uomo nello stato delle famiglie, e per disporlo a ubbidire alla legge nello stato futuro delle città. Ci vogliono i magnanimi e gli orgogliosi come gli Achilli, determinati a non cedere ai loro pari, affinché sulle famiglie si costituiscano le repubbliche di forma aristocratica. Quindi si richiedono i valorosi e giusti, quali gli Aristidi e i Scipioni Africani, per aprire la strada alla libertà popolare. Più innanzi, personaggi appariscenti con grandi immagini di virtù accompagnata da grandi vizi, che presso il volgo fanno strepito di vera gloria, quali gli Alessandri e i Cesari, per introdurre le monarchie. Più oltre ancora, i tristi riflessivi, quali i Tiberi, per istabilirle; e, finalmente, i furiosi, i dissoluti e sfacciati, quali i Caligola, i Neroni, i Domiziani, per rovesciarle."
 
Ariosto di Benedetto Croce è, tra i suoi saggi sulla letteratura, quello che ha meno capelli bianchi. Almeno per me, questa smilza monografia mi pare non sia mai veramente entrata a far parte dell'archeologia libraria delle venerande canizie. Quando torno a sfogliarlo, mi sembra come quei vini, barricati in botti di legno buono che il tempo migliora. E nonostante siano stati pubblicati altri e più aggiornati contributi sul "Furioso", e tenuto conto di quante metodologie acuminate e accurate si siano date battaglia nel conflitto delle interpretazioni degli ultimi anni, posso dire che nessun incipit come quello scritto da Croce ha un sapore e una consistenza tali da conservare intatte le sfumature e le iridescenze proprie dei classici:
La fortuna dell'Orlando furioso si può comparare a quella di una donna leggiadra e sorridente, che tutti guardano con letizia, senza che l'ammirazione sia impacciata da alcuna perplessità d'intelletto, bastando, per ammirare, aver occhi e volgerli al grato oggetto. Limpidissimo com'è quel poema, nitidissimo in ogni particolare, facilmente apprendibile da chiunque possieda una generale cultura, non ha mai presentato seri ostacoli d'interpretazione, e perciò non ha avuto bisogno delle industrie dei commentatori e non è stato aduggiato dalle loro litiganti sottigliezze; né poi è andato soggetto, o assai lievemente, alle intermittenze che, per le varie disposizioni culturali dei vari tempi, hanno pur sofferto altre insigni opere di poesia. Grandi uomini e comuni lettori si sono trovati intorno ad esso in pieno accordo, come appunto intorno alla bellezza, poniamo di una signora Récamier; e nella folla di coloro che furono presi dal suo fascino, si notano un Machiavelli e un Galilei, un Voltaire e un Goethe.

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