14 novembre 2012

"La rapa" di Luciano Luciani





Un’ingiusta reputazione

Davvero non è facile spiegare perché da sempre un’aura di rusticale opacità avvolga la rapa. Ovvero la Brassica campestris, pianta della importante famiglia delle Brassicacee che allinea sulle nostre tavole non pochi ortaggi imprescindibili per una gustosa e sana alimentazione: cavolfiori, cavoli, ravanelli, rape… Ed è su quest’ultima umile e generosa figlia dei campi, coltivata da millenni per le sue radici carnose e largamente impiegata nella nutrizione umana e animale, che si è esercitata la fantasia, spesso malevola, degli stessi beneficati. Sarà che la rapa nasce dalla terra e nella terra, saranno le sue forme sgraziate e grottesche o che nel corso dei secoli si è andata connotando come cibo per gente povera e bestie, tant’ è che la rapa ha visto crescere attorno a sé una fama di ottusità e dabbenaggine che non accenna a estinguersi. Ancora ai nostri giorni, infatti, annoveriamo il diffusissimo epiteto “testa di rapa” che non è certo percepito come un complimento e non si dimentichi, poi, il modo di dire “cavare il sangue da una rapa” per sottolineare l’inutilità a impegnarsi in una relazione con una persona ritenuta inadeguata o in un’attività destinate, l’una e l’altra, a rimanere improduttive, sprecando tempo e fatica. La nostra Brassica campestris, insomma, ha sofferto e soffre di una reputazione tanto bassa e volgare quanto immeritata, ennesima manifestazione dell’ingratitudine degli uomini.

Uomini e rape

Originaria dell’Asia sudoccidentale, la rapa era nota a quelle popolazioni nomadi che se ne cibavano e ne utilizzavano le foglie come foraggio per i cavalli. Apprezzata da Greci e Romani per le sue virtù salutari, adattabile a tutti i tipi di terreno purché sufficientemente umido, fu estesamente coltivata durante il Medioevo in tutta Europa, occupando, per secoli, nell’alimentazione umana il posto che, dopo la scoperta dell’America, sarebbe stato della patata. Senza particolari esigenze climatiche, con un ciclo biologico piuttosto rapido, di facile conservazione, si è imposta alla coscienza collettiva come la regina delle radici commestibili e l’uomo europeo si è largamente nutrito della sua polpa bianca, gialla o rosata, dal vago aroma di noce, cruda o cuocendola al forno o sotto la cenere, elaborando con essa i più vari tipi di zuppa o ragù, l’antico rapulatum..

Il tempo delle rape

Le rapa da utilizzare come scorta invernale deve essere seminata tra la seconda metà di giugno e settembre, da sola oppure insieme a miglio, avena, granturco, grano saraceno, trifoglio, fieno greco e altre piante da foraggio. “Le rape”, scrive Antonio Mazzarosa, un aristocratico lucchese dell’Ottocento che pensava italiano, attento osservatore delle pratiche agricole della sua terra, “si svelgono alla metà di novembre, e si pongono fitte fitte in linea sugli orli del campo convenientemente rincalzate di terra; ove continuano a vegetare, e servono alla famiglia per il broccolo, e alle bestie per la rapa ridotta in minuti pezzi e mescolata con la paglia”. Non si dimentichi, dunque, il proverbio contadino per cui
Tutto a suo tempo
e rape in Avvento
Non oltre i primi dieci giorni dell’ultimo mese dell’anno, infatti, le rape invernali andranno estratte dal terreno e avviate alla conservazione che avverrà in scatole di sabbia o terra asciutta.
Anche per il poeta latino di origine iberica Marco Valerio Marziale (40 – 102) le rape raccolte a ridosso del solstizio d’inverno sono talmente buone che le mangia volentieri nientemeno che Romolo, leggendario fondatore e primo re di Roma:
Haec tibi brumali gaudentia frigore rapa
quae damus, in caelo Romulus esse solet
(eccoti le rape che si sono godute il freddo brumale
cibo abituale di Romolo lassù in cielo).
Xenia, Liber XIII, XVI

Tra le rape da inverno vanno ricordate alcune varietà particolarmente apprezzate dai consumatori: la “rapa precocissima d’Olanda” e la “rapa di Norfolk”.
La rapa estiva, destinata a un consumo immediato, si semina invece a partire da marzo e si raccoglie prima che le radici ingrossino troppo caricandosi di cellulosa e diventando così poco digeribili. Quando? Ce lo indicano due proverbi:
Se vuoi la buona rapa
per Santa Maria (15 agosto) sia nata

oppure il toscano
Accidenti a quella rapa
se d’agosto ‘un è nnata
I tipi estivi più apprezzati? La “rapa bianca piatta di Milano” e la “rapa bianca lodigiana”.
Oggi, nel nostro Paese, la rapa si coltiva soprattutto nel nord – Italia e tra le province più “vocate” a tale coltura merita di essere ricordata quella di Cuneo; non disprezzabile, però, la produzione toscana e campana. All’estero spiccano alcune aree francesi, i Paesi Bassi e la Scozia.

Vitamine e minerali. Luci e ombre

Poco stimata sul piano nutrizionale il nostro ortaggio ha, invece, recentemente proprio su questo terreno conquistato parecchi crediti . Risulta, infatti, ricco di vitamina B6 e C e abbonda di sali minerali quali il calcio, il fosforo, il magnesio, il potassio. Al punto che la Scuola medica salernitana (XI–XII secolo) ne rilevava le proprietà diuretiche ed emollienti, depurative e rinfrescanti utili nella cura delle cistiti, gotta, litiasi, delle malattie della pelle e, mescolata con grappa e miele, dell’apparato respiratorio. Più problematico intorno ai benefici della rapa è stato Castore Durante da Gualdo (1529-1590), umanista, archiatra del terribile papa Sisto V e autore del prezioso Tesoro della sanità, breviario cinquecentesco della salute e della vita quotidiana, uno tra i primi esempi di letteratura divulgativa di argomento igienico – sanitario. Per il medico umbro il simpatico ortaggio “Genera ventosità e aquosità nelle vene, e opilazione nei pori. È di tarda digestione, e talora mordica il ventre e lo fa gonfiare, riscalda le reni: cruda è nemica allo stomaco; arrostite, e acconcie con aceto in insalata eccitano l’appetito”. Insomma, per il volgarizzatore controriformista la rapa è più ombre che luci.
Un atteggiamento svalutativo nei confronti della nostra brassicacea ribadito anche da un proverbio di area toscano/lucchese:
Disse Cristo agli apostoli suoi
non mangiate rape ch’è cibo da buoi
Naturaliter insipida, scipita, sciocca la rapa, che raccoglie pure le critiche della secolare saggezza del popolo romano:
Chi cià er pepe lo mette a le rape,
e chi nun ce l’ha le magna sciape

La rapa nel canto popolare

Un proverbio che, a leggerlo bene, lascia trapelare non solo un’opinione negativa sulla nostra radice edibile, ma ripropone il tema dell’eterno fatalismo della plebe capitolina non intaccato neppure dalle promesse di libertà e giustizia della Rivoluzione francese. Anzi! Nei versi che seguono, il cantastorie romano Camillo Fiorentini detto Cacarone utilizza anche la rapa e il suo “fiore” per ribadire l’astio antifrancese e il sentimento filo papalino degli abitanti della Città eterna:
Fior de carote,
oh, state zitta, mamma, e nun piagnete
che Francia ce le vò le cortellate.
Fiore de rapa,
magna l’ajo, francese, schiatta e crepa,
che qui se more pe’ difenne er papa.

Spostiamoci in avanti di quasi un secolo, verso nord. Siamo nella Milano di fine Ottocento, la città più ricca d’Italia che si accinge a raggiungere e superare i 300mila abitanti. Proprio qui, legioni di fanciulli, donne, anziani, malati, disoccupati, senza casa conoscono quotidianamente i morsi della fame… Una filantropa, precorritrice del moderno welfare, Alessandrina Ravizza (1846-1915), in grande solitudine, fondò allora la Cucina per gli ammalati poveri: un vasto locale disadorno situato in via Anfiteatro, un luogo generalmente considerato mal frequentato e insicuro dalla Milano perbenista. Magre le risorse economiche, grande l’entusiasmo, eccellente la stima che la Ravizza riscuoteva presso i piccoli negozianti al dettaglio che fornirono a prezzi bassissimi le loro merci e fecero addirittura credito. Poi, soccorsero la sua inesauribile creatività, il suo straordinario fervore, la capacità di commuovere e coinvolgere attraverso serate musicali e teatrali, mostre, conferenze finalizzate alla raccolta di fondi. Imitata da altri enti e associazioni e, più tardi, istituita anche dallo stesso Comune di Milano, la Cucina rappresentò l’ennesimo miracolo socio – assistenziale di Alessandrina che, dalla ingenua gratitudine del proletariato milanese si vide innalzata al rango di contessa, la “Contessa del brodo”.
Anche qui, però, non mancarono, sempre provenienti dal mondo popolare, voci di dissenso e di critica che, comunque, testimoniano quanto quella sua iniziativa fosse entrata nel profondo della vita quotidiana dei milanesi poveri e poverissimi. Così recita, infatti, la prima strofa di una canzone d’osteria di fine ‘800:

A la mensa collettiva a gh’è el mangià che stracca
se va denter con la forza e se vègn foeura con la fiacca
………………………………………………………………..
quatter rav in insalada fettin ben ben tajaa
merluzz che rifilen el campana ‘me on dannàa
(il merluzzo che ti rifilano puzza da morire)

Le rav, le rape, diventano così, nell’immaginario simbolico popolare, un’unità di misura della miseria e della fame.

Rape di carta

Sì, nelle campagne del vecchio continente si sono mangiate tante, tante rape e per generazioni! E non sono poche le tracce di questa consuetudine alimentare rimaste nella letteratura. E se lo scrittore francese, Francois Rabelais (1494–1553), con più di una punta di disprezzo, definiva “masticarape” gli agricoltori del Limousin nel Plateau Central della Francia, dall’Orlandino di  Teofilo Folengo veniamo a sapere che mangiarape era epiteto assegnato a tutti i Lombardi, senza dimenticare che si trattava d’indicazione geografica larga al punto da abbracciare l’intera pianura Padana: "..Pur saper dè' ch'io son di Lombardia / e ch'in mangiar le rape ho del restio.. ..e questo voglio ch'a color sia detto / che chiaman: "lombarduzzo mangia rape"..." Un appellativo resistente, almeno sino alla fine del XVII secolo come riporta il Tasso napoletano di Gabriele Fasano, versione in dialetto partenopeo della Gerusalemme liberata. Qui troviamo l’elenco dei popoli d’Italia definiti in base alle loro abitudini alimentari: “mangiarape” i lombardi; “mazzamarroni” gli abitanti dell’Appennino tosco-emiliano; “mangiafoglie” i cremonesi; “pane unto” gli abruzzesi; “cacafagioli” i fiorentini; “cacafoglie” o “mangiafoglie” i napoletani…
Ludovico Ariosto (1474–1533), in una sua satira, la terza, tende piuttosto a valorizzare il carattere domestico ma affidabile, mediocre ma sicuro della nostra radice:

Chi brama onor di sprone e di capello
serva re, duca, cardinale o papa,
io no, che poco curo questo e quello.
In casa mia mi sa meglio una rapa
ch’io cuoca, e cotta s’un stecco me inforco,
e mondo, e spargo poi di aceto e sapa
che all’altrui mensa tordo, starna o porco
selvaggio; e così sotto una vil coltre
come di seta o d’oro, ben mi corco.

Modeste qualità quelle della rapa, ben ribadite mezzo secolo più tardi da Giulio Cesare Croce (1550-1609), che nel suo celeberrimo Le sottilissime astuzie di Bertoldo fa morire il suo causidico eroe contadino
con aspri duoli
 Per non poter mangiar rape e fagiuoli.

E nel suo testamento morale Bertoldo ribadisce che

Chi è uso alla rapa non vada ai pasticci

Insomma, i due letterati emiliani sembrano rielaborare l’antico proverbio per il quale:
Meglio una rapa in casa mia
che un cappone in quella
di chicchessia
Della serie no place like home. Ma non sempre l’apprezzamento per la rapa era stato così cordiale. In proposito le cronache riportano che nel 1305 nel corso di una delle numerose guerre con i vicini marchesi del Monferrato, duemila fanti astigiani entrati a Pontestura, non trovando da mettere sotto i denti altro che rape, riversarono tutta la loro rabbia sul proprio comandante ricoprendolo di ogni sorta di epiteti. E gli andò pure bene…

Rape da fiaba

E poi ci sono le fiabe… In questo particolarissimo genere narrativo, le rape diventano gigantesche e contribuiscono a punire i furbastri e gli avidi, aiutando a ristabilire un minimo di giustizia sociale. Così avviene nella fiaba dei fratelli Grimm La rapa, dove un contadino povero offre il suo ciclopico ortaggio al re e ne viene ricompensato con denaro, terre, oro e armenti, mentre al fratello ricco che, invidioso della fortuna del contadino, aveva a sua volta portato ogni sorta di regalie sperando in una ricompensa ancora più grande, tocca come bene prezioso proprio l’enorme rapa.
In una celeberrima fiaba popolare russa intitolata La rapa gigante a due vecchi contadini risulta impossibile sradicare una colossale rapa cresciuta inopinatamente nel loro orto. Chiedono allora l’aiuto della giovane nipote. Niente, quel maledetto ortaggio ipertrofico ed extralarge non si lascia svellere. Né le cose migliorano con l’intervento del cane di casa che chiama in soccorso il gatto della famiglia… Solo, però, il coinvolgimento di un ultimo, decisivo, minuscolo soccorritore, un piccolo topo, permetterà a questa catena solidale che accomuna uomini e animali anche nemici tra loro di avere ragione della smisurata radice e farla diventare una ricchezza per tutti. Di questo racconto fiabesco diffusissimo in area slava che esalta l’aiuto reciproco e generoso, raccomandiamo la lettura ai sempre più numerosi sostenitori di un individualismo forsennato nei rapporti sociali ed economici.

Le rape arrapanti

Insomma, stiamo parlando di un cibo adatto a regolare il tono fisico complessivo, e questo spiega perché Plinio il Vecchio (23–79) nella sua Naturalis Historia e il contemporaneo Dioscoride Pedanio, (40–90) medico, botanico e farmacista greco attivo negli anni di Nerone, abbiano concordato nell’attribuire alla rapa proprietà afrodisiache, specialmente se conservata in salamoia insieme alla ruchetta, altro vegetale in fama d’essere particolarmente amica di Venere.
Per il solito Castor Durante, medico rinascimentale, le cime di rapa, mangiate lesse, oltre a favorire la minzione e a irrobustire la vista, “accrescono il coito”. Attenzione, però, a non esagerare perché

Donna nuda e rapa dura
portan l’uomo a sepoltura

e non si perda il bisenso sessuale di quella rapa dura.
La contiguità della rapa ai piaceri d’amore nasce probabilmente dalle sue radici grosse, enfiate che rimandano all’immagine del membro virile. Non sono pochi i dialetti italiani che registrano il verbo arraparsi nel senso di eccitarsi sessualmente. Una relazione confermata dal detto toscano

Pepe, noce moscata e sapa (senape)
(tre sostanze considerate afrodisiache)
fanno buona la rapa

Un Viagra d’altri tempi, senz’altro più saporoso dell’attuale pasticca blu e di sicuro con minori controindicazioni.

13 novembre 2012

"L'io e l'altro (in sè)" conversazione su F.B.



Una  “discussione” su Face Book. Su un tema, che apre questioni enormi. Qui affrontate a colpi di fioretto: sinteticamente e allusivamente, lasciando, cioè, echi di pensiero impliciti. La pubblichiamo su L. R. quindi anche per la forma con cui (la discussione) si è espressa.     

9 NOVEMBRE 2012
Mi piace trovare gli attimi
in cui l'Io si sdoppia
guardando se stesso implacabile
come se fosse Altro...

[ Gianni Quilici]

  • Lara Taddei ..ed è quando diventa Altro che tutta la potenza dell'Io si manifesta...
  • Davide Pugnana Attimi privilegiati. Penso alle parole del sedicenne Rimbaud (sempre nostro contemporaneo): "Perché IO è un altro. Se l'ottone si sveglia tromba, non è affatto colpa sua. Ciò mi pare evidente: io assisto allo schiudersi del mio pensiero: lo guardo, lo ascolto: do un colpo d'archetto: la sinfonia fa il suo sommovimento nelle profondità, o di colpo balza sulla scena." (lettera a Paul Demeny, Charleville, 15 maggio 1871)
  • Gianni Quilici ...perché può capire ciò che è in lui storicamente appiccicato e liberarlo...
  • Lara Taddei ....o perchè può convivere anche con ciò che storicamente non è più liberabile...
  • Gianni Quilici ...perché comunque la consapevolezza dà quell'energia...
  • Lara Taddei ...la consapevolezza consente vivibile il presente e vivido il futuro...
  • Davide Pugnana Le tue parole Gianni - ma tutto il seguito della bella discussione con Lara - è vero mi hanno richiamato la meditazione di Rimbaud; ecco, per tornare sulle parole del poeta, trovo sia un amabile paradosso quello del risveglio da "ottone" (storia) a "violino" (liberazione); in verità, entrambe le posizioni, sono condizioni di altissima autocoscienza, nella misura in cui l'introspezione non diventi quel viaggio turistico nelle grotte, mappa alla mano, su cui ironizzava Pontiggia in tempi di new age psicoanalitica. Per dirla alla Montaigne, se si impara a scandagliare in profondità il proprio Io si cammina bene anche nei depositi della storia.
  • Patrizia Manganaro mi piace e mi compiaccio di poter osservare l'Io che si sdoppia...non temo l'Altro...ne approfitto da osservatrice...
    @       @        @ 

12 novembre 2012

Romanzi da leggere di Malvaldi, Camilleri, Don Lillo, Trevi, Niffoi




di Mirta Vignatti

Vorrei dar conto di alcune letture di qualche tempo fa che non avevo finalizzato con un commento: un “tesoretto” (o un'altra “mazzata” per chi ha la rassegnata pazienza di leggere) che era rimasto in sospeso.
La briscola in cinque di Marco Malvaldi: una risata che vi seppellirà. Rigorosamente da non leggere in ambienti pubblici. Potrebbero prendervi per matta.

Una lama di luce di Camilleri: organizzatevi un black out di almeno 3 ore spegnendo il cellulare. Nessuno deve rompervi “i cabasisi” durante la lettura: non c'è solo l'indagine di Montalbano e la sua squadra, in questo libro ci sono anche spunti di buona letteratura.

Underworld di Don De Lillo. All'inizio c'era il romanzo ottocentesco francese, poi vennero i grandi, insuperabili russi, aprendo nuovi orizzonti. Poi la crisi, le guerre, il realismo e il superamento del realismo. Poi Dio creò Thomas Pynchon, Foster Wallace e De Lillo, e il romanzo non è più stato come prima. Almeno uno dei tre bisognerebbe leggerlo per capire il post-modernismo nordamericano, e forse il De Lillo di “Underworld” è il più accessibile. Certo, già mi aspetto dei giudizi “taglienti”, ma come De Lillo “legge” la storia e come riporta i dialoghi dei suoi personaggi, riferendone il retro-pensiero e la frase che ne viene fuori... nessuno. Un giorno questi tre saranno considerati dei maestri.

Qualcosa di scritto di Emanuele Trevi. Un libro davvero da leggere, che raccomando in modo particolare. Non c'è solo la ricostruzione dei materiali sparsi che -in forma di appunti- Pasolini lasciò e che i curatori riuscirono a organizzare nel libro postumo “Petrolio”. C'è anche tutto il clima intellettuale che ruota intorno al centro-studi Pasolini di Roma, Walter Siti con le foto di uomini nudi attaccate alle pareti del suo appartamento, lo stesso Trevi continuamente mortificato dalla direttrice del centro Laura Betti, ma soprattutto lei, la grande Laura Betti, che giganteggia con tutta la sua aggressività, la sua violenza verbale, la sua bulimia; e le feste che organizza nel suo appartamento nel centro di Roma, dove si incontrano tutti quelli che “contano”, con Moravia (ma come doveva essere insopportabile?) che suggerisce alla Betti per telefono il menu da preparare e le persone da invitare; e Pasolini sempre un po' a disagio e ai margini di queste “fiere delle vanità”. Trevi riesce a ricostruire gli ultimi percorsi della ricerca pasoliniana -tra esistenza e mito- in un dopo “Salò-Sade” disperato e solitario. Una rielaborazione mentale di alcuni miti e misteri dell'antica Grecia e una sperimentazione sul proprio corpo che era stata accennata negli appunti di “Petrolio” e che lo porterà alla morte. Chi può non lo perda.

La vedova scalza di Salvatore Niffoi. Un autore che mi mancava e che ho letto con grande interesse. Un tuffo nella “sarditudine” più arcaica, con un senso della vendetta così primordiale da lasciare interdetti. Le difficoltà nel leggere le parti in lingua sarda credo che si possano superare agevolmente e la costruzione del romanzo con inserti di strofe e “battorine” da cantastorie dà all'insieme un carattere mitico-epico. Se la devo dire tutta, nel mio percorso di conoscenza della letteratura sarda preferisco a Niffoi (di cui comunque mi propongo di leggere altro) un autore come Marcello Fois. Ma ovviamente questo è un giudizio opinabile e del tutto personale.

08 novembre 2012

"Amerigo Vespucci, tra Firenze e l'America" di Luciano Luciani



A mezzo millennio dalla morte


Nascita, giovinezza e prime esperienze

Terzo figlio di ser Anastasio o Nastagio Vespucci, notaro, e di Elisabetta o Lisa Nini, Amerigo, nacque a Firenze il 9 marzo 1454. Nobile, di un patriziato in parte decaduto, la famiglia, era però ricca di possedimenti nella zona di Peretola, a sei chilometri dalla città di Dante e Boccaccio. Il cognome, Vespucci derivava dai nomi dei primi membri della casata: Vespuccia, Vespinello, Vespino, mentre lo stemma gentilizio è organizzato secondo “una banda blu caricata di vespe in campo rosso”. Una schiatta importante a Firenze: cugino di Amerigo era quel Marco Vespucci che nel 1569 sposò Simonetta Cattaneo, la donna più bella del suo tempo, che, oltre a ispirare pittori come Piero di Cosimo e il Botticelli e poeti come il Poliziano, fece innamorare di sé nientemeno che Giuliano de’ Medici, fratello di Lorenzo, uno degli uomini più potenti d’Europa. Piero, suo figlio, ebbe per compagno di giochi proprio Amerigo che nell’adolescenza, coltivò con amore e profitto gli studia humanitatis: la Grammatica, la Geometria, e soprattutto la Cosmografia che lo prepararono a un avventuroso destino di viaggi.

Nel 1478, l’anno della funesta “congiura de’ Pazzi”, che vide la morte di Giuliano e una feroce repressione che causò non pochi lutti a Firenze, Amerigo è in Francia con lo zio Guido Antonio, probabilmente al servizio della grande casa commerciale di Lorenzo di Pierfrancesco de’ Medici, che cominciava ad avere importanti interessi anche in Spagna. Così, mentre il fratello Gerolamo tentava la fortuna commerciale in Palestina e perdeva sino all’ultimo fiorino, nel 1491 Amerigo si trovava a Cadice, il porto spagnolo sull’Atlantico, impegnato, insieme agli altri agenti medicei, a rifornire le navi che andavano e venivano dal Nuovo Mondo. Quattro anni più tardi, morto a Siviglia Giannotto Berardi o Juanoto Berard, un ricchissimo mercante fiorentino del quale, forse, il Vespucci era socio e con cui condivideva un “banco”, che gestiva i cantieri reali delle caravelle oceaniche, gli venne affidato il delicato incarico di sistemare alcuni interessi rimasti in sospeso fra il defunto e il governo spagnolo. Fu così abile, Amerigo, nel risolvere quel contenzioso che il governo spagnolo gli affidò la direzione della Compagnia delle Indie, ristrutturata in Casa de Contractation, istituzione preposta al controllo e alla tassazione di tutte le traversate oceaniche. Intanto le nuove scoperte di Colombo e la febbre di navigare alle terre del nuovo mondo, che tutti pervadeva in quei giorni, dovettero risvegliare anche nell’animo ardimentoso del Vespucci il desiderio di cercare nelle navigazioni lontane la gloria e la fortuna che sino allora non gli erano state troppo amiche.

I due primi viaggi

Qui si presenta l’importante e discussa questione dell’epoca dei due primi viaggi intrapresi dal Vespucci al servizio della Spagna, un problema, che pur essendo stato lungamente dibattuto dagli storici, non può dirsi ancora definitivamente chiarito. Senza entrare nella lunga polemica e nell’esame delle argomentazioni sostenute dai difensori e dagli avversari della veridicità delle relazioni del Vespucci, basterà accennare che per il fiorentino e i suoi difensori il tempo del primo viaggio dovrebbe riportarsi all’anno 1497. Altri, invece, considerano errate e false queste date e sostengono che il Vespucci accompagnò Alonso de Ojeda nel viaggio da questi compiuto negli anni 1499 e 1500. Un brano della Lettera al Soderini bene esprime le ragioni della novità intervenuta nella sua esistenza. “Vostra Magnificenza saprà come el motivo della venuta mia in questo regno di Spagna fu per trattare mercatantie, e come seguissi in questo proposito circa quattro anni, ne’ quali viddi e conobbi e’ di svariati movimenti della fortuna, e come promutava questi beni caduci e transitorii, e come un tempo tiene a l’uomo nella sommità della ruota et altro tempo lo ributta da sé e lo priva de’ beni che si possono dire imprestati; di modo che, conosciuto el continuo travaglio che l’uomo pone in conquerirgli con sottomettersi a tanti disagi e pericoli, deliberai lasciarmi dalla mercantia e porre el mio fine in cosa più laudabile e ferma: che fu che mi disposi d’andare a vedere parte del mondo e le sue meraviglie…”
In base al suo racconto, egli navigò fino a una costa che dalle indicazioni parrebbe il golfo dell’ Honduras; di là sarebbe risalito verso il nord, e, costeggiando lo Yucatan, Vera Cruz e Tampico e girando attorno alla Florida sarebbe giunto fino all’odierna baia di Chesapeake tra il Maryland e la Virginia

Nel secondo viaggio, cui Vespucci assegna gli anni 1499 e 1500, pervenne a quella parte del Brasile che giace all’ovest della provincia del Rio Grande do Norte. Le correnti equatoriali impedirono alle navi di superare il Capo San Rocco per cui furono costrette a invertire la rotta  e a costeggiare verso nord-est, giungendo all’odierno porto di Caienna.
Vespucci visitò l’isola Margherita e quella dei Giganti, scoprì il golfo di Maracaibo e le spiagge vicine: il cattivo stato delle imbarcazioni consigliò il ritorno a Cadice, avvenuto nel settembre 1500.

Il terzo e quarto viaggio

Al ritorno dal secondo viaggio gli fu offerto di mettersi al servizio della corona portoghese e, a questo scopo, il re Emanuele d’Aviz, detto il Fortunato, mandò a Siviglia il fiorentino Giuliano Bartolomeo del Giocondo. Vespucci accondiscese a quell’invito e nel 1501 partì con una spedizione di tre caravelle poste, a quanto pare, sotto il comando di Gonzalo Coelho.

In questo terzo viaggio, dopo aver toccato alcuni punti della costa occidentale dell’Africa meridionale, pervenne al Capo San Rocco; di lì proseguì esplorando le terre ad ovest della linea del trattato di Tordesillas. Fu probabilmente allora che vennero scoperti e battezzati il Capo San Thomé, Rio de Janeiro, Angra dos Reis, ecc. Le navi, per consiglio di Vespucci, si allontanarono poi dalla costa, e avanzando in direzione sud-est giunsero alla latitudine di 52°; qui, furono assalite da una terribile tempesta, al termine della quale si presentarono loro innanzi le spiagge di una nuova terra, che costeggiarono per venti leghe e che parve loro selvaggia e disabitata. Questa massa che emergeva dalle acque, avvistata dal Vespucci, sarebbe stata, secondo alcuni, la Georgia Australe, che nel 1775 Cook reputò di aver scoperta per primo.
Tra il 1503 e il 1504, Vespucci prese parte a un altro viaggio al servizio dei portoghesi che raggiunse ancora una volta le coste del Brasile e individuò l’isola di Fernando de Noronha.

Gli ultimi anni. Fortuna e sfortuna.

Nuove promesse del governo di Spagna allontanarono il Vespucci dal Portogallo e al principio del 1505 egli era nuovamente a servizio di Ferdinando il Cattolico. In quello stesso anno gli viene concessa la cittadinanza spagnola e tre anni più tardi l’importante incarico di Pilota Mayor, che conservò sino alla sua morte avvenuta il 22 febbraio del 1512 nel silenzio dell’opinione pubblica del tempo. Questi sono anche gli anni del suo matrimonio con una donna andalusa, Maria Cerezo, dalla quale, però, non ebbe figli.

Il nome di Vespucci cominciava intanto a essere conosciuto e celebrato: due sue lettere sui viaggi compiuti, dirette dal Vespucci a Lorenzo di Pier Francesco dei Medici e al gonfaloniere Piero Soderini, venivano tradotte in latino, in francese e in tedesco e, anche grazie alla recente invenzione della stampa, conoscevano una rapida diffusione per tutta l’Europa. Le relazioni del fiorentino, divenute popolari, accrebbero la sua reputazione e prepararono l’opinione pubblica a considerare il Vespucci come scopritore del nuovo mondo. Questo concetto finì con l’insinuarsi negli uomini di scienza, e fin dall’anno 1507, il geografo tedesco Waldseemuller, che aveva una tipografia a St. Dié (Vosges), pubblicò un’opera intitolata Cosmographiae introductio, nella quale, affascinato dalle pagine del Fiorentino, proponeva il nome America per la quarta parte del mondo.

Cadono così le accuse di usurpazione e di plagio lanciate contro il Vespucci: il nome di America, infatti, venne imposto al Nuovo Mondo a sua insaputa e, per di più, da parte uno scrittore col quale il Vespucci non ebbe mai relazioni e del quale non conobbe mai neppure il nome.

In vita Amerigo fu stimato da quanti lo conobbero, né fu mai percepito come rivale di Colombo: Pietro Martire di Anghiera, Francesco Guicciardini, Sebastiano Caboto, Ferdinando Colombo e altri parlarono di lui sempre con riverenza e affetto. Colombo stesso ne ebbe stima, come si rileva da una lettera in data 15 febbraio 1505, scritta dal figlio di Cristoforo, Diego. E non poteva essere diversamente perché sincero è il fervore che trapela dalle sue pagine: in esse, poi, non si dimentichi, c’è la sicura consapevolezza che il Mundus novus non era l’Asia, ma un continente sterminato e sconosciuto da aprire alle conquiste, ai commerci, ai sogni di potenza e ricchezza degli europei. Alle loro speranze.

Nonostante ciò, attorno al suo nome crebbe una fama di usurpatore, impostore, truffatore: questi gli appellativi che, nel corso dei secoli, non pochi storici hanno attribuito al Fiorentino. Giudizi senz’altro immeritati per un uomo del Rinascimento, geniale e avventuroso, che non ebbe altro limite se non quello di aver condiviso con pienezza le passioni del suo tempo e gli entusiasmi dei contemporanei per l’evento più straordinario mai toccato alla civiltà europea. Di averne colto molte delle formidabili - e devastanti - novità e averne dato notizia.

07 novembre 2012

"Il caldo delle pietre" di Giorgio Montagnoli



                         Giorgio Montagnoli (primo a sin.),  foto Gianni Quilici


di Luciano Luciani
 
La poesia, ha scritto qualcuno che se ne intendeva, è una pianta selvatica che cresce dappertutto senza essere stata seminata e il poeta è un paziente – e curioso – botanico, che, per raccoglierla, si inerpica lungo impervi sentieri di montagna. Una metafora, questa, che non dovrebbe dispiacere a Giorgio Montagnoli, scienziato e didatta per mestiere, impegnato uomo di pace per intima sensibilità, poeta per vocazione e caro amico, che la sua piantina poetica è andato a cercarsela in Garfagnana, sull’Alpe di Trassilico, a San Pellegrinetto: un bacino i cui confini sono costituiti da monti possenti, pareti accidentate, rapidi, impetuosi e trasparenti corsi d’acqua. Rari gli abitanti, aggrumati in piccoli nuclei di case sparse posizionate là dove un tempo sorgevano gli ovili dei pastori dell’Alpe, e quasi tutti anziani quotidianamente impegnati a fare i conti con condizioni di vita aspre e appena appena sfiorate dai modesti agi di una modernità peraltro arrestatasi alla metà del secolo scorso. Con loro, sia pure nella posizione privilegiata del cittadino che ha scelto di trascorrere con la famiglia, in quei luoghi remoti, il proprio tempo libero e di riposo dai doveri dello studio, della ricerca e insegnamento, l’Autore, per quasi quarant’anni, ha condiviso l’impegno a mantenere in vita questa minuscola società montanara: altrimenti condannata dalle leggi bronzee dell’Economia, del Mercato e del Consumismo a un destino di totale spopolamento, all’abbandono delle rustiche abitazioni, al degrado delle magre ma dignitose proprietà, all’estinzione come comunità.

Si tratta di donne (soprattutto donne!), uomini, animali domestici, creature dell’Alpe appenninica abbarbicate a stili di vita semplici e antichi. Protagonisti, in gran parte inconsapevoli e a loro modo eroici di una resistenza ostinata e tenace ai disastri della dilagante cultura di massa, almeno nella sue forme più vistose e volgari. E proprio questi umili, ultimi, testardi abitatori della montagna compresa tra il mar Tirreno e la pianura emiliana agli occhi del Poeta assurgono al ruolo di silenziosi testimoni e preziosi interlocutori di un lungo, intenso e poetico, monologo interiore. Giorgio Montagnoli lo conduce interpellandoli uno a uno, selezionando di ognuno la storia personale le caratteristiche fisiche e quelle morali ai fini di una personalissima riflessione in versi sugli eterni temi della condizione umana: il senso, direzione e significato del vivere; l’accettazione, mite, paziente del proprio destino, ancorché segnato dalla sofferenza, come unica risposta possibile ai drammi dell’esistenza; la vita che prosegue dopo la morte negli altri nelle cose, nella natura, nel perenne, sempre uguale e sempre diverso, rinnovarsi dei giorni e delle stagioni; la gioia di una fedeltà imperterrita al proprio ambiente povero e disadorno, alla famiglia, agli amici.

Stellina, Marigiana, Battì, Effige, Adriana, Gianni, Amelia… e poi Beppe, Tina, Paranà e altri ancora e ancora… Partecipando loro dubbi e scoperte, consapevolezze e stupori, il poeta li interroga e si interroga lungo il filo teso e sottile di versi sommessi e urgenti, strutturati secondo una complessa e sapiente disposizione ritmica e contenutistica. Ne emergono, strofa dopo strofa, i lineamenti essenziali di una modesta epica paesana e le tracce significative di un’attenta, acuta antropologia del popolo della montagna: un’umanità semplice, elementare a tutt’oggi impegnata nella quotidiana prova con dure, difficili, ormai inattuali condizioni materiali di vita. Le stesse che abbiamo rifiutato, collettivamente, circa mezzo secolo fa in nome del benessere, di maggiori consumi e opportunità. Certo, sarebbe sciocco negarlo, qualcosa e forse più di qualcosa abbiamo acquistato. Molto altro, però, rischia di perdersi e per sempre tanto sul terreno della morale (lo spirito di solidarietà, il sentimento della continuità familiare, lo spirito comunitario), quanto in campi più contigui all’operatività umana (la tenacia, lo spirito di sacrificio, il senso dell’ autonomia nell’organizzare il proprio lavoro). Insomma, abbiamo pensato di poter sostituire l’anima col prodotto interno lordo e col reddito pro capite e ci siamo comportati come i rampolli viziati di certe casate aristocratiche dell’ Ottocento che dilapidavano i beni di famiglia ai tavoli da gioco di tutti i Casinò d’Europa: così abbiamo sperperato un patrimonio morale fatto di tradizioni, credenze, valori, culture.

E oggi, quando mille rughe sembrano ormai bruttare la facciata ottimistica del nuovo a tutti i costi, oggi che non siamo più così sicuri di noi stessi e della nostra “modernità” e di frequente, anzi, appariamo disorientati e smarriti, allora torniamo a ricercare le abitudini, i volti, i sapori, i suoni di una volta, quasi bisognosi di un momento di pausa per poter riflettere e riposare…

Scrive l’Autore nel denso saggio finale posto a corredo e integrazione della silloge: “Sono convinto che ci sia sempre tempo per cambiare strada; basta ricominciare dal bello e dal gratuito, e anche dall’inutile, che però riveli proprietà carezzevoli per il nostro cuore, anche se faticate, e in maniera inconsapevole…
Ricominciare dalla poesia?”


Giorgio Montagnoli, Il caldo delle pietre , collana La memoria poetica, Maria Pacini Fazzi editore, Lucca 2012, pp. 96, Euro 13,00


"Il cinema secondo Steve” di Steve Della Casa


il cinema secondo steve copdi Mimmo Mastrangelo
Non delle recensioni classiche. Ma quelle del giornalista e saggista Steve Della Casa sono altro.  Tanto altro. Basta leggere i suoi velocissimi commenti (termine forse inesatto) a quasi un centinaio di film (tutti italiani) raccolti nel volumetto “Il cinema secondo Steve”, uscito da poco per Felici Editore.

Chi segue il rotocalco cinematografico “Hollywood Party”,  in onda dal lunedì al venerdì  (ore 19.00) su Radio Rai 3 , conosce bene Della Casa in quanto una delle voci-esperte che si alternano nella conduzione del programma, nonché tra i massimi conoscitori del cinema italiano di tutti i tempi, almeno  dai telefoni bianchi sino ai giorni nostri.

E, certamente,  un attestato dell’ enciclopedica conoscenza  sul tema del cinecronista torinese  sono le schede  raccolte nel libro: una carrellata di analisi, curiosità, aneddoti, retroscena, insieme ad un lungo elenco  di registi, attori,  produttori, sceneggiatori… Tantissimi nomi (e storie) anche  di gente fuori dall’ambiente cinematografico: come quel Salvatore Pagliuca, deputato democristiano lucano che  intentò causa contro “Accattone” di Pier Paolo Pasolini quando scoprì che uno dei personaggi (un criminale) del film portava il suo stesso nome. Oppure   quell’altro notabile democristiano, Silvio  Gava,  che, nonostante nel film “Le mani sulla città” ci fossero   delle allusioni alla sua persona nell’esercizio della malapolitica, alla prima  napoletana si spellò le mani per applaudire il lavoro di Franco Rosi, dichiarando (grottescamente) che era rimasto entusiasta per il disprezzo  che riversavano le immagini sui monarchici. Tante microstorie di film conosciuti ed altri meno noti, di produzioni  ignorate in Italia ed osannate all’estero (vedere i film di Rossellini), stroncate dalla critica alla loro uscita e poi col tempo recuperate ad un giudizio più esaltante.

Steve Della Casa stila, inoltre,  brevi schede su film eccezionali che gli stessi addetti ai lavori  hanno dimenticato ( o non hanno mai visto)  come La casa dalle finestre che ridono, un noir del 1976 con morti violenti e dalle bieche atmosfere firmato da un sorprendente Pupi Avati,  oppure  Non si sevizia un paperino del  geniale ed introverso  Lucio Fulci il quale ambientò in Lucania,  per l’esattezza ad Accettura, (ma il film venne girato in Puglia) un crudele caso di delitti, superstizioni e razzismo  e per cui il regista finì anche sottoprocesso a causa di una scena in cui Barbara Bouchet seduceva  un minore (in realtà sul set era stato scelto, come controfigura, il famoso nano-attore Domenico Semeraro).  Sono una delizia queste bustine-cinegiornalistiche di Steve Della Casa, palpitano di un amore e un fascino sconfinato per le ombre  dello schermo, sono freschi e leggeri ritratti di film che portano bandiera tricolore, ma in essi di può specchiare – se vogliamo – il  cinema  di ogni nazione ed epoca.

Stefano Della Casa. “Il cinema secondo Steve” Edizioni Felici. Pag. 106 Euro 12,00

05 novembre 2012

"Domani nella battaglia pensa a me" di Javier Marìas




di Mirta Vignatti

Mi sono avvicinata a questo capolavoro dello scrittore spagnolo Marìas con colpevole ritardo e ne sono rimasta talmente affascinata che mi propongo ora di leggere tutto il resto della sua produzione letteraria. E' tra l'altro di questi giorni la notizia che l'autore ha rifiutato il “Premio Nacional de Narrativa” (20.000 euro) assegnatogli in Spagna per “Gli innamoramenti”, la sua ultima fatica letteraria: Marìas dichiara di non accettare il premio per divergenze con la politica culturale del governo spagnolo e considerando la situazione generale del suo paese che non consente certo sperperi di denaro pubblico. Un personaggio, dunque, di forte dirittura morale e di inattaccabile coerenza: tipologia non proprio diffusissima di questi tempi; mi fa pensare a Sartre che (con altre motivazioni) rifiutò il Nobel nel '64.

So bene che molti, tra coloro che hanno letto “Domani nella battaglia pensa a me”, hanno parlato di difficile leggibilità della scrittura dell'autore, di tempi lunghi e lenti della narrazione, di non linearità della trama. In realtà, pur riconoscendo che uno scrittore come Javier Marìas non può certo essere considerato “popolare” né che il suo libro sia di “facile” lettura (ma questi nel mondo delle lettere non sono comunque degli obblighi)- credo sia il caso di stabilire dei punti fermi, che possano aiutarci a inquadrare bene il romanzo prima di iniziarne la disamina. 

Il primo: fin dall'inizio di “Domani nella battaglia pensa a me” si capisce che la scrittura di Marìas è di quel tipo particolare che definirei “filosofico”; figlio egli stesso di un apprezzato filosofo e quindi formatosi in un contesto probabilmente facilitante, l'autore sviluppa il romanzo partendo da nuclei di concetti di tempo, del qui e dell'altrove mentale, di estraniamento, di identità, di senso di colpa. Trasporre tanta materia filosofico-esistenziale sul piano narrativo non credo sia cosa semplice ed automatica: l'autore sceglie dunque -e non poteva che essere così- di narrare per flusso di coscienza, con continue espansioni geometriche di pensieri e sovrapposizioni di pensieri laterali, aiutato in questo da personaggi che si interrogano di continuo su se stessi e che si lasciano vivere trascinati dal flusso casuale degli avvenimenti. 

Secondo punto: con il suo personaggio Victor Francés, Marìas crea deliberatamente un “antieroe”, un “uomo senza qualità” che -con tutte le sue autoanalisi e i suoi dubbi esistenziali- nobilita uno spunto narrativo che magari avrebbe potuto risolversi in “feuilleton” (l'avventura di una notte con la donna che muore prima che l'adulterio sia consumato), e si trasforma invece in letteratura alta o -come usano definirla con termine tecnico gli amanti dei forestierismi- in “mainstream”. Essere riusciti a creare da un punto di partenza e da una situazione tutto sommato triviale un contesto di stimoli mentali in continua espansione e in illuminazioni filosofiche (“fermandosi, rimanendo immobili, le cose non accadono” oppure “inventare altre realtà e non perdersi tra l'una e l'altra, non cadere in contraddizione”- per non fare che degli esempi) è quello che dà grandezza al libro.

 E poi c'è la grandezza, direi la grandiosità del personaggio nel suo essere anche meschino. Victor Francés è personaggio che nasce dagli stessi lombi che hanno generato Zeno che mette a nudo la propria coscienza, o Leopold Bloom che in quella particolare giornata ragiona sui tradimenti della moglie o sul come tradirla, o -più tardi- quell'uomo pirandelliano che a seconda di come si guarda è uno nessuno e centomila, senza dimenticare l'Ulrich di Musil, che più che agire vive del e nel suo pensiero. Voglio dire che certa letteratura del XX secolo -quella alta- non può che muoversi in precisi alvei scavati da quelli che sono stati definiti “stati alterati di coscienza” dell'uomo moderno o -direi meglio- da una nuova coscienza critica, analitica e problematica: dobbiamo infatti sempre tenere a mente che il '900 è iniziato con la pubblicazione di due pietre miliari che hanno segnato un discrimine, un prima e un dopo nella storia della nostra civiltà e della nostra cultura: “L'interpretazione dei sogni” di S. Freud e “Il corso di linguistica generale” di F. de Saussure. Come dire la messa a nudo della grammatica e della sintassi del nostro inconscio e lo svelamento della struttura e dei meccanismi del nostro linguaggio. Ma Victor Francés è stato pensato da Marìas sul finire del XX secolo, e dunque -oltre a ciò che lo accomuna ai suoi illustri predecessori- raccoglie in sé tutte le crisi e le evoluzioni del secolo, ne è pervaso, e in particolare -non poteva essere altrimenti- è figlio del post-modernismo come anche (magari lo metterò in evidenza più avanti) della globalizzazione. Di qui lo sviluppo labirintico della trama, la complessità, il citazionismo, l'intertestualità, il punto di vista soggettivo che s'interroga -come fa sempre il personaggio di Marìas- sugli stati interni della propria coscienza. La realtà descritta nel romanzo non è certo lineare e determinata da meccanismi di causa-effetto; al contrario ostenta un grado medio-alto di illogicità e affonda le sue radici nell'incerto e nel multisemico. Nella brodaglia riscaldata che è la vita, tutto sembra determinato dalle casualità alle quali siamo condannati a soccombere. In “Domani nella battaglia pensa a me” Victor Francés è stato voluto da Marìas con tutte le peculiarità dell'antieroe: si nasconde nelle pieghe della realtà, si nasconde da se stesso (fa il ghost writer, collabora a sceneggiature ma non le firma, scrive discorsi per un uomo politico), si interroga sulle casualità senza trovare risposte: gli è sufficiente vivere di dubbi e di incertezze, anzi, dubbi e incertezze gli riempiono la vita dandole un senso. Che l'ispirazione di Marìas nel concepire il suo libro e nel creare il suo grande personaggio sia stata una di quelle che contano e che i suoi esiti rimarranno nella storia della letteratura, lo dimostra il fatto che (non a caso siamo in pieno post-modernismo) il suo è un libro ricco di spunti che ritroviamo riflessi e sviluppati in tanta cinematografia d'autore dei tardi anni '90, in particolare di Almodòvar (il topos degli incidenti mortali sotto la pioggia torrenziale presente in vari suoi film), e (penso in questo caso al personaggio che entra nottetempo nella casa della ex-moglie osservando, muovendo alcuni oggetti e spiando) del sud-coreano Kim Ki-duk (“Ferro 3- La casa vuota”). Certo, può darsi che Kim Ki-duk non abbia letto a suo tempo il libro di Marìas: difficile se non impossibile. Ma le più illuminanti affinità non sono forse quelle che si realizzano tra autori che non si conoscono nemmeno di nome?

Lo spessore narrativo del libro si arricchisce con l'entrata in scena del deuteragonista Déan, lasciato sapientemente in absentia da Marìas per farlo irrompere solo sul finale con tutte le sue contraddizioni, aggressività e sensi di colpa: un personaggio esattamente speculare al protagonista, che serve all'autore anche per mettere a fuoco tutte le sfumature della personalità di Victor e per alzare il livello di drammaticità del romanzo. Siamo ormai all'ultimo atto di una “tragedia ridicola” che si svolge sul palcoscenico della vita: è in questa fase che “tout se tient” e che acquisisce significato la citazione shakespeariana del titolo. Marta, la moglie di Déan, ha tentato di tradire fermata soltanto dalla morte; ma a sua volta era stata ripetutamente tradita da Déan e proprio nel momento della sua morte la tragedia colpisce il marito: la sua amante avrà lo stesso destino di Marta, forse contemporaneamente. Nel campo di battaglia che è la vita non ci sono né vincitori né vinti. Le menzogne non pagano e la condanna è fare continuamente i conti con la propria coscienza.
In prima di copertina di “Domani nella battaglia pensa a me” c'è un “urlo” di Pietro Citati che recita: “Forse il libro più bello composto da uno scrittore contemporaneo”. Non credo sia un'esagerazione.

Javier Marìas, “Domani nella battaglia pensa a me”, Einaudi 2000.