11 maggio 2015

"Sul camminare" di Luciano Luciani

                                                                                           foto Gianni Quilici
                                                  Io sì che cammino davvero!

Come dicono da queste parti tra il Serchio, le Apuane e il mare, “mi fanno voglia di ride’ “ i camminatori per hobby. Quelli, per intenderci, che fasciati da elegantissime tute Patagonia o Champion, calde d’inverno, fresche d’estate, un tessuto che assorbe il sudore, annulla i cattivi odori e protegge dai raggi ultravioletti, tre o quattrocento euro a botta, ai piedi scarpe da ginnastica Nike (Nike non Naik, ignoranti!, perché è parola greca, non inglese), 150/200 euro al paio, le orecchie ‘incuffiettate’ e traboccanti musica, si affannano con aria da sportivi consumati per parchi, aiuole, ville comunali, MuradiLucca, lungofiumi, lungolaghi, periferie non più città ma non ancora campagna, inanellando, a ogni stagione che il Signore ci manda, chilometri su chilometri: corricchiando, trotterellando, camminando di buon passo, galoppando per brevi tratti, sudati, sbuffanti, ansimanti, scaracchianti… Significando, così, in tutti i modi possibili ai normali mortali, col linguaggio del corpo sofferente, il senso di una fatica tanto ciclopica quanto inutile.
È il running, bellezza!

“Si pe’ rubba’ quarc' ora alla banca de la vita bisogna fa’ tutto ‘sto mazzo, preferisco de mori’ prematuro!”, disse una volta un saggio vegliardo della mia terra natia alla vista di un genero tutto addobbato da sportivo salutista e in grave deficit d’ossigeno dopo una mezz’oretta di giri del palazzo.

Sì, da un po’ di tempo in qua, correre, e la sua variante più modesta, camminare, è diventato la panacea a ogni male, l’elisir di tutti gli acciacchi, fisici e morali, il sicuro contravveleno al sempre più agro mestiere di vivere.
Rischi il diabete? Cammina! Colesterolo e trigliceridi alti? Cammina, cammina… Depressione? Cammina, cammina, cammina… Come nell’incipit delle favole.

Se davvero le cose stessero così, allora dovrei morire a duecento anni e oltre. Perché è tutta la vita che cammino. Non per hobby, ma per necessità. Già, perché per spostarmi da un luogo all'altro e garantirmi la cosiddetta mobilità sul territorio, io, come unico mezzo di locomozione, conosco quasi esclusivamente il cavallo di san Francesco. Quello a due zampe, le mie: gambe, cosce, ginocchia, polpacci, caviglie, piedi... Sì, perché la patente di guida non ho mai voluto prenderla e con fierezza mi dichiaro appartenente alla specie in via d'estinzione, alla minoranza oppressa e perseguitata, alla setta ereticale degli spatentati senza auto. Io sì, sportivastri, che cammino davvero!

Camminare. Della sua importanza divenni consapevole in tempi ormai remoti e certo non sospetti di compiacenza verso le mode: allora eravamo appena agli inizi dell'era dell'automobile di massa e la mobilità sul territorio pedibus calcantibus non era ancora vissuta come una maledizione da cui emanciparsi il più presto possibile. Per me, figlio dell'immediato dopoguerra “povero ma bello”, (per chi c'era, però, soprattutto povero), muovere le gambe, alzare i tacchi, andare dove portano i piedi rappresentò la modalità di una tripla emancipazione. Familiare, perché passero non più implume, ormai fiducioso nella forza delle piccole ali, irrobustito il becco, cominciavo svolazzare tutt'intorno, in autonomia; territoriale, in quanto mi allontanavo dalla dimensione protetta in cui avevo vissuto l' infanzia:  il grande cortile che faceva da cornice ai giochi, non sempre del tutto innocenti, miei e dei miei coetanei e l'ormai monotono percorso casa/scuola incapace di rinnovare le emozioni, sempre identiche, che era in grado di fornire: un muretto da s/cavalcare; un cane particolarmente versato nell'abbaiare quando meno te lo aspettavi e anche mordace; l'immota e cupa immagine della romana ultima dimora di Costanza, forse santa e forse no, forse figlia o forse nipote dell'ambiguo Costantino, quello di In hoc signo vinces ; estetica perché in conseguenza di tali spostamenti scoprivo, a poco a poco, le bellezze della mia città che mi avevano sempre circondato senza che ne avessi particolare coscienza: la via Nomentana e  Sant'Agnese fuori le Mura, il quartiere Coppedè e villa Ada, Porta Pia, le Mura Aureliane, villa Borghese... E la sorpresa, insieme alla percezione di quell'armonia intrisa di umanissima storia, mi aiutarono a crescere, forse, meno risentito, più indulgente e amabile. Più civile.

Nessun commento: