04 febbraio 2014

" Di là dal cuore" di Giorgio Bassani



di Davide Pugnana

Ma cosa mai riflette nella corte,
con le sue mille lastre la finestra
della chiesa, ove luce, riverbero e silenzio
si mischiano, si bevono, s’appannano, s’esaltano
in colori fantastici, come fa un vecchio vino.
(R. M. Rilke, Béguinage, II )


La raccolta di saggi letterari è certamente un “genere” più popolare e fortunato rispetto alla monografia. È un’affermazione della critica sociologica? No. Lo dicono la bilancia delle vendite e gli scaffali delle librerie. Se chiediamo ad un bibliotecario di provincia quali siano le preferenze degli utenti in fatto di saggistica probabilmente ci aprirebbe il registro puntando l’indice sul lungo elenco dei saggi misti: le miscellanee comprese tra le duecento e le trecento pagine, punteggiate di articoli, saggi brevi, recensioni, ricordi d’infanzia, note autobiografiche. Mentre di fronte al romanzo promettiamo a noi stessi di leggerlo per intero, non fosse altro che per discuterne il giovedì sera al club dei lettori, un saggio monografico di rado alimenta una fede altrettanto fervida e ostinata. Perfino nel caso in cui dovessimo trascegliere un’opera nell’elenco di una bibliografia universitaria, che, per esempio, accolga le Operette morali e lo Zibaldone, d’acchito punteremo al secondo, pregustando l’avventura di un viaggio per l’alto mare aperto del pensiero, all’insegna della varietà e della sorpresa. Le ragioni di questa inclinazione del gusto a favore delle “miscellanee” risiede (ma è un’ipotesi!) nel desiderio latente del lettore di esorcizzare l’angoscia della banalità, cercando (e talora trovando) lungo strada un complice di genio: uno scrittore o uno studioso che affronti, nel suo “diario di lettura”, un comune manipolo di testi e di amori letterari che figurano nella nostra libreria. Così, sapere che Claudio Magris ha letto Elias Canetti e Hoffmansthal; che Pietro Citati tiene a portata di mano le Confessioni di Sant’Agostino e le lettere di Abelardo ed Eloisa; che Pasolini ha disegnato l’affresco della poesia dialettale del Novecento o che Primo Levi ha letto più di una volta Tartarin de Tarascon e a sua volta ci ha dato un meraviglioso resoconto delle sue “giornate di lettura” ne La ricerca delle radici, dà al lettore il sapore di una conferma; una sorta di beneplacito apposto come un sigillo scarlatto sulla giustezza e profondità delle sue scelte. Si potrà muovere l’obiezione che gli autori sopracitati siano tutti “classici” e che la loro presenza nel canone di formazione e di gusto di qualsiasi studioso sia oltre che scontata, necessaria. Sta bene. Ma non dimentichiamo che sul loro arcipelago i lettori hanno bisogno di sentirsi un po’ meno soli e confusi. Hanno bisogno di tendere un occhio alla luce intermittente del faro. L’esempio, forse, più celebre è la raccolta stilata da Italo Calvino sui “classici” che andrebbero letti e riletti per tutta la vita: l’Odissea, l’Anabasi, le Metamorfosi, la Storia naturale di Plinio, l’Orlando furioso, Candido, la Certosa di Parma; e poi Dickens, Tolstoj, Twain, Henry James, Pasternak, Gadda, Borges, Queneau, Pavese, Fenoglio, passando per Cyrano, Galileo e Girolamo Cardano.        

Se diamo retta a questa ipotesi, credo che nessuna raccolta italiana di saggi come quella di Giorgio Bassani rafforzi il nostro desiderio di appartenenza alla “Repubblica delle Lettere”. Di là dal cuore - la cui materia è mutuata e arricchita da aggiunte dal precedente Le parole preparate e altri scritti di letteratura -  è il più intimo e palpitante documento autobiografico di Bassani: la sua storia interiore affidata all’esperienza, ai suoi amori, umani e letterari; a quei narratori e poeti che hanno punteggiato la sua adolescenza; a storici dell’arte e registi cinematografici; a libri preziosi come totem; a temi storici e ricordi di un vissuto che, travalicando il particolare fatto personale, si svelano come ‘eventi’ buoni per tutti. Bassani trasforma così la sua raccolta di saggi sull’arte e sulla letteratura in un “giardino”: un “giardino” accessibile e luminoso, come quello dei Finzi-Contini, nei cui confini minacciati dalla violenza della Storia le grida, i giochi e la giovinezza dei protagonisti scorrono fluidi e smaglianti sotto il cielo levigato di Ferrara.

Bassani dispone la sua materia come se dovesse versare le liriche di tutta una vita nel cavo finemente lavorato di un “canzoniere”, preferendo cioè allo spirito geometrico della cronologia i nuclei tematici portanti e le stazioni di senso; illuminando le “affinità di contenuto” tra argomenti, anche distanti nel tempo e nel genere, e restituendoci il tic-tac del metronomo di un gusto accordato ed educato alla luce di maestri e autori prediletti. In questo zibaldone di duecentocinquanta pagine troviamo saggi e articoli letterari di carattere generale; acutissime analisi di opere della contemporaneità frammiste a pagine di sapore documentario e occasionale, come le due interviste apparse su “Nuovi Argomenti” e sull’ “Europa letteraria”, fino a toccare questioni sottili come il rapporto tra cinema e letteratura.

Oltrepassata la soglia del cancello, sul viale principale di questo “giardino” umanistico troviamo ad aspettarci il Romanticismo milanese di Alessandro Manzoni e Carlo Porta, ed è subito tutto un brio narrativo ad investirci grazie alla lieve e fragrante prosa bassaniana: “Mi sembra, ad ogni modo, abbastanza sintomatico, che quando venne in Italia, e cominciò nella solitudine della Roma papalina a scrivere Le anime morte, Gogol mostrasse interesse non già per il Manzoni, ma per un poeta dialettale come il Belli. Cicikov, al suono di una parola dialettale lanciatagli nella scia della troika di un malizioso contadino, si rovescia indietro, contro la spalliera della vettura, a ridere di cuore. Leggendo o ascoltando recitare i sonetti del Belli, Gogol, lo sappiamo, rideva fino alle lacrime. Avrebbe potuto ridere con altrettanto gusto delle paure di don Abbondio e dei pareri di Perpetua? Il nome di Manzoni, per una di quelle segrete corrispondenze che solcano la mente dei lettori di razza, lo ritroviamo nel saggio su Addio alle armi, al fianco di Hemingway: “La Milano del tenente Henry non è la città della peste, no. Tuttavia, sebbene sia piena di ospedali dove i soldati reduci dal fronte riacquistavano l’uso delle articolazioni offese e il gusto della vita, ha ben poco in comune con la città della speranza che accoglie e redime i profughi di Olate: Renzo Tramaglino, Lucia Mondella, e il frate Cristoforo. Ciò che Milano fu per Renzo, è stata, per il tenente Henry, Gorizia, la città testimone dell’amore e della guerra: la città della grande avventura sentimentale, insomma, della quale, a Milano, urge ormai sbarazzarsi.[…] Un amico di adolescenza soleva spesso mettermi in guardia contro gli accostamenti suggestivi, non autorizzati dalla prospettiva storica. Hemingway e Manzoni: il paragone, lo so bene, non regge che su un piano di paradosso. Ciò nondimeno, pensiamo un istante al significato che ebbe una città come Milano per i nostri più grandi romantici (Porta, Manzoni); a quel che suggeriva l’odore cavallino delle sue strade a uno scrittore, e a un uomo, come Stendhal; ed ecco, forse non sembrerà più così arbitrario immaginare che qualcosa di più urgente e più necessario del puro caso abbia condotto attorno ai bastioni di questa città straordinarie fantasie poetiche fra loro tanto diverse.” (I bastioni di Milano)

Ancora ai Promessi sposi Bassani dedica uno scritto del 1956, che osserva il romanzo da un’angolazione non letteraria ma di equivalenza visiva. Per una nuova edizione cinematografica dei Promessi sposi ci porta nel cuore di una disputa che si rinfocola ogni volta che sui grandi schermi del cinema o su quelli più piccoli della televisione un regista decide di dare corpo “visivo” ad un romanzo. Quanto è legittimo trasporre un’opera che vive di parole in un medium costruito sull’immagine? Che cosa si acquista e che cosa si perde nel passaggio dalla pagina allo schermo? Come ridurre una materia larga come quella manzoniana in una narrazione filmica di due ore? Come rendere le ombre interiori dell’Innominato o le scene corali del tentato rapimento di Lucia col chiaro di luna e le campane? Come la polifonia della sommossa milanese e l’assalto al forno delle Grucce? Come il cupio dissolvi che sembra incombere sulla processione indetta per stornare dalla città il flagello della peste? Bassani sa bene che il salto dalla pagina allo schermo non è indolore. C’è nel mezzo quel processo di riduzione che abbrevia e frantuma una partitura ampia e sofisticata come la pagina manzoniana, rovesciandola in “sceneggiatura”; c’è la consistenza fisica e il carattere del personaggio: don Abbondio e Renzo acquistano un volto tangibile che, visto anche solo una volta, annullerà per sempre quegli apporti della fantasia capaci di rendere magico e inesauribile il realismo del romanzo, realismo in fieri, realismo rinnovabile ad ogni età e stagione. “Ciò premesso, - scrive Bassani - com’è mai che il film, nonostante la sceneggiatura più che discreta, l’esatta scelta degli attori, la regia attenta e sensibile, l’evidente impegno della produzione, risulti, alla fine, tirare tutte le somme, così lontano dal soddisfarci? […] Difatti, è vero, I personaggi dei Promessi sposi non sono, a rigore, dei personaggi. A differenza di un Balzac, di un Tolstoj, di un Flaubert, di un Maupassant, di un Dostoevskij, - a differenza, cioè, di quello che per solito fanno i cosiddetti romanzieri di razza -, il Manzoni non si oggettiva mai totalmente nelle sue creature. Sopra di esse, per dirla con lo Scalvini, non si apre la gran curva azzurra del libero cielo; grava un’ombra, bensì, l’ombra d’una cupola. O quella di un’altra creatura, aggiungiamo noi, dalle spalle di gigante. E questa creatura di proporzioni michelangiolesche non è che il Manzoni stesso, il quale, incombente e nascosto come un burattinaio, manovra da maestro i fili a cui sono appesi i suoi burattini.”

Bassani riserva uno degli angoli più spaziosi del suo “giardino” ai ritratti degli scrittori suoi contemporanei e dei loro romanzi. Di esemplare nitore sono i profili di Carlo Levi, di Comisso, di Soldati, Mario Tobino. Percorrere queste pagine di Bassani, con i loro giudizi ben sagomati e i loro aneddoti, equivale a contemplare una medaglia la cui effige, appena rilevata sul fondo con poverissima materia, riesce a restituirci la potenza di carattere del personaggio. Affondando l’occhio nei lineamenti di Carlo Levi cogliamo il tratto nostalgico di chi insegue un incanto, “quel rimpianto, quel rimorso di epoche magnifiche, di secoli interi e robusti, di uomini dotati di qualità fisiche e morali d’eccezione”. (Levi e la crisi) Sotto l’aria di spavalderia di Soldati, Bassani scava per mostrarci la prima educazione del fanciullo nel collegio torinese dei Gesuiti: “Ciò che è rimasto, insieme col gusto delle buone lettere, sarà se mai il ricordo del primo brivido, della prima gioia che il ragazzo provò, allora, a sottrarsi di nascosto all’assillante vigilanza del direttore spirituale, e che prelusero a quell’altro brivido e a quell’altro gioia, più grandi e più liberi, seguiti, anni dopo, alla decisione di rinunciare alla sottana sacerdotale.” (Soldati, o dell’essere altrove

Che Mario Tobino sia stato medico psichiatra è un dato biografico che non significa nulla se preso di per sé; ma affermare che il medico fosse un’identità professionale fittizia e di comodo, sorta di controfigura utilizzata da Tobino per far respirare e vivere operoso lo scrittore, suona più che un paradosso una realtà testata dalle opere. Qualcosa di questa dualità permanente ci racconta Bassani introducendo il romanzo giovanile Il figlio del farmacista: “Abolito ogni distacco critico, lo scrittore si era dato a saccheggiare la propria esistenza con una sorta di furia, insieme sensuale e moralistica: come se quello stesso delirio, da artist as a young man, di cui, certo, geniale adolescente, era stato protagonista, adesso egli intendesse nuovamente viverlo, con pari abbandono, con pari impeto, nell’atto medesimo di assumerlo a materia d’arte. Non già romanziere, dunque, ma creatura ancora ben viva, tuttora gemente e dolorante, Tobino non si rassegnava che i suoi ricordi restassero memoria, vagheggiamento elegiaco di un possesso perduto nel tempo, idoleggiata fantasticheria condotta sul filo del rimpianto, mentre, nel frattempo, a chi li esibiva, fosse dato svolgere con bella calma, con cauta finezza, la sua trama letteraria. Tutto, al contrario, doveva tornare a vivere.” (Prose e poesie di Mario Tobino). 

Artemisia non fu un romanzo buono per un paio di generazioni e poi scomparso; né ebbe bisogno dei restauri ideologici del femminismo che vide nella pittrice secentesca Artemisia Gentileschi una tra le prime a sostenere “colle parole e colle opere il diritto al lavoro congeniale e a una parità di spirito tra i due sessi”. Bassani capì subito la sua statura di capolavoro; si impegnò a ripulirlo dalle scorie ideologiche e a ricondurlo alle reali intenzioni della scrittrice. Artemisia è, prima di tutto, un frutto perfettamente formato del grande albero del romanzo storico italiano, quello stesso sul cui tronco, ancora nel Novecento, cresceranno le opere di Maria Bellonci e Marguerite Yourcenar. “Allo stato attuale, il libro è questo, e più. Infatti, oltre ad essere una narrazione compiuta della vita di Artemisia Gentileschi, dall’infanzia fino alle soglie della vecchiezza; oltre a restituire un’immagine vivacissima dell’Europa secentesca: è anche, per molti riguardi, un autoritratto della scrittrice, la quale ha voluto intrecciare al racconto della vita lontana ‘virtuosa di pittura’ alcuni elementi non secondari della propria vicenda di donna as an artist.” 

Così per il Gattopardo di Lampedusa, di cui Bassani fu lo scopritore dopo la stroncatura di Elio Vittorini. Nella prefazione al romanzo Bassani delinea un ritratto indimenticabile del suo incontro con Giuseppe Tomasi: “Era un signore alto, corpulento, taciturno: pallido, in volto, del pallore grigiastro dei meridionali di pelle scura. Dal pastrano accuratamente abbottonato, dalla tesa del cappello calato sugli occhi, dalla mazza nodosa a cui, camminando, si appoggiava pesantemente, uno lo avrebbe preso a prima vista, che so?, per un generale a riposo o qualcosa di simile.[…] Quando gli fui presentato, si limitò a inchinarsi brevemente senza dire una parola.” (Prefazione al Gattopardo)

Ma il ritratto più intenso della raccolta è quello dedicato al suo maestro degli anni universitari, a Bologna, lo storico dell’arte Roberto Longhi, di cui Bassani riporta la celebre battuta: “Critici si nasce; poeti si diventa”. Ed è proprio nell’orbita di Longhi che prende vita e si forma quella vivace e felice officina bolognese nella cui fila si raccolsero allievi del calibro di Francesco Arcangeli, Alberto Graziani, Attilio Bertolucci, lo stesso Pier Paolo Pasolini. Come appariva Longhi? “Difficile immaginare un tipo più diverso dagli altri professori, anche fisicamente. Alto, simpatico, elegantissimo, con un viso dai tratti molto asimmetrici, di una espressività eccezionale: più che a un professore, a uno studioso, Longhi faceva pensare a un pittore, a un attore, a un ‘virtuoso’ d’alta razza e d’alta scuola, insomma a un artista. Non c’era nulla in lui dell’enfasi curialesca della tradizione carducciana imperante all’università di Bologna, di quell’unzione accademica che per tutto l’anno precedente mi aveva riempito di venerazione e di noia, nessuna posa erudita, in lui, nessun sussiego di casta, nessuna boria didattica e didascalica, nessuna pretesa che non riguardasse l’intelligenza, la pura volontà di capire a far capire; e per questo, non per altro, ci si sentiva a un certo punto osservati dai suoi occhi nerissimi che lustravano, piccoli e malinconici come per febbre, dietro il taglio spiovente del pince-nez e delle grandi palpebre brune (occhi da spadaccino italiano del Seicento, mi sorpresi un giorno a pensare bizzarramente). E se quello stesso sguardo che aveva frugato sardonico e affettuoso in te, ti arrestava, subito dopo, diventando a un tratto freddo, altero, e ristabilendo per così dire le giuste distanze, anche a questa operazione immediatamente successiva di distacco ci si acconciava volentieri, senza soffrire di delusioni di sorta, perché era ancora una volta l‘intelligenza, l‘oggettiva necessità di comprendere che così volevano.” (Un vero maestro) E’ con questo doppio sguardo che, anche noi, dal nostro tempo, dobbiamo continuare a leggere i saggi di Giorgio Bassani. A incantarci nei viottoli del suo giardino.       


Giorgio Bassani, Di là dal cuore, Mondadori, Milano, 2003, pp. 398, euro 7,80
Giorgio Bassani, Le parole preparate e altri scritti di letteratura, Einaudi, Torino, 1966, pp.248


"Ho scolato 21 bottiglie" di Mario Lena



di Luciano Luciani

Come lascia intuire il titolo, Ho scolato 21 bottiglie, questa è la ventunesima raccolta poetica di Mario Lena. Una quarantennale frequentazione con la scrittura poetica, la sua: la prima antologia, Resistere, risale, infatti, all’ormai lontano 1973, appunto 40 anni fa, quando il poeta di Bagni di Lucca, dopo aver covato nella prima parte della sua esistenza temi e stati d’animo, parole e forme espressive cominciò a partecipare ai Lettori il suo mondo emotivo. Dapprima con un andamento discontinuo, quindi regolarmente a partire dal 1993, acquisiti, con consapevolezza e sicurezza, il tono, il timbro, il passo giusto per la propria, personalissima voce poetica: originale nel suo taglio prosastico-meditativo che ora muove verso un andamento colloquiale, cordiale, ora s’impenna nella speculazione filosofica, o, addirittura, nel ragionamento scientifico.

 Sì, perché Mario Lena è uno dei rarissimi poeti, forse l’unico della Libera Repubblica delle Lettere, che non ha mai avuto particolari remore nel portare sulla pagina nei suoi discorsi in versi le questioni complesse che attengono alla matematica, alla fisica, alla chimica… Nodi problematici che nella sua inusuale rielaborazione si trasformano in grumi di interrogativi esistenziali dove scienza, filosofia, poesia e vita diventano un tutt’uno. Un’alchimia non facile, delicatissima, che può realizzarsi solo in quel crogiuolo straordinario rappresentato dall’esperienza di vita di Mario Lena: uomo di pace, educatore appassionato, amministratore lungimirante, didatta in anticipo sui tempi, organizzatore di cultura, scrittore, poeta… E probabilmente non sono che alcune delle molte delle facce di quel diamante trasparente che è stata la vita di Mario. 

Tutto senza enfasi, senza retorica, senza gli orpelli del compiacimento, forte di una memoria imperterrita, tenace. Una linea di pensiero tanto sommessa quanto concentrata, un dialogo interiore del poeta con se stesso che ha al suo centro un tema semplice e alto: “sono veramente belle e importanti / tutte le cose che costano / lavoro e fatica”. Senza dimenticare un’altra irrinunciabile convinzione: noi riceviamo per dare. Gli insegnamenti morali fondativi acquisiti in famiglia vanno sempre restituiti, magari moltiplicati, per esempio, attraverso l’agire educativo…

Un motivo di rammarico. Forse, l’attenzione di Mario Lena per la poesia e le sue cure hanno sottratto tempo e motivi ispiratori alla scrittura in prosa: infatti, per mantenere la metafora del titolo, c’è vino, c’è buon vino anche nella sua cantina narrativa: lo dimostrano con ampia facoltà di prova gli scritti della seconda parte di questo libro, Pagine sorprendenti per chiarezza di esposizione, per il piglio del narratore di razza, per la capacità di delineare con pochi tratti luoghi, tempi, situazioni, caratteri, dinamiche, dinamiche psicologiche ed emotive. Ora la felice descrizione di un episodio dell’adolescenza tra le montagne, i dirupi e i boschi dell’Appennino, prova d’iniziazione al mondo adulto di un gruppo di teenager di settant’anni fa (Avventura all’orrido di Botri); oppure la remota, ma intensissima, memoria familiare di un colloquio col padre alla vigilia di un passaggio decisivo della vita dell’Autore, che, appena diciottenne, si trovava a dover indossare la divisa in una guerra sbagliata, ingiusta e perduta (Il coltellino rosso); o anche l’asciutta descrizione del male, quello fisico, che ti prende all’improvviso, contro cui è necessario attivare tutte le risorse possibili. Quelle personali e quelle dell’ampia cerchia degli amici solleciti e partecipi in questa umanissima vicenda affrontata dall’Autore con l’animo di un antico filosofo classico…


Mario Lena, Ho scolato 21 bottiglie, Maria Pacini Fazzi editore, Lucca 2013, pp. 144, Euro 13,00

22 gennaio 2014

"Chi sei?" di Eva Scatena




Quando un sentimento diventa pensiero astratto e vago, come un metafora nascosta da qualche parte negli occhi, sempre meno visibile e distinguibile agli altri, finisce che diventa parte della tua natura, della tua identità. Finisce che smette di essere un sentimento autonomo e si fonde con l’essenza più personale di chi lo prova. 

Se mi chiedessero: “Cosa ti distingue dal resto del mondo? Chi sei?” potrei rispondere che mi chiamo Eva ed il mio nome mi piace tanto, perché non me l'ha dato mio padre e non si può storpiare con stupidi diminutivi, che ho cinquant'anni, che ho la pelle morbidissima e chiara e piena di graffi o che adoro "C'era una volta in America",che macino libri al ritmo di dieci al mese -se conto le riletture. Mi dà un piacere immenso rileggere: riscopro, assaporo, ho nuove intuizioni. Ma penso che siano tutte cose comuni a qualcun altro. 

Solo i sentimenti sono qualcosa di davvero nostro, di unico e irripetibile. Quindi siamo ciò che proviamo. Quindi sono questo intreccio contrastante di pulsioni e tensioni, e sono anche quell’amore psichico, ma incredibilmente anche di desidero fisico e idealizzato, che lentamente scomparirebbe in mezzo a un mare di realtà concreta se non lo tenessi caparbiamente e teneramente nascosto dentro me. Il resto è noia.

19 gennaio 2014

"I popoli europei senza Stato" di Giovanni Armillotta




di Luciano Luciani

Denso di dottrina storica e geopolitica, il libro Giovanni Armillotta I popoli europei senza Stato, sottotitolo Viaggio attraverso le etnie dimenticate, è illuminato da una condivisibile intenzione: quella di fornire una mappa continentale delle nazionalità obliate. Una topografia degli sconfitti: ovvero genti, le cui ragioni identitarie sono state piegate da poteri politici e militari, economici e amministrativi, più forti e, di conseguenza, costretti all’interno di schemi statuali in cui si riconoscono con una sofferenza più o meno accentuata. E a essi reagiscono, in forme che vanno dalla resistenza culturale (difesa della lingua, della letteratura, degli usi e delle tradizioni) sino a manifestazioni violente sfocianti talora nel ricorso episodico o sistematico al terrorismo. È il caso del relativamente recente inasprirsi del movimento autonomista bretone, oppure del fenomeno più largo e storicamente più duraturo nel tempo dei Paesi baschi spagnoli e francesi, le cui organizzazioni indipendentiste si muovono da decenni sul pericoloso discrimine tra trattativa politica e pratica dell’attentato. Certo è che il rispetto del principio dell’autonomia, innanzitutto culturale e poi anche amministrativa, in forme il più possibile larghe e partecipate è destinato a diventare la prova provata, la cartina di tornasole dell’effettivo grado di democrazia dell’Unione Europea.

Il documentato libro di Giovanni Armillotta, giornalista e attento studioso di questi nodi problematici, fa il punto su tali delicate questioni di natura geografica, storica, economica, religiosa e si propone come un lavoro importante, utile e, direi quasi, imprescindibile per quanti intendano muoversi nel presente non solo come cittadini europei consapevoli, ma anche come cittadini italiani coscienti delle complicatezze della loro comunità nazionale. Le sue pagine, infatti, fanno riferimento anche ad alcune realtà che ci riguardano da vicino: l’oltre mezzo milione di cittadini italiani di espressione friulana distribuiti tra le province di Udine, Pordenone e Gorizia; gli Occitani d’Italia, quasi 200 mila persone che abitano prevalentemente nelle aree piemontesi di Cuneo e Torino; i Ladini d’Italia, presenti a Belluno, Bolzano e Trento, che subirono un pesante processo di denazionalizzazione sotto il fascismo; la complessa specificità culturale della Sardegna che tocca oltre un milione di abitanti.

Questioni, come scrive nella Presentazione Maurizio Vernassa, docente presso la facoltà di Scienze politiche dell’Università di Pisa, che confermano l’importanza della categoria dell’autonomia “nella sua essenziale azione di protezione, difesa e valorizzazione dei propri valori identitari, concorrenti e non antagonisti nella costruzione della nuova identità comune, la cui forza può risiedere senza alcun dubbio anche nel pluralismo delle voci che contribuiscano positivamente a realizzarla, riuscendo in tal modo a vincere le occorrenti conflittualità politiche”.

Giovanni Armillotta, I popoli europei senza Stato Viaggio attraverso le etnie dimenticate, Jouvence, Roma, 2009, pp. 184, Euro 16,00

"Mario Martone. La scena e lo schermo” a cura R. De Gaetano e B. Roberti

index 

di Mimmo Mastrangelo

Del resto non è una novità che ci sia curiosità ed attesa intorno all’uscita del nuovo film di Mario Martone, Il giovane favoloso”, dedicato alla figura di Giacomo Leopardi di cui il regista napoletano già per la scena aveva curato l’illuminante raccolta de “Le operette morali”. Finito di girare lo scorso mese e prodotto anche attraverso una grossa operazione di tax-credit in cui sono coinvolti soggetti privati, il film dovrebbe restituire un profilo quasi inedito del poeta recanatese (interpretato da Elio Germano): non l’icona di un uomo afflitto dalle nebbie dell’inquietudine, ma l’immagine di un pensatore moderno, oppositore alla linea razionalista e dal temperamento ironico e socialmente spregiudicato.

Ma nell’attesa che Martone completi il lavoro di montaggio, sono stati appena pubblicati da Donzelli Editore, per la curatela di Roberto De Gaetano e Bruno Roberti, gli atti di un convegno dedicato al regista, promosso dall’Università della Calabria e tenutosi nell’ottobre del 2012 a Cosenza. Con il titolo “Mario Martone: la scena e lo schermo”, l’opera raccoglie quattordici saggi (tra gli altri, quelli di Rino Mele, Gianfranco Capitta, Emiliano Morreale, Daniele Dottorini, Giona A.Nazzaro) i quali esaminano in lungo e in largo una carriera artistica ormai ultratrentennale. Ovviamente mettersi ad analizzare il lavoro multidisciplinare di Martone significa imbattersi in una delle più alte espressioni della cultura italiana contemporanea il cui atto creativo è semplice e al contempo spiazzante.

Un artista-intellettuale è Martone sempre molto attento nel curare la forma, il linguaggio, un’ idea di teatro, cinema, lirica, ma principalmente dedito a marcare una visione etico-civile, a mettere in risalto le contraddizioni della realtà, i controsensi del presente andando a rivisitare capitoli (non ufficiali e dimenticati) della storia del passato.

E poi non si può non sottolineare del regista il continuo saltare da un contesto all’altro, da un registro all’altro, che trova spiegazione in quel suo credo tutto shakespeariano che al cospetto di un mondo (di una disciplina) c’è sempre un universo-altrove, un differente immaginario dove poter sperimentare modelli di lavoro e inediti orizzonti di arte (e di ideali). “Il modello di lavoro – scrive Rino Mele, docente di Storia del Teatro e dello Spettacolo all’Università di Salerno - è uno schema semplice che produce, a ogni passaggio, nuova fascinazione; un figura geometrica raddoppiata in un’altra, un quadrato ripetuto nel successivo, legati strettamente e mai coincidenti, una tensione a una metamorfosi negata e riproposta…”.

Naturalmente mettersi ad esaminare e studiare la creatività di Mario Martone vuol dire obbligatoriamente non trascurare un fuoco di fila di messinscene e film che ormai sono dentro la storia del teatro, della lirica e del cinema italiano, si pensi alle rappresentazioni di “Tango glaciale”, “Il desiderio preso per coda”, “Ritorno ad Alphaville”, “Rasoi”, “Edipo Re” e per la lirica “Così fan tutte” e “Lulù”, si pensi ai film “Morte di matematico napoletano (1992), “L’amore molesto” (1995), “Teatro di guerra” (1998), “L’odore del sangue “(2004) e il capolavoro “Noi credevamo” (2010) .

Ma citare Mario Martone obbliga altresì ad enunciare “compagnie-comunità” di eccellenti attori (Toni Servillo, Antonio Neiwiller, Licia Maglietta, Anna Bonaiuto, Vittorio Mezzogiorno, Carlo Cecchi, Renato Carpentieri) che nel corso degli anni si sono formate e consolidate, sciolte e rincontrare ottenendo un consenso internazionale e portando il loro contributo a quella irripetibile stagione (in era bassoliniana) del Nuovo Rinascimento Napoletano.

Ma per capire fino in fondo Martone e la sua arte, il suo metodo di lavoro, il suo legame con gli attori bisogna soffermarsi sullo “autoritratto” proposto nel volumetto di De Gaetano e Roberti e che il regista presentò come lectio in occasione del convegno di Cosenza dove gli fu conferita anche la Laurea Honoris Causa in Linguaggio dello Spettacolo. In particolare colpisce quando il regista precisa che il suo teatro sin dall’inizio si è sviluppato per non essere né tradizione né avanguardia, ma spazio, scena analitica strutturata secondo le sequenze impalpabili del cinema e della musica. E in merito al cinema (al suo cinema) scrive Martone “La nascita di un film è in me segnata da un punto di attrazione inspiegabile. E’ un punto che si può trovare in un libro, in una storia raccontata per strada o parlando con un amico, non fa nessuna differenza. E’ una sensazione. Questo punto si accende, si illumina e ti attrae perché tu lo raggiunga”.

a cura di Roberto De Gaetano e Bruno Roberti. Mario Martone La scena e lo schermo. Donzelli 2013.

17 gennaio 2014

"Espiazione" di Ian McEwan



di Caterina Donatelli


Generalmente cerco scrittori in cui sento più la vita e attraverso l’osmosi silenziosa con le parole, tento di sentire me; allo stesso tempo la lettura mi serve come  forma di conoscenza del mondo.

Di Ian McEwan avevo già letto “Cani neri”, l’impressione fu di una scrittura molto nitida che scava e interseca i sentimenti umani, descrivendone le ombre e le tensioni, immergendoli nei temi complessi della storia contemporanea.  

Impressione che ritrovo nel libro “Espiazione”; romanzo dalla lettura più faticosa,  tessuto attorno a Briony Tallis, metodica ragazzina inglese con velleità da scrittrice che in una notte dell’estate del ’35, assiste ad una scena di violenza mutandola in una  visione, personale e manovrata, della realtà. Questa iperbole interpretativa determina il capovolgimento del destino di tutti i personaggi della storia, in particolare della sorella Cecilia e del suo giovane amante Robbie Turner, alimentando il senso di colpa che morde dentro alla ricerca disperata di un perdono salvifico.

A complicare ulteriormente il loro percorso esistenziale, si innesta la guerra che amplifica il cambiamento, fornendo nuove traiettorie ai tre personaggi, oramai cresciuti, ognuno indiscutibilmente segnato dagli eventi di quella notte e impegnati nella conquista di un lieto fine, impigliato tra i fili dell’immaginazione letteraria che, non sempre, ne concede uno.

Lettura faticosa, dicevo; McEwan è uno scrittore attento ai dettagli, alle costruzioni meticolose degli eventi, ma ad una velocità che non coincide con la mia. Spesso leggendo avvertivo la voglia di superare, di andare oltre proiettandomi in avanti, mentre la scrittura mi obbligava a restare sui particolari, sulle singole percezioni che si aprivano su piani tangenti, per poi tornare nel fulcro dell’evoluzione degli eventi. E’ come se per tutto il romanzo, il ritmo di lettura non coincidesse con l’andatura della scrittura costringendomi a una lentezza che frenava l’arrivo alle ultime pagine e allo svelamento dell’intera storia. Inoltre, la precisione descrittiva  mi dava la sensazione di sentirmi non accolta dentro la narrazione e messa al margine dei fogli secondo un ragionamento calcolato, dove il lettore non può partecipare con il proprio vissuto alle vicende, ma deve assumere il ruolo di spettatore, senza mescolanze o fughe interiori. Eppure, trovavo estremamente intrigante questo  ‘scontro’ con l’autore capace di spingermi, parola dopo parola, sincronizzando i miei pensieri alla sua volontà rendendoli disciplinati e attenti. Ci vedevo dentro il lavoro costruttivo dello scrittore che non concede spazi di rielaborazione, intento a formulare un gioco a specchio con il personaggio di Briony, continuamente in preda all’immaginazione creativa e alla volontà di riscrivere la realtà.
A un certo punto, McEwan affida a questo  personaggio un pensiero che in qualche modo mi pare il manifesto del libro: “Briony aveva letto Le onde di Virginia Woolf tre volte pensando che perfino la natura umana stesse subendo una grande trasformazione e che soltanto l’arte, un nuovo modo di concepire la letteratura, sarebbe stata in grado di cogliere il senso del cambiamento. Penetrare all’interno di una mente e mostrarne il lavoro e il lavorio interiore e inserire tutto questo in una struttura geometrica: ecco un autentico trionfo artistico.” 

Io non so definire se questo romanzo sia un autentico trionfo artistico, di certo posso dire che più di ogni altro libro, mi ha sfidato in quanto lettrice, ma anche appassionata della scrittura e se la sfida è durata fino al congedo da Briony, al suo settantasettesimo compleanno, forse è perché qualcosa di quel lavorio interiore, mi appartiene. 


Ian McEwan- Espiazione. Einaudi, 2002.








Ian McEwan. Espiazione. Einaudi, 2002



15 gennaio 2014

"Anchiano. Viaggio in Media Valle" di Gianni Quilici






foto gianni quilici
Ore 12.10. Vedo lo spazio sterrato, al lato della strada, e parcheggio. Ai margini buttati là, due cavalli di frisa, e dietro di essi rifiuti vari e sacchetti di plastica. Mi sporgo e giù davanti ai miei occhi la bellezza del fiume, il Serchio. Ogni volta mi colpisce, prima di tutto, il biancore fitto dei sassi del greto, poi l’acqua che scorre tranquilla nel letto, ed ora uno dei rivoli secondari del fiume, che scende tra sassi ricongiungendosi al letto, quasi crepitando.

Ore 12.30. Anchiano. “Viale Norvegia” leggo. “Che strano la Norvegia che c’entra con  Anchiano?” penso. Dopo capisco. Ogni anno viene celebrata, il 1° maggio, la sagra del baccalà norvegese, che nasce dal gemellaggio con la città norvegese di Aaleseend, famosa appunto per il suo baccalà.
Parcheggio. Di fronte alla porta di ingresso c’è un cartello storico-informativo. Esso ci dice che Anchiano era già presente in epoca tardo-romana e che è stato il primo castello della lucchesia. Si trovava, infatti, in una posizione favorevole al controllo delle strade che andavano, l’una a Lucca; l’altra nelle Pizzorne.

foto gianni quilici
Arrivano dei bambini.  Il più grande fa la quarta elementare.  “Siete tutti nati in Italia?” chiedo poi. “Sì” rispondono in coro. “E siete fratelli e sorelle?” “No, siamo singoli” risponde uno di loro, sorridendo, e nell’arruffio delle voci che s’intrecciano “Io ho due fratelli…” “Io un fratello e due sorelle”,  schiamazzando, se ne vanno. Li fotografo da lontano, nella via che si allarga in due strade, ognuno separato  dall’altro, che continuano a parlare balzellando con l’irrequietezza irrefrenabile dell’infanzia.

foto gianni quilici
Il paese ha la chiesa di San Pietro in alto, in bella posizione, raccolta tra rocce e vegetazione, ma la facciata neoclassica, nonostante la forma equilibrata, è deludente nel grigiore del suo intonaco.
Bello, invece, il campanile merlato, con bifore, di pietre bianche e grigie con base massiccia, che termina con una cornice aggettante di solide pietre.





foto gianni quilici
Sulla facciata della chiesa leggo, invece, una epigrafe del 1920 in memoria di cinque soldati morti nella prima guerra mondiale.
“Aleggi la prece
Nella dolce aura natia
E dica loro in cielo
La tenerezza memore dei cuori”
Che fa pensare quanto allora si cercasse di legittimare, sublimandolo con un linguaggio aulico, dietro cui serpeggiava la retorica cattolica e nazionalista del sacrificio, la morte di giovani uccisi in una guerra sciagurata e criminale. Come contraltare, su un  masso di marmo, è stata, invece scritta, nel 1998, a tutti i caduti, un’epigrafe molto bella nella sua verità e asciuttezza “ Nulla è perduto con la pace, tutto è perduto con la guerra”


foto gianni quilici
Dall’alto il paese ha il fascino malinconico della mattinata grigia nelle case silenziose, che appaiono quasi indifese, con alcuni comignoli da cui spuntano sbuffi di fumo, contro lo sfondo  scuro del monte.

Scendo lungo la via della Chiesa con i sassi inseriti a costellazione, imbocco la via delle mura e arrivo ad una porta-galleria,  che dà sulla campagna. Il paese ha una sua unitarietà medievale, pur tra strade e vicoli, case gialle e case bianche, case in vendita e case ristrutturate, case abbandonate e case con belle cornici. E’ l’ora di pranzo. Il paese sembra deserto.  Vengo via pensando a quanta vita c’è dentro, che non si conosce!


Viaggio in Media Valle: Anchiano. Lunedì 13 gennaio 2014. 
 

"Pene d'amor perdute" di William Shakespeare



di Eligio Motolese


"Ogni lacrima è un carro di vittoria, per te, in trionfo sopra il mio dolore, ma se il tuo sguardo scopre una mia lacrima, vedrai nella mia angoscia la tua gloria." [Atto quarto, terza scena, il re legge ai suoi compagni la dichiarazione d' amore scritta per la regina; pag.48]

Riconosciuta come la più elegante commedia di Shakespeare, l' Einaudi propone l' intera opera teatrale del poeta-drammaturgo inglese. Scritta tra il 1594 e il 1599, frutto di una raffinata scelta linguistica, non a caso destinata alla rappresentazione teatrale presso le corti.

Si narra di un arduo patto nel regno di Navarra, che tra varie situazioni e vicende verrà compromesso dalla più pericolosa e attraente trappola di felicità o dannazione, l' amore, tema principale dell' opera in cui si evidenzia il confronto tra i due sessi.

Tra incomprensioni, discussioni e dichiarazioni, la parola assume quindi un ruolo preponderante nell'opera e tutto è legato al diverso uso di essa. Non vi è un protagonista principale, ma si incontreranno personaggi di strano e vasto carattere: dal sarcastico Biron all'astruso pedante Oloferne, dai clowneschi rozzi villici agli eleganti personaggi della corte. Trama lineare, con un intreccio di fantasia che rende l' opera molto appetibile. Il tipico, ma anche insolito lieto fine, lascerà nel lettore un pizzico di sorriso soddisfatto, sia pure inaspettato.

William Shakespeare, "Pene d' amor perdute", Einaudi, 1997



"Il mio nome è rosso" di Orhan Pamuk



di Cosima Di Tommaso

Letto nel 2012 questo romanzo è certamente un’opera di grande qualità culturale e  storica, soprattutto della storia dell’arte della miniatura, nel mondo islamico antico.
Tutto il libro è un affresco di miniature antiche, che restituiscono le modalità umane e di pensiero, che si snodano, capitolo per capitolo, attraverso ogni personaggio.

Pamuk offre ogni volta, quasi inconsapevolmente, la descrizione minuziosa di una lama del suo vissuto, proprio come fosse una miniatura dell’Impero Ottomano, offrendo così al lettore un intreccio originale ma, a mio avviso, molto lento, essendo appunto, in alcuni tratti, smisuratamente descrittivo. Muliebre la terminologia tecnica, propria di quest’arte, riportata con precisione.
Piacevole e raffinata la lingua.

Ecco, questi sono alcuni dei passi salienti dell’unico capitolo, che mi ha veramente appassionato.


‘’…Sono così contento di essere rosso!

Mi brucia dentro, sono forte, so di attirare l’attenzione, so anche che non riuscite a resistermi.

Non mi nascondo. Per me la finezza non si ottiene con la debolezza o la fragilità, ma con la decisione e la forza di volontà. Mi faccio notare. Non ho paura degli altri colori, delle ombre, della folla o della solitudine. Com’è bello riempire con  il mio fuoco vittorioso una superficie che m’attende!

Dove mi espando io gli occhi brillano, le passioni si fortificano, le sopracciglia si alzano, i cuori battono forte. Guardatemi, com’è bello vivere! Contemplatemi, com’è bello vedere. Io vedo ovunque. La vita comincia con me, tutto torna a me, credetemi.’’

[…]

Un maestro miniaturista esperto di colori pestò e polverizzò con le proprie mani nel mortaio le migliori cocciniglie provenienti dai luoghi più aldi dell’India e ne preparò cinque dramme, poi preparò una dramma di saponaria e mezza dramma di lotor. Mise tre okka di acqua nel recipiente, ci buttò la saponaria e la fece bollire.

Lo fece bollire il tempo necessario a prendersi un caffè. Mentre lui beveva il caffè io mi spazientivo come un bambino in procinto di nascere. Una volta che il caffè gli ebbe aperto la mente e gli occhi, gettò nel recipiente la polvere rossa e la mescolò ben bene… Adesso sarei diventato un vero rosso, la mia densità è talmente importante, l’acqua non deve bollire a lungo inutilmente, ma deve comunque bollire.

[...]

‘’…Prese un po’ d’acqua con l’estremità del bastoncino e la mise sull’unghia del pollice (le altre dita on andavano assolutamente bene) Oh che bello essere rosso! Gli tinsi l’unghia di rosso senza colare, la mia densità andava bene ma c’era del sedimento.


Tolse il recipiente dal fuoco, mi filtrò attraverso un tessuto pulitissimo e mi colò, divenni ancor più puro. Poi mi mise sul fuoco, mi fece bollire ancora due volte sino a schiumare, aggiunse un po’ di allume battuto e mi lasciò raffreddare.

Passarono un paio di giorni, rimasi lì in fondo al recipiente senza mescolarmi a nulla. Desideravo essere steso sulle pagine, ovunque e su ogni cosa, mi offendeva stare così.

In questo periodo di silenzio meditai su cosa significasse essere rosso.


Orhan Pamuk, ‘’Il mio nome è rosso’’, Einaudi




13 gennaio 2014

“La muta" di Chahdortt Djavann



di Gianni Quilici

Compro istintivamente su una bancarella a Genova per solo 3 euro questo romanzo. Primo, perché mi interessa leggere l’altra letteratura, quella non occidentale e in particolare quella iraniana-persiana, che ci ha dato grandi e buoni registi e continua a darceli, come forse, oggi, nessuna nazione; secondo, perché è un romanzo di un’ottantina di pagine, che si possono leggere agevolmente, come non farò, tornando in treno a Lucca.

Lo leggo poi e consiglio vivamente di leggerlo. Per i contenuti, per lo stile.

La storia è atroce. Una donna è stata impiccata, “la muta”. In un primo momento doveva essere lapidata. L’altra, la nipote quindicenne, è in attesa di subire la stessa pena, riesce ad ottenere un quaderno ed una penna e racconta la storia della zia tanto bella quanto muta, uccisa sulla pubblica piazza per aver commesso adulterio...

Detto questo non voglio raccontare la storia, né si possono rendere, del resto, la forza e la bellezza espressiva del breve romanzo.

Primo, perché la “muta” e la ragazzina esprimono due personaggi emblematici della condizione femminile in uno stato di fondamentalismo islamico: un’oppressione estrema , che attraverso la negazione delle più elementari libertà giunge alla pena di morte, in alcuni casi, atroce, come la lapidazione.

Secondo, perché ambedue incarnano una rivolta altrettanto estrema, che dal mutismo arriva, attraverso alcuni passaggi, al delitto. Una rivolta, che rimane individuale e impotente, che non ha modo di contaminare altre donne e che viene punita sempre barbaramente.

Molto bella la pagina, in cui la ragazzina racconta la sua reazione quando apprende la notizia che la zia avrebbe dovuto essere punita con la lapidazione:

“…. Supplicavo Dio che ci fosse un terremoto, una guerra, che cadessero delle bombe, che annientassero tutta la città, tutto il paese, affinché la lapidazione della muta non fosse eseguita. Non sono capace di esprimere l’odio che sentivo verso mia madre, per la sua stupidità e la sua cattiveria; mio padre come faceva a tenerlo sotto controllo? Al posto suo, io l’avrei ammazzata di botte.”

E poi c’è lo stile, come scrivevo. Chahdortt Djavanni, nata in Iran nel 1967 e costretta a lasciare Tehran in fuga dal regime islamico e rifugiatasi in Francia, dove tuttora vive, finge ( e lo fa con maestria) che il romanzo le sia pervenuto dall’Iran da una giornalista in un pacco contenente il quaderno scritto in persiano con una calligrafia piccola e fitta, senza margini, senza cancellature, né rinvii, con insieme il dattiloscritto tradotto in francese. Ed in effetti questa ambiguità (chi lo ha scritto?) si moltiplica, perché in appendice La muta contiene pure una nota della giornalista e una del traduttore.

Ed è un’ambiguità che cresce, perché la scrittrice riesce a diventare verosimilmente l’io narrante della ragazzina, condensando in una sola unità psicologia e stile.
Perché lei, la ragazza 15enne, vede e sente, capisce e giudica: adora la zia con la quale, in qualche misura, si identifica; ha pietà per il padre buono, ma impotente; odia la madre conformista e cattiva; e prova repulsione nei confronti del mullah, che tuttavia è costretta a sposare, con una “confessione”, che ne accentua la complessità. Scrive, infatti, alla fine:
Poiché sto per essere impiccata, dirò la verità. Senza confessarmelo, mi era piaciuta la sensazione del sesso del mullah nella mia vagina. Una sera su due, quando nella penombra mi penetrava, tremavo di un piacere vergognoso e colpevole. Nascondevo sempre la testa sotto la coperta per non sentire il suo alito, mordevo il cuscino perché lui non sentisse me. Appena lasciava la stanza per andare a dormire nel suo studio, io mi rimproveravo. Mi disprezzavo. Lui aveva impiccato la muta. Mi sentivo sporca e colpevole, puttana. Il mio odio si ritorceva contro di me”.

Già in questa micro sequenza si coglie lo stile della scrittrice. E’ uno stile diretto, serrato, tagliente, che si incarna in una vicenda di amore e di odio, di vita e di morte, cioè dentro sentimenti forti e estremi. Chahdortt Djavann  trasformandosi nella  ragazzina ne mutua psicologia e linguaggio e, riuscendo in questo, la sua scrittura diventa stile.

Chahdortt Djavann. La muta. (La muette). Traduzione di Anna Maria Lorusso. Postfazione di Tahar Ben Jelloun. Bompiani.      





12 gennaio 2014

“Viaggio in Garfagnana: verso la fortezza di Verrucole”



di Gianni Quilici

Ore 12.15 “La luce ammorbidisce alberi sottili e fitti/ da dare un senso colmo di raccoglimento/ e di malinconica bellezza/ su  cui ti puoi posare…/” così scrivo in versi, vedendo le collina nella strada che verso Castelnuovo Garfagnana va.
foto di Gianni Quilici

Ore 13.05. Sambuca. La chiesa appare arroccata, quasi spettacolare, su una roccia più in basso della strada, in una fenditura tra due pareti di roccia vulcanica. Si parcheggia a fianco di un lavatoio rifatto e si sale la viuzza di pietre e sassi fino all’antica chiesa con torre campanaria con davanti il piccolo piazzale illuminato. Dall’alto della roccia il silenzio del paese, lo scroscio di una cascatella nel fiume, una verde distesa e le rocce intorno come guglie che si protendono verso.

Foto Gianni Quilici
Ore 14. Mangiare dove? Non si trova altro che un hotel-ristorante a Piazza al Serchio: ravioli in salsa rosa, patate arrosto, caffè e via!
Piazza al Serchio appare deludente, almeno a vista d’occhio. Un paese sulla strada, che sembra essersi sparso in modo ibrido. Si salvano il campanile con la fuga della strada di pietra che ad esso sale, l’ombra netta di un platano su un bel palazzo e, ai margine del paese, alcuni bei torrioni di roccia vulcanica ( “doglioni” così si chiamano), che danno per un attimo il senso di un canyon, che svanisce allargando lo sguardo.

foto Gianni Quilici





Ore 15.40. La fortezza di Verrucole dei secoli XV/XVI appare come visione imponente e incredibile, venendo da una stradina, che sembra non porti a nulla. Una fortezza sul colle sopra il paese con mura ben conservate e torrioni. Si sale. E’ chiusa. Lo sarà fino alla primavera. Che fare? Salire fino a dove sarà possibile andare lungo un sentiero, in mezzo a un praticello verdeggiante, e la luce che balugina, ancora in alto sulle montagne. Laddove la fortezza raggiunge l’altezza più alta, 665 metri, mi siedo. Vista da vicino nella sua solidità e lunghezza , con l’autenticità che la pietra e il sasso donano, con la bellezza dei merli, in quello spazio abbastanza isolato,  pare quasi un miracolo. Se poi faccio un giro su me stesso essa appare circondata come da un anfiteatro di montagne….gli Appennini e le Alpi Apuane… che senza interruzioni le girano intorno. In basso la vallata da cui giungono rumori di auto, voci e grida soffocate e un latrato continuo d’un cane.

Gianni Quilici. Viaggio in Garfagnana: verso la fortezza di Verrucole. Dicembre 2013.