26 febbraio 2015

“Stabbiano: viaggio nella lucchesia” di Gianni Quilici



11.00
Mattina incerta tra nuvole, pioggia e luce. Cosa scegliere, se non un viaggio, un viaggio breve nel tempo e nello spazio, in un paese piccolo, visto allora, da rivedere oggi, dopo molto tempo?  
Colazione, il manifesto e  via.

11.30
Cerco le strade, le più secondarie nella domenica spenta: Lammari, Monte S. Quirico,  strada di S. Alessio, che sbuca sulla Sarzanese e a Farneta, strada a destra che sale verso Chiatri e, dopo qualche Km, ecco Stabbiano, appena un po’ più in alto della strada.


12.00
Da una siepe di alloro nella nebbiolina che avvolge colline, che si sovrappongono, i fusti di alberi nudi, una casa bianca sfumano come fossero quadro impressionista.
Una campana di qualche chiesa rintocca il tempo lontana come un’eco dolente di un suono già sentito e poi perso.

Ad un passo un bel pozzo con tettoia, residuo archeologico della società contadina, lasciato un poco a se stesso, mimose già fiorite che risplendono gialle nella mattinata grigia, una casa ben ristrutturata e un vialetto che porta alla chiesa con bel campanile merlato.




12.30
Dalla chiesa una stradina asfaltata, tra una vegetazione alta e fitta sulla collina, porta ad un gruppo di case, con una loro bellezza, perché recuperate senza essere stravolte e da lì  la stessa stradina arriva ad un altro minuscolo gruppo di case … e  Stabbiano sembra finire.



Cosa manca ad uno sguardo tutto di superficie?
Non i cani, liberi o legati, che si fanno vedere e sentire. Manca una centralità che raccolga, che dia quel senso di comunità, che soprattutto dà a un paese, a una città o cittadina il suo cuore.
C’è invece lo sguardo verso uno spazio aperto: le colline, gli alberi, altri paesi, il cielo sopra di noi.

Stabbiano. Domenica 15 febbraio 2015.




23 febbraio 2015

“Ghivizzano Castello: viaggio in Garfagnana” di Gianni Quilici



Mattina celeste. Una luce tranquilla, che illumina laggiù all’orizzonte la cima degli Appennini nevosi.
Dal fondovalle vedo svettare, per la prima volta, sul cocuzzolo della collina il campanile e la chiesa del paese di Anchiano.

A Ghivizzano una strada a destra sale, per poco più di un Km, con ampi tornanti, a Ghivizzano castello. Parcheggio quasi pieno. Porta d’ingresso alta con arco di mattoncini dipinta di un colore giallastro come la casa adiacente. Esattamente da lì inizia, in pietra levigata, la via centrale, via Davide Camilli, in ricordo del monsignore poi vescovo di Fiesole, che attraversa il paese per arrivare alla fine: la seconda porta.

Però la lascio quasi subito, infilo un vicolo buio che scende tra scalini che hanno la bellezza del tempo, trovo sottopassaggi, che lasciano passare schegge di luce, m’imbatto in uno di quei cani bianco neri, piccoli e arrabbiati, che dietro ad un cancello fa “il diavolo a quattro”, vedo davanti ad una porta di casa una bella scultura di olive e di bottiglie di olio per arrivare infine ad uno dei punti alti di Ghivizzano: il camminamento coperto lungo le mura, con le inferriate, che si aprono sulle montagne turchine e le cui ombre si stampano nette sulla via Sassola.
Questo camminamento è una delle piccole grandi ricchezze architettoniche del paese ed immagino come potrà essere evocativa di notte questa galleria di pietra sassi e mattoncini con i lampioni che la svelano.

Alla fine del camminamento l’altra porta. Come si intravede nell’immagine la luce penetra dalla porta formando un triangolo quasi rettangolo con il lampione scolpito sopra il muro bianco-grigio.
“Che bella foto!” penso. Aspetto un corpo qualsiasi che si stampi in controluce  quando ecco un gatto correre veloce, ma non abbastanza, da non essere “inchiodato” dal mio click.

Mi siedo sulla panchina di legno di fronte alla porta. Un bel gattone rossiccio si viene a sdraiare, invece, sulla panchina di pietra adiacente alla porta. Questa, incorniciata di pietra serena, ha una terrazza altissima, elegante, ma deteriorata, parte posteriore di un ricco palazzo che fu del monsignor Camilli, oggi proprietà privata.

Da lì, seguendo una stradina asfaltata, si può percorrere il breve giro del perimetro delle mura, su cui sono state costruite case e palazzi, alcuni dei quali, oggi, disabitati.

Ghivizzano è raccolto tra queste due porte e, pur tra interventi pirata o sbagliati, conserva quasi intatta la sua struttura medievale, che merita di essere ancora di più valorizzata e conosciuta.
Ma non è finita qui. Ritornando indietro dalla via centrale ecco la spettacolare scalinata, che conduce alla chiesa e al bel campanile e da lì alla torre di Castruccio Castracani, ristrutturato recentemente e, quindi, oggi visitabile. Ma è tardi.
Queste “bellezze” storiche non meritano una visita frettolosa. Ghivizzano castello non è un paese da “mordi e fuggi”.  

Ghivizzano Castello. Domenica 8 febbraio 2015

22 febbraio 2015

"Yerevan/Stepanakert. Ai confini dell’ex impero sovietico" di Paolo Vettori




Un viaggiatore curioso 

ai confini dell’ex impero sovietico

 di Luciano Luciani


Mai come nella nostra epoca gli uomini hanno viaggiato: sia come distanze percorse, sia come frequenze di viaggi, sia come numero di persone. Un tempo viaggiavano solo le tre M dell’Occidente: le merci, i militari, i missionari. Oggi, invece, tutto sembra un movimento: viaggiano le cose, gli uomini, le informazioni… Paradossalmente, nell’era della rivoluzione dei trasporti, non c’è più un posto sicuro: tutto, infatti, è reso precario, fragile, incerto dal terrorismo, dalla micro-criminalità, dai conflitti locali, dal rischio della diffusione di malattie planetaria tipo Ebola.

Se poi si è fortunati e si riesce a evitare tutti questi disastri, rischiamo di imbatterci in un’altra maledizione: il turismo di massa, fatto di omologazione dei comportamenti e degli stili di vita dall’Europa all’Asia, all’America, all’Africa… Locali tutti uguali, vetrine di negozi identiche, alberghi simili a se stessi al nord come al sud del mondo, per evitare a queste nuove legioni di viaggiatori, in genere distratti e superficiali, il fastidio e le fatiche che il mondo fisico sempre comporta: l’alterità rappresentata dai luoghi e dalle genti con cui il turista entra in contatto.

Una condizione che non riguarda Paolo Vettori, viaggiatore dotto, curioso e infaticabile, che, agli itinerari consueti dei tour collettivi e delle agenzie di viaggio, preferisce la spedizione “in solitaria”, lungo itinerari meno noti e non battuti. E davvero poco noto e inusuale ai più è il Caucaso meridionale, alle periferie di quello che una volta era l’impero sovietico e oggi terra ribollente di interessi economici, aspirazioni nazionalistiche, tensioni religiose e culturali.

È in quest’area che si reca il nostro viaggiatore nell’estate del 2013, fresco di pensione e fresco di testa: senza pregiudizi, l’animo scevro da prevenzioni, tante e tante domande da fare e ben intenzionato a costruirsi, con onestà  intellettuale, un’immagine, di quelle terre e di quei popoli, la più possibile vicina alla realtà. Tante e sincere le sue intenzioni al punto da compiere un’operazione oggi rara: riportare sulla pagina il dettagliato diario dei giorni di viaggio e di scoperta. I luoghi e le persone, i piccoli/grandi inciampi e impacci di un visitatore giunto da molto lontano; il confronto schietto tra le proprie aspettative e i risultati della visita in quei luoghi e di quegli incontri… Così il suo diventa anche un viaggio di carta e inchiostro, un quaderno di viaggio che sta tra il diario e il reportage, un documento che più e meglio di un saggio sociologico storico-politico ci racconta il passato e il presente di quelle aree lontane delle cronache e dagli itinerari turistici. Un resoconto sui luoghi visitati e, direi, anche sul visitatore, perché l’Autore non nasconde nulla dei suoi personali punti di vista, degli umori, dei sentimenti dell’io narrante.

Viaggiatore esperto, Vettori viaggia leggero, solo con l’essenziale. E se proprio deve caricarsi di qualcosa, acquista appena una vecchia guida del periodo sovietico. È attrezzato, invece, della sua cultura, delle letture, delle attese di ottenere risposte agli interrogativi di natura storico/ culturale che l’hanno portato in quei luoghi.

Fa domande, fa parlare molto gli altri, soprattutto ascolta. Rivede, se del caso, le proprie convinzioni. Riporta la laudatio temporis acti di alcuni sul passato regime, o, almeno, il loro atteggiamento sine ira et studio, ma mantiene il proprio giudizio netto sulla illiberalità del comunismo. Riguarda con simpatia, Vettori, alla tragica storia del popolo armeno e del suo sterminio consumatosi 100 anni fa: una vicenda spaventosa in sé e perché avrebbe aperto la strada ad altri, ancor più devastanti e terribili, genocidi simili avvenuti nel secolo scorso.

Viaggiatore di lungo corso, Paolo Vettori, sa come mantenere il giusto equilibrio tra programmazione e improvvisazione. Per cui, quando gli si offre l’opportunità di visitare un’area del mondo”, “al limite” non se la lascia sfuggire. E così mette piede nel Nagorno Karabakh, ovvero “il giardino nero in mezzo alle montagne” del Caucaso meridionale, piccolo stato fantasma, nato da una recente guerra sanguinosa tra Armeni e Azeri: quarantamila morti in pochi giorni e oggi estrema propaggine della cultura cristiana in un’area del mondo tutta islamica.

Yereven/Stefanakert. Ai confini dell’ex impero sovietico è scritto in uno stile limpido, cordiale, fruibile, accattivante a testimonianza di un rispetto di fondo per il lettore. Perché “viaggiare”, lo afferma un viaggiatore illustre e colto come Guido Piovene, “dovrebbe essere sempre un atto di umiltà”. Così viaggia e così racconta i suoi itinerari Paolo Vettori e noi che lo leggiamo gliene siamo grati.

Paolo Vettori, Yerevan/Stepanakert. Ai confini dell’ex impero sovietico, Edizioni Helikon, pp. 246. Euro 10,00



13 febbraio 2015

“Toscana” di Gianni Berengo Gardin





di Gianni Quilici

 Gianni Berengo Gardin ha girato in lungo e largo l’Italia e sono centinaia le foto, che potrebbero non solo rappresentarla, ma anche simbolizzarla.
Una delle più famose è questa, scattata in Toscana, ci dovremmo trovare a sud di Siena, nel 1965, esattamente 50 anni fa.  Un anniversario. Viene da pensare: perché, in qualche modo, non festeggiarlo? Magari accanto alla foto di come questo luogo si trovi oggi?

E’ l’inizio di un percorso.
Il ragazzo e la ragazza hanno di fronte la strada bianco scolpita, in contrasto netto con lo sfondo nero dei prati, che sale serpentina, accompagnata dai cipressi antichi e svettanti.

Foto realistica di una bellezza oggettiva, che il tempo rende ancora più evocativa.
Foto realistica, ma anche felicemente simbolica. Il cammino che il ragazzo-ragazza stanno per iniziare può simbolizzare anche il viaggio tortuoso della vita.

Gianni Berengo Gardin. Toscana. 1965.

09 febbraio 2015

“Il Museo del Mondo” di Melania G. Mazzucco



di Dafne

Si tratta di 52 capolavori dell’arte nei secoli prodotti dall’antichità ai giorni nostri. 52 capolavori raccontati ciascuno in due tre pagine al massimo; ciascuno di questi racconti dischiude  a pensieri e suggestioni come se di pagine ne leggessimo a decine. Questa è la forza e la capacità di racconto di Melania Mazzucco. Ogni sua parola o breve descrizione allude ad altro, apre finestre dell’immaginazione, porta a richiami e collegamenti, acuisce la curiosità, spingendoci oltre quelle parole, accendendo l’attrazione verso l’oggetto  del racconto. Ci trascina impetuosamente grazie al talento di romanziera nell’epoca del quadro, ci fa intravedere ed intuire vividamente la personalità dell’autore, la specifica anima artistica di ciascuno di essi.

Non possiamo rimanere indifferenti, anzi, ci innamoriamo ogni volta, per 52 volte.

Mirò
Ogni opera ha sempre una sua specifica storia, una sua genesi e sviluppo, un suo carattere e personalità, come accade per le persone e come immaginiamo per l’autore di ciascuna opera. Tale complessità di contenuti è raccontata con semplicità e passione, vera conoscenza, grande competenza ed emozione. Un approccio non didascalico, ma che non omette informazioni significative. Un interessantissimo ingresso nel mondo dell’arte e degli artisti di tutti i tempi, che nell’insieme  riesce a farci comprendere la grande unitarietà dell’arte, l’imprescindibile filo conduttore che attraversa i tempi, le epoche, gli stili, tanto che le opere non sono presentate né per ordine cronologico, né tematiche stilistiche, ma quasi per improvvisi ricordi, come se l’autrice procedesse per analogie e associazioni di idee del tutto personali.

Rapiti come se ci raccontassero una favola, come se ci svelassero segreti, ogni volta ho avvertito la grande complessità che sta dietro a qualsiasi opera d’arte che abbia resistito al tempo, dandomi la possibilità di spiegare od appena intuire il motivo di una rapimento estetico, l’inspiegabile forza attrattiva di certe opere, sensazione che altrimenti può provocare un certo senso di smarrimento se vissuta senza appigli e punti di riferimento. Ecco, questo volume offre la possibilità di trovare quel sostegno, quell’attacco, quella risorsa in più per tradurre le proprie emozioni di fronte al mistero della fascinazione da opera d’arte.

Inoltre il libro stampato da Einaudi è un bellissimo prodotto editoriale, come se ne vedono raramente. La carta è di prestigio, la resa dell’immagine delle opere è ottima, le dimensioni del volume non sono invadenti, poco più di un qualsiasi romanzo. E Melania Mazzucco conferma le sue doti di vera scrittrice.

Melania G. Mazzucco. Il Museo del Mondo. Einaudi Editore.



Dafne

"Un medico si racconta" di Giovanni Marchetti


Coreglia Antelminelli

di Luciano Luciani

Un’alleanza tra pratica medica e letteratura è sempre esistita e la ritroviamo in non pochi medici/scrittori. Anton Cecov, per esempio, grande narratore e drammaturgo, che si sentiva soprattutto un medico impegnato a lenire le sofferenze del popolo russo: è sua l’affermazione per cui “la medicina è sposa, la letteratura amante”. Laureato in medicina è Michail Bulgakov, acre narratore della società staliniana. Artur Conan Doyle, l’inventore di Sherlock Holmes, era medico e medico è il dottor Watson, il simpatico personaggio che fa da spalla a Sherlock, e non poche conoscenze mediche rifluiscono nelle sue storie. Medico di qualche fama che curò la regina Vittoria è lo scrittore svedese Axel Munthe, autore de La storia di san Michele. Medico condotto nei quartieri popolari di Parigi fu Luis Ferdinand Celine, l’autore di Viaggio al termine della notte e di Morte a credito e medico tra i minatori del Galles, Archibald Cronin, autore famosissimo per noi italiani grazie alla tv delle origini e alle sue prime fiction. Un “caro medico” è l’evangelista Luca, autore del terzo Vangelo e degli Atti degli Apostoli

Lunga, poi, la lista dei medici/scrittori italiani: Carlo Levi, per esempio, autore di Cristo si è fermato a Eboli, L’orologio, Il futuro ha un cuore antico; Mario Tobino, medico psichiatra ma anche affabulatore dell’inquietante, ma anche affascinante, mistero della follia (le libere donne di Magliano, Per le antiche scale). Ufficiale medico è il vicentino Giulio Bedeschi, quello di Centomila gavette di ghiaccio, senza dimenticare il pavese Bruno Tacconi, abile divulgatore della storia antica in forma di romanzo. Ai nostri giorni, in testa alla classifica dei best seller, troviamo spesso Andrea Vitali, medico lombardo di Lecco.

Sembra quasi che per molti medici la letteratura, sotto forma di lettura e in non pochi casi di scrittura, rappresenti una sorta di antidoto nei confronti della malattia, della sofferenza, del dolore, della morte a cui sono costretti a assistere e a partecipare ogni giorno.

Probabilmente è stato così anche per Giovanni Marchetti, medico condotto per quasi tutta la seconda metà del secolo scorso a Coreglia Antelminelli e autore di Un medico si racconta, un’antologia dei suoi articoli apparsi sul “Giornale di Coreglia” raccolti per volontà degli amici e degli estimatori. Pagine con cui il dr. Marchetti ha voluto contrastare un altro male, questo di natura morale: la dispersione delle memorie significative per la piccola comunità di Coreglia Antelminelli. Per esempio, quelle dell’Ospedale Pierotti, aperto, negli anni del dopoguerra e divenuto da piccolo modesto ambulatorio un efficiente luogo di prevenzione e cura all’altezza delle esigenze di un vasto territorio: 40 posti letto, un piccolo reparto maternità, un reparto di chirurgia con sala operatoria. Un piccolo miracolo dell’intelligenza, della solidarietà e della capacità di fare molto con poco o pochissimo. E tutto narrato con eleganza, leggerezza, un velo di ironia e umanissima pietas.

Come nel breve racconto che fa memoria dell’entrata in servizio dell’Autore come medico condotto un 2-novembre dell’immediato dopoguerra. Un tale gli si avvicina per richiedere il suo intervento professionale: “Bisognerebbe che venisse a visitare il mio figliolo che ha la febbre da diversi giorni; c’è da camminare un pochino per arrivare in Acqualoria…” Marchetti ci fa capire subito che quella passeggiata si protrarrà assai più che un pochino. È un racconto importante questo Un novembre di tanti anni fa perché, con la semplicità di scrittura che gli è propria, il dott Marchetti narra come gli fu profetizzata dal suo predecessore il dott Coli, la storia d’amore destinata a durare tutta la vita per Coreglia, da cui non sarebbe più andato via, costruendovi insieme il suo destino professionale e la sua famiglia.

Tanti e tanti gli argomenti, mai banali, sempre significativi, che sottilmente tramati nella storia, vengono trattati dall’Autore: lo spirito, di intraprendenza, coraggio, ottimismo, di voglia di fare, che animava gli uomini, e in particolare i giovani, dell’immediato dopoguerra; il messaggio di pace e tolleranza che ci viene dall’unico racconto del tempo di guerra, Un settembre 1944, un tempo drammatico, tragico – i tedeschi si stanno ritirando e siamo a un mese dalla strage di Sant’Anna di Stazzema – rivisitato, però, con levità e sorridente ironia. Poi, l’alta dignità attribuita alla professione medica: il vincolo forte rappresentato dal giuramento d’Ippocrate, l’idea che il ruolo del medico non sia solo quello proprio dell’operatore sanitario, punto e basta, ruolo necessario ma non sufficiente, ma che il medico condotto sia un connettivo fondamentale nella vita di una comunità. Medico sì, ma anche consigliere, confidente, psicologo, assistente sociale, anche veterinario se del caso, comunque sempre un amico di chi soffre… E poi il tema dell’amicizia vissuta come valore assoluto, ribadito in più di un racconto: senza dimenticare, un sentimento forte di condivisione di momenti felici e meno felici come la vecchiaia e la malattia.

È un mondo fittamente popolato di personaggi minori o addirittura minimi quello narrato dall’Autore che sa mantenere sempre il passo del narratore popolare: sembra che Marchetti racconti “a veglia”, muovendosi all’interno della nobile tradizione del bozzetto toscano. C’è poi da aggiungere che il nostro medico condotto, nonostante l’educazione positivista propria dei medici, non disdegna il racconto di mistero e di evocazione (Il fantasma, forse il più bello della raccolta, per qualità di scrittura e capacità di usare la suggestione dell’impalpabile e dell’indefinito). 

E poi l’ironia sottile e l’autoironia che percorre tutta le sue pagine: l’operazione della cagna con cui il dottor Marchetti viene amabilmente retrocesso, a dottore degli animali; un racconto sulla sparizione di un dente appena estratto, “in scienza e coscienza”, dal giovane medico che non aveva mai praticato un’estrazione in vita sua… E, all’opposto, la gioia che trapela tra le righe, ogni volta che Marchetti, tra l’altro specialista in ostetricia e ginecologia, contribuisce alla venuta al mondo di una nuova vita.

Scrive bene, Marchetti: il tratto è sicuro, chiaro, incisivo. Poche righe e hai già la storia: un luogo, Coreglia; un tempo, appena ieri, il nostro passato prossimo che si popola di personaggi anche questi delineati, tagliati con pochi segni, ma subito vivi e vitali sulla pagina perché tali sono nella memoria e nel cuore di chi scrive.

Giovanni Marchetti, Un medico si racconta, ed “Il Giornale di Coreglia Antelminelli”, Coreglia A., copertina e disegni di Nazareno Giusti, 2014, pp. 120, sip.


06 febbraio 2015

“Scene dalla vita di un villaggio” di Amos Oz




di Gianni Quilici

Amos Oz, come molti grandi scrittori, mi sembra utile anche per chi, avendo necessità espressive e qualche talento, vuole scrivere.
Prendiamo questo libro Scene dalla vita di un villaggio: otto racconti, che hanno tuttavia un filo di raccordo sufficientemente evidente per poter essere anche un romanzo.

Sono racconti, perché hanno un inizio ed una fine, che è, però, una sorta di sospensione, non una conclusione.

Potrebbero essere considerati anche un romanzo, perché coesi da uno stesso luogo, Tel Ilian,  piccolo paese israeliano,  in cui i protagonisti appaiono come tali in un solo racconto, ma riappaiono qua e là, anche se solo nominalmente. E’ come se ad Amos Oz interessasse connettere insieme varie storie in un solo spazio e tempo per far vivere come protagonista, con tanti comprimari, un villaggio. Ed in effetti Tel Ilian acquista, nei racconti di Oz, un’anima, una sua universalità.

Ma in che modo lo scrittore raggiunge questo risultato?
Attraverso i personaggi.
Amos Oz è, infatti, abilissimo a rappresentare personaggi. Ce li fa vedere fisicamente con dettagli o metafore originali e ce li fa sentire attraverso il flusso degli avvenimenti, creando una tensione narrativa e un’aspettativa nel lettore per un enigma, che rimane sospeso, non si scioglie. Ed in questo senso anche il villaggio acquista un corpo ed un’anima sua con i suoi vuoti, le sue serate afose e umide, gli anziani imbambolati selle soglie delle loro case, gli incontri e le chiacchiere e la mezzaluna che splende sopra la torre dell’acqua.

Faccio un solo esempio, sulla qualità dei personaggi, prendendo rapidamente in esame il racconto forse più poetico Estranei.
C’è un lui: Koli Ezra,  infelice diciassettenne con due gambe a stecchino, la carnagione scura e sul viso quasi sempre spalmata un’espressione di mesto stupore, perdutamente ma anche disperatamente innamorato, visto che lei ha quasi il doppio della sua età.
C’è una lei: Ada Devash, impiegata alle poste, nonché bibliotecaria, una trentenne divorziata, bassotta e ridanciana, rotondetta e simpatica, con occhi di un castano caldo, con un leggero strabismo che le dona, perché quel difetto pare quasi un vezzo.

Il ragazzo la sta aspettando, come la sera precedente, per accompagnarla dalla posta alla biblioteca, dove insieme distribuiranno i libri.
La poesia del racconto nasce dalla sottile maestria con cui Amos Oz riesce a far emergere il nugolo di pensieri, di immaginazioni, di sentimenti contrastanti nel ragazzo: la ricerca affannata di argomenti che possano interessarla, il  proposito di dichiarare il suo amore e il timore di essere deriso o comunque di suscitare pietà, fino a essere accarezzato come se fosse un bambino, e quindi anche la voglia matta di farle del male, di pestarla, di svegliarla; il desiderio prepotentemente fisico nel vedere la gonna salire sopra il ginocchio o nell’immaginare i  seni di lei premere sul suo petto, la gelosia verso l’autista di autocisterna, che forse l’aspetta davanti casa e che l’avrebbe poi abbracciata con le sue mani grassocce, e un’indecifrabile tentazione poi di proteggerla e difenderla da lui; ma Oz è sottile anche nel delineare la delicatezza della donna che non vuole ferirlo, ma neppure incoraggiarlo e che rimane però compiaciuta di questa attenzione profonda e sincera ed alla fine forse potrebbe abbandonarsi, solo che lui non osa, non capisce, chiede scusa, fugge…

Ecco, Amos Oz conosce i suoi personaggi, li conosce non per quello che sembrano, ma per il flusso contraddittorio dei movimenti interiori nella durata, consegnandoceli senza una conclusione, con un interrogativo,  come per dirci la vita continua, non sappiamo come sarà, questo è, però, un attimo, una sequenza intensa, che potrà rimanere scolpita e che ci riguarda.

Ma anche i personaggi che appaiono per poche righe, e poi spariscono, hanno una loro evidenza plastica. Un esempio.
In un altro notevole racconto Smarriti,  il protagonista, un immobiliarista, stanco con gli occhi che gli bruciano, decide di fare un giretto a piedi per il paese, che si trasformerà in un viaggetto pieno di sorprese. E la prima di queste sorprese, l’altra sarà ancora più sorprendente, è una donna, un’estranea che sbuca, non capisce da dove. Così Oz la descrive:

“Non era di qui. Era molto magra ed impettita, con un naso aquilino, il collo corto e massiccio, in testa un buffo cappello giallo pieno di spille e fibbie. Era vestita da escursionista, aveva uno zaino rosso sulle spalle, una borraccia legata alla cintura, degli scarponcini, teneva in mano un bastone e sull’altro braccio aveva appeso un impermeabile, non certo adatto al mese di giugno. Sembrava ritagliata da una pubblicità per viaggi alla scoperta della natura. Ma non qui da noi, in regioni ben più fredde. Non riuscivo a staccarle gli occhi da dosso.
La sconosciuta ha ricambiato con uno sguardo truce e penetrante, quasi feroce. Aveva un’aria altera come se mi disprezzasse dal profondo del cuore, o quasi volesse dire che per me non c’era nulla da fare lo sapevamo bene tutti e due. Era talmente pungente quel suo sguardo, che non ho potuto fare a meno di scostare il mio e allontanarmi (…). Dopo una decina di passi non ce l’ho fatta e mi sono voltato. La forestiera non c’era più. Inghiottita dalla terra. Ma io non riuscivo a mettermi il cuore in pace”.

Non la rivedrà più,  ma in questo breve passaggio lo scrittore ce la consegna incisa brillantemente: da un lato un po’ grottesca, “sembrava ritagliata da una pubblicità per viaggi”, dall’altra molto inquietante con quello sguardo truce e giudicante, che lascia poi una scia di mistero.

Amos Oz. Scene dalla vita di un villaggio. Traduzione di Elena Loewenthal. Feltrinelli.  

"E Susanna non vien. Amore e sesso in Mozart" di Leonetta Bentivoglio e Lidia Bramani



di Maddalena Ferrari

E’ un testo femminista e libertario. Si basa su una lettura di Mozart personaggio storico massone e rivoluzionario, come recita il titolo di un altro libro di una delle autrici ( “Mozart massone e rivoluzionario” di Lidia Bramani, ed. Bruno Mondadori, 2005 ).

Si prendono in esame le  frequentazioni di Leopold e di Wolfgang nei loro numerosi viaggi e i testi delle rispettive biblioteche, per evidenziare una mentalità ed una cultura aperta, laica, illuminista, sia nel padre che nel figlio, ma soprattutto nel secondo.

Si analizza la trilogia realizzata con Da Ponte, per  affermarne la portata trasgressiva, libertaria e liberatoria, risultato di una precisa intenzione  del musicista.

Un grande spazio viene riservato a “Così fan tutte”, per  affermare  un messaggio trasgressivo e di estrema modernità che l’opera contiene: l’amore non monogamico, basato sulla naturalità di erotismo e sentimenti.
Il portatore di questa ideologia è don Alfonso, filosofo massone-illuminista; e non è da sottovalutare il personaggio della serva Despina, che, sia pure senza la complessità delle due coppie protagoniste, che scoprono non senza patemi d’animo la realtà del “poliamore”, è un personaggio moderno, che vuole divertirsi con gli amori e, nel suo atteggiamento di “baldanza pratica”, è parente di Zerlina del “Don Giovanni” e di Mirandolina del Goldoni. Ed è attraverso la macchinazione di questi due personaggi che è introdotta, sia pure  in un contesto di ironia e divertimento,  la figura di Anton Mesmer, in quanto il suo magnetismo serve per curare i due finti albanesi; e le teorie, come la pratica curativa dello scienziato, amico dei Mozart, erano considerate socialmente pericolose.

Le autrici sottolineano poi la scelta rivoluzionaria da parte di Mozart del soggetto de “Le nozze di Figaro” e evidenziano la valenza di contemporaneità insita in diversi aspetti dell’opera, dalla “sorellanza” fra Susanna e la Contessa, all’ambiguità sessuale di Cherubino, soggetto-oggetto erotico, all’amore senza età, non solo e non tanto negli uomini, ma nelle donne ( e si fa riferimento all’attrazione che il giovane Cherubino prova per la Contessa e per Susanna, che non restano immuni dal suo fascino; ed anche alla figura di Marcellina, che vorrebbe sposare colui che poi si rivela essere suo figlio e che, a differenza delle consuete interpretazioni del personaggio, si connota come una figura “positiva” ).
Don Giovanni  viene sottoposto ad una specie di smascheramento: contro la lettura di chi ne fa un eroe positivo, si sostiene  al contrario che “nell’opera s’insiste musicalmente, teatralmente e letterariamente sulla sua impudente prepotenza nei confronti di chiunque cerchi di ostacolarlo”: è un ingannatore e un violento, un prevaricatore,  che approfitta del suo fascino e della sua posizione sociale per  soddisfare le sue voglie e  non si fa riguardo di ricorrere anche allo stupro; la libertà per lui è solo arbitrio. Donna Anna non è attratta da lui, ama il fidanzato Don Ottavio, con il quale ha una frequentazione intima e a cui Mozart  riserva  due arie bellissime e complesse.

Il libro è davvero appassionante, perché ha la proprietà di trasportarci in un mondo con una filosofia del vivere, per cui gli affetti, l’eros, il sesso sono  vissuti  liberi, naturali, egualitari; ci accostiamo al genio creativo di Mozart, leggiamo tratti del suo epistolario, veniamo a conoscenza di aspetti della sua formazione e della sua cultura anche, se non soprattutto, extramusicali; cogliamo i fili di un multiforme pensiero settecentesco, che si insinuano in atteggiamenti, scelte, abitudini; è una realtà che parla a tutti, anzi, in modo speciale a tutte, nei nostri giorni, incontrandosi  con il pensiero e gli artisti di oggi:   da Totò alla società liquida di Bauman, dallo scrittore Abraham Yehoshua allo studioso Jacques Attali, da Woody Allen a Truffaut.  

Forse certe interpretazioni delle due autrici possono apparire affermate in modo troppo perentorio; ma è anche vero che le letture di Mozart più correnti sono forse semplicistiche o fuorvianti. Come si legge sul retro della copertina del libro, “Mozart è una miniera sterminata e ipnotica: il rischio è quello, esaltante, di non uscirne più.”

Leonetta Bentivoglio e Lidia Bramani. E  Susanna non vien. Amore e sesso in Mozart .         
         
  

30 gennaio 2015

"San Romano. Viaggio nella valle del Serchio" di Gianni Quilici




foto Gianni Quilici
Provo  un senso di stupore quando lasciando la strada veloce e anonima lungo la Valle del Serchio ci si inerpica verso San Romano su una strada invece intima, ma così stretta, che in certi punti è difficile e forse impossibile il passaggio simultaneo di due macchine e forse anche pericolosa, perché in certi tratti sarebbero necessari impianti di protezione. Ma lo stupore più grande nasce dal mutamento improvviso di paesaggio: dalla strada trafficata che s’impone su ogni altro elemento, alla fitta vegetazione di castagni, querce, betulle, che dà un senso immediato di essere dentro un’altra civiltà.

A metà strada, al margine di uno slargo, una casa abbandonata con capanna e un sentiero sulla parte opposta, che scende verso una proprietà privata, chiusa da una catena. Dinnanzi la visione di un paese, forse Cardoso, disteso sulla collina con il campanile in alto racchiuso tra la vegetazione.
 
La stradina sale ancora per poco quando d’improvviso, in uno spiazzo largo, ecco il paese, S. Romano, con un comodo parcheggio.
San Romano, si può leggere su un cartello segnaletico su sfondo giallo, si trova a 447 metri, anticamente era il castello di Spulizano (995) ed è oggi un borgo medievale nascosto  tra il verde sopra la valle del torrente Turrite. Che sia un borgo medievale con le case e palazzi, che si abbracciano, lo sapevo già, avendolo visitato in precedenza due volte, tanto che il desiderio di rivederlo era limitato, in quanto mi sembrava il paese scontato. Invece  è stata una sorpresa. Il tempo muta, muta anche i nostri occhi.
foto Gianni Quilici

Primo scatto: croce su di un piedistallo di un colore nero contro il cielo blu.
Lì vicino ecco l’oratorio di San Rocco del secolo XVII, ma largamente rimaneggiato con il prònao con tettoia e colonne e con il fianco di sassi e calcina e finestre inferriate più simile ad un’abitazione che a un luogo di culto. Alle spalle un delizioso campanile a vela.
Su un lato due panchine adatte ad una sosta contemplativa. Da lì parte la via centrale di pietra, che s’inoltra nel paese.


foto Gianni Quilici
Il campanile s’impone alla vista con un’originale mescolanza tra sacro e profano  con un’ampia terrazza terminale, la campana e  la porta incorniciata di pietra serena. La chiesa adiacente, S. Romano (XVI secolo), che ha dato il nome al paese, ha una piazzetta minuta ma ricca di dettagli: un monumento ai caduti della grande guerra e un roseto, una croce e due alberi insoliti, che partono quasi dalle radici  con innumerevoli rami, un muretto da un lato e una bella cancellata che la rinchiude dall’altro.  

foto Gianni Quilici
La via prosegue con poche biforcazione, qualche bel palazzo, qualche casa ben ristrutturata e case modeste o abbandonate, alcune delle quali rimandano la bellezza della loro autenticità.
Ma forse l’aspetto più architettonicamente poetico risalta in alcuni  sottopassaggi con porte ad arco,  travi di legno e aperture a mo’ di finestra nella parete di pietra.

Alla fine di uno di questi sottopassaggi, il più modesto, la via prosegue in un viottolo che porta verso la collina. Lì un uomo sta lavorando ad un muretto di pietre parzialmente franato. “Lo faccio a secco” mi dice dopo il mio saluto, “perché col cemento si sfigurerebbe tutto”. Davanti c’è la collina fitta di castagni, che nell’aria primaverile di oggi assumono quel bel colore marroncino chiaro che dà un senso di morbidezza. “Tutti quei castagni sono miei” mi dice “li pulisco ogni anno per bene, non voglio che sotto ci nasca una boscaglia di pruni. Quel castagno lassù, quello vecchio e più alto di tutti, lo vedete? E’ enorme, si vede anche da qui, ma vedendolo da vicino è impressionante”.

foto Gianni Quilici
Attraverso un sentiero che passa al lato del paese si ritorna all’oratorio S. Rocco da dove ero partito. Lì sotto, lungo la strada che porta a Motrone, c’è l’ultima insolita sorpresa: un lavatoio con tettoia, che come si può intravedere nell’immagine è notevole nella forma fantasiosamente geometrica, nella pietra, nelle colonne di mattoni.
In un lato l’acqua, che ancora oggi sgorga impetuosa e leggera da dei modesti tubi allora doveva essere inserita,  come si intravede nell’immagine, da una struttura scultorea e doveva formare con un lavatoio brulicante di vita un insieme di grande fascino popolare e forse anche architettonico.

San Romano di Borgo a Mozzano. Domenica 18 gennaio 2015.
   


28 gennaio 2015

"Guida al cinema di Stephen King" di Marcello Gagliani Caputo



di Gordiano Lupi

Pochi scrittori sono riusciti a condizionare il cinema come Stephen King: dagli anni ’70 a oggi, quasi tutti i suoi romanzi sono stati, più o meno fedelmente, portati sul grande schermo o in televisione, sintomo della straordinaria capacità dell’autore americano di raccontare storie fatte apposta per trasformarsi in immagini.

 Registi come Brian De Palma, Stanley Kubrick, Rob Reiner e Frank Darabont, solo per citarne alcuni, si sono cimentati nella trasposizione di un libro di King, ottenendo in alcuni casi un successo strepitoso, in altri dando una svolta alla propria carriera.

Il primo, nel 1976, fu De Palma che con Carrie – Lo sguardo di Satana, suo secondo lungometraggio, ottenne il passaporto per la gloria, seguito a breve giro di posta da Tobe Hooper che portò in tv Le notti di Salem (1978) e soprattutto da Kubrick e il suo Shining (1980), causa di decennali polemiche tra il regista e King, il quale si è sempre dichiarato contrariato della rilettura cinematografica del suo romanzo.

Partendo da queste basi, ma andando ben oltre, il libro ripercorre le tappe fondamentali che hanno fatto dell’autore americano uno dei più “sfruttati” al cinema, ma che lo hanno visto anche direttamente coinvolto (sua la regia di Brivido così come molte delle sceneggiature di altri film).

 Corredato dalla Prefazione di Stefano Pastor (Il giocattolaio e Figli che odiano le madri, Fazi Editore), dalla filmografia completa e impreziosito dalle interviste al regista Mick Garris (L’ombra dello scorpione, Shining per la tv, Riding the Bullet e altri) e alla protagonista di Cujo Dee Wallace, questo volume racconta la genesi di tutte le pellicole (o serie tv) tratte da opere di King e le analizza dal punto di vista critico.

Da Carrie a Shining, passando per It e Misery non deve morire, fino alla recente serie Under the Dome, il libro si candida a diventare una vera e propria bibbia per gli appassionati che potranno trovare aneddoti, curiosità e analisi critiche delle pellicole kinghiane, vivisezionate in ogni loro piccolo particolare. 

L'AUTORE:
 Marcello Gagliani Caputo è nato a Palermo il 30 ottobre 1974, vive a Roma ed è scrittore, saggista e giornalista pubblicista. Nel 2006 ha esordito nella saggistica cinematografica con ...Altrimenti ci arrabbiamo! Il cinema di Bud Spencer e Terence Hill per la casa editrice Un mondo a parte. L'anno dopo, con Andrea Salacone e Sergio Gualandi, ha pubblicato Bad Boys - La Figura del cattivo nell’immaginario cinematografico per la Morpheo Edizioni e ha partecipato al libro Christopher Lee - Il Principe delle Tenebre, Profondo Rosso Edizioni. Ha collaborato, per Edizioni Il Foglio, al volume Il Cinema di Michael Winner e ha pubblicato, con Roberto Donati, The Fincher Network (Bietti Edizioni), prima monografia italiana dedicata al regista. Nel 2013 ha partecipato al saggio The Walking Dead - L'evoluzione degli zombie in tv, nel fumetto e nel videogioco edito da Universitalia, mentre nel 2014 ha pubblicato l'ebook Zombie al cinema per Fazi Editore.

22 gennaio 2015

“Un tetto per la notte” di Robert Louis Stevenson




di Gianni Quilici

Ci sono dei romanzi o racconti, sui quali scrivere diventa difficile, perché il pensiero più istintivo è tanto semplice quanto frustrante: leggetelo! Leggetelo, perché non ve ne pentirete e non importa se il lettore sia alquanto sofisticato oppure alquanto modesto.

Questo ho pensato dopo aver letto velocemente il racconto Un tetto per la notte di Robert Louis Stevenson, in una edizione forse introvabile “L’argonauta” del 1987, che contiene un altro racconto La porta di Sire di Maletroit, quasi una fiaba,  gradevole come tutto ciò che ha scritto Stevenson, ma di cui si può fare a meno.

Un tetto per la notte è un racconto su François Villon, grande poeta maledetto, vissuto nel secolo XIV, che, arrestato quattro volte per episodi di malavita, e dopo essere stato condannato a morte, riuscì sempre a farsi rilasciare.

Robert Louis Stevenson
Perché, a mio parere, è un grande racconto? Proviamo in modo forse pedante a scomporlo un pochetto, inserendo per motivare il giudizio brevissimi spezzoni, che comunque non dovrebbero togliere per niente il piacere di leggerlo.

Primo: perché è straordinariamente visivo, scorre attraverso i nostri occhi come se fosse un film, in cui paesaggio e vicenda umana si fondono mirabilmente.
Stevenson, infatti, ci introduce subito in una Parigi notturna avvolta dalla neve che cade con “un’insistenza aspra e implacabile” con il vento tagliente che “sparpagliava intorno in mulinelli svolazzanti” con i fiocchi di neve che “scendevano ad uno ad uno, dall’oscurità della notte, silenziosi, turbinanti senza fine” eccetera eccetera.
Il freddo bianco e avvolgente della serata diventa ancora più implacabile, palpabile e assorbente attraverso il poeta, che è costretto a vivere fuori al ghiaccio, derubato, affamato con il rischio di finire congelato come è successo ad una donna su cui era inciampato, rimasta tra la neve “gelata e rigida come un bastone” oppure con la possibilità di venire catturato dalle ronde dei soldati, che giravano a frotte per la città e che avrebbero potuto prelevarlo ed impiccarlo senza tanti problemi, considerando che poco prima c’era stato, tra i suoi compari, un delitto, di cui era stato spettatore.

Secondo: l’immediata, viva e profonda capacità di descrivere ogni personaggio del racconto, anche quelli minori, riuscendo a armonizzare con molta abilità l’aspetto fisico con il carattere e viceversa.
Prendiamo come esempio Don Nicolas, frate della Piccardia “col saio rimboccato e le gambe grasse e nude”.
La sua faccia, gonfia e tumefatta come quella di un bevitore accanito, era coperta da una rete di venuzze congestionate, rosse in circostanze normali, ma ora di un violetto pallido (…) Il cappuccio gli era mezzo cascato giù dalle spalle, e formava una strana escrescenza ai lati del suo collo taurino. Se ne stava così a gambe larghe mugugnando, e tagliava la stanza a metà con l’ombra della sua massiccia corporatura”   
Ma straordinario è soprattutto Villon, ladro e derubato, teatrale e sensibile, orgoglioso e opportunista,  scaltro e angosciato.

Terzo: è infine un racconto di classe, nell’accezione marxista del termine. Alla fine Villon, infatti,  trova ospitalità da un vecchio gentiluomo, in una casa signorile con arazzi eleganti, brocche d’oro, stemma araldico. Qui, mentre sta mangiando e bevendo golosamente, inizia una conversazione che assume progressivamente i caratteri di uno scontro.

Da una parte “il signore  di Bristout, balivo del Patatrac”, come si presenta, orgoglioso dei suoi gradi, fedele a valori come la fedeltà a Dio, la cortesia d’animo, l’onore, la rispettabilità; valori nobili, secondo lui, rispetto ai piccoli bisogni terreni del mangiare e del bere.

Dall’altro Villon, povero maestro di Belle Lettere, ladro, furfante, vagabondo e squattrinato, che però rivendica il proprio onore, perché sa cosa vuol dire soffrire con la pancia vuota.
Gli dice infatti osando criticarlo: “Se l’aveste provata voi tante volte quanto me” - sottintesa la fame- “forse il tono del vostro discorso cambierebbe”; e se non bastasse si pone sullo stesso piano, lui ladro, del gentiluomo pieno dei suoi valori di privilegio. Dice infatti: “ In ogni caso io sono un ladro, ma anch’io ho un mio onore valido come il vostro”
Il gentiluomo non può accettare questo tono e questi contenuti e lo caccia disgustato dalla sua presenza qualificandolo “vagabondo e farabutto impudente”, facendogli, tuttavia strada per un puntiglio d’onore e congedandolo infine con un: “Dio abbia pietà di voi”.

Come si intuisce anche nella sorprendente chiusa Villon non è uno stinco di santo così come il vecchio gentiluomo non è senza pietà e generosità.  Lo scontro, insomma, è ricco di perspicaci sfumature psicologiche e ideologiche.

Robert Louis Stevenson. Un tetto per la notte. Traduzione di  Piero Pignata e Rosa Clot-Tite. L’Argonauta.
Si può trovare anche come Ebook edizione Faligi Editore. 1,99 euro.