10 settembre 2016

"Lettere alla casa editrice" di Federico Zeri







tutto quanto vi è nella Scrittura va ricavato dalla Scrittura stessa
(Spinoza)1
 di Davide Pugnana

Si sentono nella sua vita, nelle sue lettere – come in un materiale in cui essa è appena riconoscibile – alcuni lineamenti della sua opera, che è l'unica ragione di essere della sua vita, i suoi amori che non esistono se non nella misura in cui sono ne sono i materiali, che tendono verso di essa e che non resteranno che in essa.”(2), questa intensissima soglia di introduzione ad una costola dell'epistolario di Federico Zeri è firmata Marcel Proust. 

Il passo è tratto dal Contre Saint-Beuve, l'opera di riflessione teorica nella quale Proust riflette sul nodo biografia-opera a partire dall'analisi del metodo di Saint-Beuve, giungendo a determinare l'inadeguatezza della prima come chiave di lettura della seconda, nonostante la vita sia “l'alfabeto in cui impariamo a leggere e in cui le frasi possono essere non importa quali poiché sono sempre composte dalle medesime lettere(3). Perché queste parole proustiane dovrebbero offrirsi come viatico alla comprensione dello scambio epistolare che, lungo tre decenni (1955-1980), corse tra un grande storico dell'arte romano e i funzionari della casa editrice torinese Einaudi? 

Una prima risposta va in direzione della vita del 'personaggio' Zeri: una figura di grande risonanza mediatica, sulla quale si è calamitata l'attenzione del pubblico e dei media secondo i marcati chiaroscuri di una spaccatura senza rimedio divisa tra odio e amore, tra sostenitori e detrattori.
 Zeri non fu solo l'autore di saggi mirabili e coraggiosi, polemici e antiaccademici, dei quali si darà conto più avanti, attraverso lo spioncino delle lettere einaudiane. Dall'altra parte, accanto allo studioso serio e appartato, immerso nel dedalo di immagini, gesti, stili, documenti; all'infallibile conoscitore e all'instancabile viaggiatore, si muoveva un Federico Zeri squisitamente mondano, inserito nei migliori salotti inglesi, americani, russi ed europei dell'epoca; fotografato durante serate di gala, in smoking, accanto a ricchi signori, famose attrici e ballerine di cabaret. 
Così come numerose e memorabili sono le comparse televisive del personaggio Zeri, la cui intelligenza si manifestava anche nella sofisticata forma di un'autoironia venata di istrionismo, in tutta la tastiera dei possibili registri teatrali: il sarcasmo e la polemica; il pettegolezzo e la parodia; la mimica corrucciata e la recitazione dei versi; l'aforisma tagliente e lo struggente ricordo d'infanzia; la parola della lezione e quella del silenzio. 
Tutto questo gioco caleidoscopico di atti e situazioni, di stati d'animo e apparizioni compone e scompone, come nelle Perestroike dei Luna Park dove la propria figura si allunga e si allarga, si schiaccia e si dilata in bizzarrissime deformazioni, la vita di Zeri. O meglio: è, proustianamente, il “materiale” che stratifica “l'alfabeto” della sua vita. Ogni lettore può liberamente chinarsi su questo libro biografico e decidere quale parola o frase leggere, se isolarla o metterla in relazione. Tra le pieghe di questo “alfabeto” complesso e intrecciato troviamo la raccolta di lettere, documenti preziosi per chiunque voglia soddisfare due pulsioni insieme opposte e complementari. 

La prima, nel caso l'autore sia famoso e, quindi, sia divenuto oggetto di studio, serve a capire, dal di dentro, come nell'intimità di una confessione, la sua visione del mondo e i percorsi di formazione di opinioni, giudizi, idee, testi e cronologie. È una pulsione di lunga durata che potremo definire storico-filologica

La seconda, invece, è un'inclinazione più comune e di breve respiro: il desiderio voyeuristico di guardare da quel buco della serratura che, da sempre, offrono all'occhio indiscreto lettere e diari, non conta se di personaggi famosi o comuni mortali, per coglierne dettagli piccanti e scabrosi, còlti fuori controllo,  senza i veli protettivi dell'aura. Per quella che è stata la figura di outsider di Federico Zeri nell'immaginario visivo degli italiani (tanto in senso di notorietà scientifica quanto di popolarità televisiva), la lettura di questa costola del suo vasto epistolario attiva entrambe le pulsioni. 

Con una precisazione, credo fondamentale, questa volta desunta da Roland Barthes: che in minore o maggiore grado di rielaborazione, qualsiasi fatto di vita, lasciato scivolare nelle maglie della scrittura, subisce sempre una trasformazione diventando altro, come se l'originario “alfabeto” di eventi allo stato di grezza realtà subisse un processo di traduzione. Secondo Barthes, l'opera scritta, sia essa d'arte o di testimonianza, non abolisce la biografia del suo creatore; ma la disorienta e la disorganizza. Alla fine del percorso le tracce sono quasi irriconoscibili, ma non del tutto cancellate; e all'interno di “una costruzione a più piani, costituita da strati eterogenei”(4) può accadere che un lavoro archeologico, teso a ricostruire la fasi del sistema-opera, possa imbattersi in frammenti di quel materiale non più cospicui di un'annotazione meteorologica o dell'essersi recati all'ufficio postale a espletare una pratica che ha richiesto di prendere in mano una penna e di scrivere.

In particolare nelle lettere, che - nella misura in cui non siano concepite secondo i criteri dell'ars epistolografica - forniscono una rielaborazione dei “fatti” di primo grado, da cui talora gli scrittori sembrano estrarre una “frase” che appare allora ritagliata direttamente in quella “materia bruta” (5).  Nel caso di molti epistolari, si tratta, se vogliamo, di una imperfetta e improvvisata traduzione di quell' “alfabeto”: la forma epistolare determinerebbe un'inaugurale forma di “disorganizzazione”, producendo una sorta di autobiografia episodica e preterintenzionale. Sappiamo che Proust si augurava la distruzione di tutte le sue lettere affinché i lettori potessero rimanere in totale balìa della sola Recherche. Il motivo profondo di questo desiderio non era tanto l'occultamento o il velo tirato sulla propria storia quotidiana (con le sue miserie e bassezze, i suoi piccoli segreti  o le sue perversioni); era, al contrario, l'estrema coerenza di chi credeva nella traduzione altissima e sorvegliata della propria esperienza in un'altra lingua: una “lingua straniera” che arrivasse a cancellare insieme il proprio nome e la propria identità con la consapevolezza che l'opera, in quanto tale, è sempre “oeuvre d'autrui”, e che “lo scrittore mentre scrive dimentica il proprio nome, così come noi, mentre leggiamo, dimentichiamo il suo e il nostro.”(6)

Osservato dal versante proustiano, il primo grado della lettera non poteva soddisfare questa condizione sulla quale pendeva la tensione al sì definitivo di un'autografa mistica del tocco. Era la tesi sostenuta da Proust nel Contre Saint-Beuve e di fronte alla quale Barthes sceglie una posizione di mezzo, dove la scoria biografica non viene del tutto purificata da un tipo di scrittura di primo  grado.

Attraversando le centoventitré lettere del carteggio zeriano con le carismatiche figure della casa editrice Einaudi (i due Giulio, Einaudi e, soprattutto, Bollati; poi Paolo Fossati in un secondo tempo e, sullo sfondo, figure di studiosi e traduttori come Enrico Castelnuovo e Guido Davico Bonino)  non possiamo non tenere conto della giustezza di queste posizioni teoriche e, al contempo, delle due pulsioni alle quali ogni missiva, di volta in volta, come in una morbosa e accattivante oscillazione, ci consegna. Se guardiamo al lato voyeuristico, il carteggio einaudiano è punteggiato di piccoli  fuochi icastici nei quali Zeri svela il suo giudizio tranchant intorno a episodi e testi di scrittori contemporanei, sia storici dell'arte (“Ho poi letto il librone dello Chastel sulla Firenze di Lorenzo il Magnifico: è un vero mattone erudito, pieno di cose che interessano soltanto gli iconografi, e pieno di uno sfoggio di dottrina che cerca di nascondere l'assoluta mancanza di senso critico e storico. Per carità, non lo stampate!”; “Vedo che la vostra Libreria, bellissima, in Via Veneto, è divenuta il piedistallo su cui si esibisce G.C.Argan...”; “La presentazione è andata abbastanza bene; dico abbastanza, perché la ghignante presenza di E. Battisti ha costituito una nota sgradevole.”; “Solo R. Longhi (a quel che mi riferiscono le fonti) na va dicendo cose vituperevoli; se è veramente così, finirò col chiamare il Longhi <> e troncherò ogni rapporto con lui.”; “Se per caso ritrovassi il testo completo della Chanson de Brandi et d'Argan (debbo pur averla da qualche parte) te ne spedirò copia conforme.”), sia letterati (“Per ora sto combattendo con U. Eco, molto interessante ma scritto alla maniera delle Sibille”; “L'esperimento pare interessante; e si spera che serva almeno a far scrivere a Calvino cose meno fesse di quelle che mi è occorso leggere, sebbene temo che tutto si risolverà nell'appellativo di <>”), fino alla lettera del 18 marzo 1976, vero gourmet per il lettore ingordo di pettegolezzo e piccolo capolavoro di stroncatura di un libro di Lionello Venturi dal titolo Come si comprende la Pittura:  “Lo sto leggendo con un senso di sbigottimento e di autentica apprensione, alleviata da folli risate. Mi domando a chi mai sia venuto in mente di rinfrescare roba del genere, che andrebbe pudicamente velata, anche e soprattutto per la buona memoria dell'estinto, e per il buon nome della memoria italiana.” Preambolo a cui Zeri fa seguire un commento in forma di elenco, isolando e citando, con controcanto ironico, frasi del libro degne “del più cattivo Flaubert”: “p.41: nella Primavera del Botticelli Zefiro lascivo vola per acchiappare Flora, in altri termini per prenderla per le chiappe.”

Malgrado la vena divertente e istrionesca dello Zeri stroncatore, il suo fascinoso brio dilegua presto lasciando spazio al coté più profondo e persistente di questo ramo einaudiano dell'epistolario di Federico Zeri. Ramo costituito dal restante e corposo nucleo di lettere che gettano luce sulla pluralità di attività e di talenti dello storico dell'arte romano. A voler disegnare, su basi affatto empiriche, una mappa di orientamento per questa 'passeggiata' potremo suddividere le restanti missive in tre gruppi, tra loro fittamente intrecciati e rubricabili sotto la definizione complessiva di editoria in azione, nel senso che a questo lavorìo si intende dare qualora ci si riferisca alle sinergie , alle divergenze e alle intuizioni tra menti operosissime all'interno delle officine editoriali. 

Il dialogo tra Zeri e Giulio Bollati scorre all'insegna di questa serrata dialettica progettuale. In un primo nucleo, abbiamo lettere nelle quali viene affrontata la questione delle pubblicazione di saggi o progetti editoriali: è il caso di lavori come Pittura e Controriforma. L'arte senza tempo di Scipione Gaeta (1957), la “acrobazia filologica” di Due dipinti, la Filologia e un nome (1961) e, vero e proprio filo rosso di tutto l'epistolario, l'incessante e tormentata pianificazione ed elaborazione di un'opera monumentale La storia dell'arte italiana, il cui ultimo di nove volumi uscirà nel 1983 e della quale queste lettere restituiscono la gestazione e un documento prezioso come il Prospetto (pp.11-15). Stupisce su questo versante l'abilità di Zeri nel dettare suggerimenti non solo di ordine contenutistico (la scelta del titolo giusto, ossia più aderente possibile alla sostanza dell'opera: “Circa il titolo invece, non vedo ragioni di sorta che imponga di mutare quello che io avevo scelto, cioè La pittura senza tempo di Scipione da Gaeta; questo titolo indica con esattezza i limiti e il significato del saggio, che tratta del pittore Scipione da Gaeta, e non è un saggio sistematico sulla pittura della Controriforma. Il titolo Saggio sulla pittura della Controriforma, cui accenna il contratto, dà un'impressione del tutto inesatta circa il saggio, e si presterebbe ad aspre critiche  che io, prevedendole, ho cercato di evitare col titolo che avevo scelto.”); ma puntuali consigli toccano anche la veste editoriale e l'impaginazione (“La sola che trovo da obiettare […] è la figura 96, cioè l'ultima, che è stata riprodotta a formato francobollo, sì da farle perdere ogni significato.”).

Il secondo e terzo gruppo di lettere riguardano altre due incursioni di Zeri lettore in attività editoriali collaterali: i consigli e la segnalazione di opere straniere per la pubblicazione e la continua richiesta  di invio di opere pubblicate per placare la sua “febbre bibliofila”. Anche su questo terreno Zeri ha intuizioni folgoranti: fa pubblicare per Einaudi saggi tutt'oggi capitali della storiografia artistica (Arte e umanesimo a Firenze al tempo di Lorenzo il Magnifico di Chastel; La pittura fiorentina e il suo ambiente sociale nel Trecento e nel primo Quattrocento e Classicismo e Romanticismo di Antal; consiglia di tradurre e stampare Rosemblum quando in Italia era ancora un perfetto sconosciuto e fa pubblicare un saggio fondamentale sulla pittura dell'Ottocento, Realismo. La pittura in Europa nel XIX secolo di Linda Nochlin. L'ultima lettera del carteggio con Giulio Bollati (1 luglio 1980) è ancora un consiglio di  lettura. Altrettanto vertiginoso, se pensiamo alla sua lunga vita, è l'elenco di letture che affiora in queste lettere. Zeri è lettore onnivoro di classici (Guicciardini, Manzoni, Leopardi, Madame de Stael, Fitzgerald, Ripellino, Durrenmatt, Kundera, Musil) e autori contemporanei (Manganelli, Bruno Zevi, Castelnuovo, Chabod, Trlling), in più lingue straniere e in diversi generi (storia, letteratura, filosofia ecc; ).

Sullo sfondo delle lettere ricaviamo anche un diario di bordo dello Zeri viaggiatore: “Io sono tornato da pochi giorni dalla Germania”, “il 4 novembre debbo imbarcarmi per New York”; “torno ora da un bizzarro viaggio negli Stati Uniti”, “dovetti fermarmi a Parigi più del previsto”, “Io sono tornato da pochi giorni da Los Angeles”, “al ritorno da un viaggio a Mosca”, “torno da un secondo viaggio in America”, “Io vado a Londra e torno qui il 22”, fino al resoconto da luoghi incantati come il soggiorno inglese nel maniero cinquecentesco di Sutton Place, che, dagli anni Cinquanta,  era divenuta  la residenza di Jean Paul Getty. Da lì Zeri scrive a Fossati il 29 marzo 1975: “Approfittando di un soggiorno in un nascosto angolo del Surrey...”.

Non mancano poi giudizi, ancora attualissimi per saggezza e respiro, sullo statuto della storia dell'arte come disciplina. Uno di questi spicca su tutti e funge da stimolo per affrontare la lettura di queste Lettere alla casa editrice: “A questo proposito è superfluo l'avvertimento che in Italia la Storia dell'Arte è, salvo casi singolarissimi, precipitata in mano a venditori di fumo: una delle eredità dell'idealismo crociano (pianta, è bene ricordarlo, nata nello stesso terreno in cui allignò il fascismo) è l'aver dato l'avvio alla <> in senso astratto, alla <>, ecc. ecc., un andazzo questo che consente di scrivere volumi di impressionante concettosità  anche a chi non sa poi distinguere fra un ferro di cavallo e un bronzo di Donatello, come è dimostrabile con migliaia di esempi. È perciò palmare che un lavoro come quello che io vorrei iniziare non può che essere aborrito e vilipeso dalla stragrande maggioranza dei nostrani Storici dell'Arte, che da un'opera basata su fatti e non concetti o concettini trarrebbero la misura della propria ignoranza.” (Roma,  1 settembre 1956)                            
Note:

1 Spinoza, Trattato teologico-politico, a cura di E.G. Boscherini, Einaudi, Torino, 1972
2 M.Proust, Contre Saint-Beuve, Einaudi, Torino, introduzione di F. Orlando e M. B. Bertini, 1991
3 Ibidem
4 R. Barthes, Il brusio della lingua. Saggi critici IV,  Einaudi, Torino, 1984
5 M. Proust, Jean Santeuil, Einaudi, Torino, 1976          
6 E. M. Forster, Aspetti del romanzo, Il Saggiatore, Milano, 1963
 
F. Zeri, Lettere alla casa editrice, a cura di Anna Ottavia Cavina, Einaudi, Torino, 2010, pp. 132

Nessun commento: