11 ottobre 2016

2a postilla a “Psicoanalisi immaginaria di Frida Kahlo” di Riccardo Dalle Luche e Angela Palermo




 Dalla rappresentazione del corpo alla rappresentazione della carne:
abbozzo di una fenomenologia della pittura di Frida Kahlo
di Riccardo Dalle Luche


“(…) la carne in quanto sofferente, informe (…)
 visione d'angoscia, identificazione di angoscia,
 ultima rivelazione del tu sei questo
 – Tu sei questa cosa che è la più lontana da te, la più informe.”
(J.Lacan, Il seminario II, 1954-5)

 Ermeneutica vs. fenomenologia nell’opera di Frida Kahlo

Il libro su  Frida Kahlo, scritto con Angela Palermo,  è principalmente il frutto di un procedimento ermeneutico che mette in luce come nell’ormai celebre artista messicana la vita e l’opera si rinviino l’una con l’altra, in un percorso di ricerca di un’identità che sembra ripetutamente sul punto di collassare ma che, grazie alle risorse creative e di personalità di questa donna straordinaria, si ricostituisce in forme sempre nuove.  Il nostro lavoro ha anche consentito di identificare nell’opera la commistione di elementi consci e inconsci, apparentemente inconciliabili, che sorreggono l’impianto “surrealistico” della sua opera pittorica, per quanto commisto con numerosi altri generi e, soprattutto, diversamente dalla maggioranza dei surrealisti, chiarificabile dal lavoro interpretativo, cioè in buona misura riducibile alla logica del conscio.
Ma  la  forza e la importanza sia estetica che euristica dell'opera di Frida può forse esser colta anche ad un livello del tutto superficiale, che non necessita di alcuna interpretazione, quello della rappresentazione esplicita di vissuti corporei estremi (fisici e emotivi), riferibili immediatamente ad una integrità fisica e psichica in bilico sulla catastrofe dello smembramento (sia corporeo che affettivo): insomma,  nella soluzione insolita, anche se non del tutto inedita,  di rappresentarsi non solo come corpo, come avviene in qualsiasi autoritratto, ma come corpo e carne.
 Senza questo peculiarità espressiva  Frida  sarebbe stata assimilabile ad  una  delle migliaia di artiste del mondo intero che, soprattutto negli ultimi centocinquant'anni,  con risultati spesso eccellenti, si sono soffermate sul ritratto, l'autoritratto e la rappresentazione del corpo femminile, senza con questo volerne oltrepassare i limiti esteticamente fruibili. La pittura di Frida, invece, non è diventata celebre in virtù delle qualità estetiche, minori, ad esempio, rispetto ai quadri del celebre marito, Diego Rivera, molto più belli dei suoi, ma anche molto più scialbi, perché privi di spessore, di significato (se non ideologico e propagandistico), e soprattutto privi del potere che l'arte di Frida ha in massima misura: la capacità di stupire, di inquietare, di perturbare, di farci soffermare a riflettere. Questa qualità essenziale della pittura di Frida deriva dal fatto di introdurre così spesso, soprattutto nei momenti emotivamente più difficili della sua vita,  la rappresentazione del proprio Sé lacerato, smembrato, proprio attraverso la commistione della rappresentazione del corpo e della carne. Vedremo in dettaglio nei vari quadri come ciò avviene. Diciamo però subito che tre sono le modalità di Frida di rappresentare la carne:
a)      la prima è quella di dipingere e mostrare le parti corporee connesse alle funzioni vitali e alla riproduzione della vita , che di regola sono mantenute fuori scena (sono “oscene”) ed estranee alle finalità dell'estetica, tanto che quando compaiono in superficie determinano l'imbarazzo dello sguardo dell'osservatore, se non la ripugnanza, come è accaduto e tutt'ora accade a quadri perturbanti come L'origine del mondo di Courbet,  alle foto degli organi genitali di  Mapplethorne,  ai sessi femminili giganteschi di Mattia Moreni;
b)      il secondo modo è quella di mostrare gli organi del corpo, cuori, arterie, sangue,  colonne vertebrali, bacini, uteri con feti, con una precisione anatomica e naturalistica impeccabile ma disgiunta totalmente da finalità conoscitive o didattiche mediche; questi organi interni sono incongruamente visibili alla superficie corporea, oppure sono completamente distaccati e dislocati dal corpo a cui appartengono, sia fisicamente che nei loro significati simbolici;
c)        una terza apparizione della carne in Frida, in due quadri appartenenti a due periodi diversissimi, è quella legata all'alimentazione carnivora, carni morte o già in putrefazione: nel primo quadro (Il mio vestito è appeso là, 1933 ) questa massa sanguinolenta ed informe appare in un bidone dell’immondizia ad indicare l’opulenza società americana  (rispetto .a quella messicana), e destinata allo spreco e all’evacuazione (in questa direzione va il modernissimo w.c. sorretto dalla colonna).



Nel secondo (Senza speranza, 1945), relativo al periodo di anoressia e depressione sofferti da Frida, la stessa massa, nella quale si riconoscono teschi, polli, sfilze di salsicce, pesci morti, brandelli di carne informe che stravasano dall’enorme imbuto infilato nella sua bocca, è un’iperbole dell’alimentazione forzata e del vissuto dell’anoressica, per la quale gli alimenti non sono fonte di vita ma di ripugnanza e orrore, oggetti fobici : un quadro che in una sola immagine compendia tutti i vissuti dei soggetti  che oggi si curano per i  cosiddetti disturbi alimentari, anoressie di varia natura e/o  forme di restrizione alimentare vegetariane, vegane o ortoressiche.



Abbozzo di una fenomenologia della carne

Se la fenomenologia del corpo ha una sua ricca tradizione novecentesca, generata da Husserl e dai suoi discepoli, basata  sulla  distinzione spesso poco chiara e banalizzata tra corpo soggetto/corpo persona/ corpo proprio (Leib), e corpo oggetto/corpo cosa/corpo fisico (Körper) (Galimberti), molto più scarna, ci sia scusato il gioco di parole, è la letteratura fenomenologica sulla carne.    Tolto Michel Henry, che, sulla scia di Husserl, Sartre e Merleau-Ponty,  tenta di impostare un discorso rigorosamente fenomenologico dell'incarnazione, anche in senso religioso, ho trovato rilevanti riflessioni sulla carne soltanto in un autore eccentrico, un neurologo e uno psichiatra, sia pure di rigorosa formazione fenomenologica, come Lorenzo Calvi, e in alcuni spunti di Lacan e dei suoi epigoni tardivi come Giancarlo Ricci. In occidente il pensiero sulla carne ha comunque due, fondamentali e vetuste radici: quella cattolica e quella anatomica e organicista (entrambe ben presenti nell'opera di Frida Kahlo), che spesso si introducono occultamente o implicitamente in molti dei discorsi dedicati al corpo.
Calvi osa timidamente, in una nota ad un suo scritto, esternare il suo pensiero definitivo sulla carne come  “terza epifania della corporalità”,  accanto al corpo oggettivo, anatomico e organico ( Körper) e al corpo soggettivo o corpo vissuto (Leib): del primo ha l'anonima, del secondo l'irrealtà: “Sul piano eidetico, la carne è l'intuizione del magma fecale e viscerale. Sul piano ontologico, è lo stato originario, preintenzionale e pretematico del corpo, di cui, nella cultura occidentale, conosciamo la tematizzazione della tradizione giudaico-cristiana con tutto il suo correlato di impurità e di pesantezza, di peccato e di colpa. Nei disturbi mentali si ha consumo del Leib a opera della carne”, mentre,  potremmo proseguire noi,  nelle malattie fisiche principalmente si ha consumo del Leib ad opera del  corpo fisico (Körper): si ha, cioè, la consunzione del corpo perché l’organismo è malato. Se il Körper, cioè, è qualcosa di ben identificabile, secondo l’ottica meccanicistica, la carne è  “informe”, “un brandello di materia che vive da sé”, “un organo senza corpo” (Ricci), e si sottrae quindi ad un logos scientifico ed è piuttosto il frutto di una riduzione fenomenologica, immaginaria, attuata dal  soggetto, sulla base di ciò che “sente”, “percepisce” (nel piacere e nel dolore), ma che non sa e non può definire.
Se la proprietà del corpo/Körper , oggetto immediato ed esclusivo dell’attenzione e dell’opera della maggioranza dei medici, è quello di “funzionare” (ad esempio avendo organi sensoriali integri), quello del Leib è di “provare” in modo preciso o comunque definito, quello della carne è di sentire, godere, dolere in modo diffuso, difficilmente definibile e non memorizzabile (non mentalizzabile): i godimenti viscerali, ad esempio quelli sessuali, sono maggiori, nella loro oscurità, di quelli della pelle e del gusto, i dolori viscerali sono molto più insopportabili di quelli cutanei o degli arti, proprio per la loro mancanza di localizzazione precisa, di identificabilità. Fenomenologicamente infatti, scrive Henry, “la carne si lascia descrivere come carne affettiva –non essendo che quella, una carne vivente che sente e prova se stessa in un’impressionabilità e una affettività consustanziale alla sua essenza” (p. 174). Se per i mali del Körper  ci si può rivolgere ad un medico, per quelli del Leib  si sanno cause e motivi,  i piaceri e i dolori della carne  non si possono che  subire. E’ per questo potenziale di spossessamento della volontà e dell’identità, di definibilità e trasparenza, che la carne è così regolarmente fonte di angoscia ed entra o alimenta così prepotentemente in quelli che definiamo “disturbi psichici”.
  Vi è poi un livello “intermedio” di manifestazione della carne, là dove essa si affaccia alla superficie del corpo (cavo orale, genitali e ano), creando le cosiddette zone erogene. Si può dire che l'intera fenomenologia dell'amore potrebbe fondarsi su questa proprietà della carne di manifestarsi all’esterno e di sentire in virtù della presenza di un altro che, per la sua capacità di far(si) sentire, può diventare l'Altro, unico e insostituibile: l’amato. Non a caso detti e precetti tradizionali e religiosi indicano nella “comunione della carne” l’essenza del matrimonio, nei “peccati della carne” l’oggetto del vizio capitale della lussuria, della “compatibilità del sangue” l’essenza di un’unione sessuale felice. D’altro canto quando, per un traumatismo, l'involucro cutaneo si lacera, compare quella che il linguaggio comune chiama “la carne viva”, proprio per metterne in risalto l'estrema sensibilità. Se la rappresentazione delle ferite e del martirio ha tutta una sua tradizione nella pittura sacra (martirio di Cristo e dei Santi), ed anche nella importante quanto poco valorizzata tradizione degli ex voto, tutti gli aspetti carnali dell’amore, oltre ad essere stati per millenni identificati come elementi di impurità e di interdizione da buona parte delle religioni, appartengono alla sfera dell’”antiestetico” (Ricci) , dell’osceno, del non guardabile, del non rappresentabile; sono proprio questi infatti i soggetti che indicano il limite tra rappresentazione artistica e rappresentazione pornografica (che da questo punto di vista può essere considerata un tentativo disperato di padroneggiare il potere angoscioso della carne).
Come si è detto, invece,  la carne, gli organi interni, gli organi genitali e il sangue fanno la loro apparizione impudica e assolutamente naturalistica nei quadri di Frida Kahlo in entrambe le sfere: quella sessuale/sentimentale (sfera del sentire piacere o mancanza di piacere o della mancanza tout court) ed in quella delle lacerazioni traumatiche (sfera del sentire dolore), a partire dai due quadri che si riferiscono all’aborto del 1932 (Il letto volante e Frida e l’aborto), in particolare il primo dove gli organi interessati all’aborto sono estroflessi al corpo sanguinante di Frida come connessi da fili-capillari.

 Ne La mia nascita, dipinto dopo l’aborto e la morte della madre, Frida partorisce se stessa adulta in una  rappresentazione cruenta e veristica del parto, forse la prima nella storia dell’arte.
 L’estroflessione degli organi, ad esempio del cuore, in Memoria del cuore del 1937 è in altri quadri connesso ad un’imago corporea ridotta alle semplici vesti , ad un uro simulacro vuoto, privo di ogni interiorità, privo di carne.


  Ne Le due Frida entrambe hanno il cuore ben in mostra al centro del petto, ma uno è integro, l’altro è sezionato in due cosicchè la seconda Frida è tenuta in vita da una sorta di circolazione extracorporea che parte dalla prima e può solo pinzettare un’arteriola per evitare la definitiva emorragia.


 Il sangue cola dai soggetti dipinti fin sopra le cornici sia in Qualche colpo di pugnale (1935) che ne Il suicidio di Dorothy Hale (1938-9). Nei bellissimi , tardivi disegni, Autoritratto come una vulva (1947 e Il fenomeno imprevisto (nel Diario) sono invece i genitali a proporsi in primo piano: in particolare nel primo, si propone una totale identificazione del Sé col il proprio sesso, la propria carne, il proprio sentire, la propria Natura. Infine, è nel celebre La colonna rotta (1944) che Frida si mostra ancora una volta come mero sembiante corporeo vuoto, sostenuto da una colonna vertebrale/colonna dorica, spezzata.
Si può quindi dire che, accanto ai molti autoritratti nei quali, pur nel contesto di simbologie e allegorie, sono il corpo o il volto ad essere al centro della rappresentazione, inserendosi a pieno diritto nella tradizione della ritrattistica, sono molti i quadri in cui questa tradizione viene rivoluzionata, perché la rappresentazione del corpo va di pari passo con la rappresentazione della carne, o, come nel caso dei simulacri vuoti, della sua assenza. Si può dire che i confini corporei di Frida appaiono o permeabili, o trasparenti, o svuotati di ogni consistenza, in un gioco espressivo che mostra, appunto, la centralità, se non il ruolo sovrastante, che la carne ha nella sua vita a sostegno o, al contrario, a minaccia della sua identità. La carne è, fenomenologicamente, l’a-priori del soggetto (Calvi), ma la carne di per sé non ha soggettività, è assenza di soggetto (Ricci). In quanto tale è la minaccia maggiore all’identità soggettiva alla quale possono andare incontro gli esseri umani dopo un trauma o per una malattia (anzi si può dire tout court che la percezione della carne è traumatica, e per questo mette in marcia tutta una serie di disturbi ansiosi, fobici, ossessivi, post-traumatici), ma, come nel caso di Frida, è anche la risorsa attraverso la quale ri-soggettivarsi, ripartendo dalla matrice informe ma vitale del Sé: ad esempio attraverso il sesso, com’è successo a Frida e come ampiamente diciamo nel capitolo del libro sull’immaginario post-traumatico.

Frida Kahlo e la tradizione della carne nell’arte

E’ chiaro che l’aver intrapreso gli studi medici e aver studiato anatomia (progetto fallito solo per l’evenienza dell’incedente, dal quale Frida è uscita con l’identità di pittrice), non può non aver influenzato queste particolarità espressive. Del resto, a parte la tradizione rappresentativa del martirio di Cristo o dei Santi, ed il breve periodo della moda delle nature morte con animali morti e pezzi di carne, è proprio in campo medico che si è avuta la rappresentazione para-artistica della carne, sia pure attraverso la mediazione del corpo/körper, ad esempio negli atlanti di anatomia ma, soprattutto, nei preparati anatomici in cera , veri capolavori artistici sia pure con finalità didattica, realizzati tra il 1775 e la metà dell’ottocento da vari modellatori come Clemente Susini, che si possono ancora oggi ammirare ad esempio al Museo di Scienze Naturale di Firenze. Ancor prima il maestro ceroplasta Zumbo aveva immortalato i cadaveri degli appestati e i pittori olandesi dipinto le dissezioni anatomiche (Rembrandt: La lezione di anatomia  del dottor Tulp, 1632 e quella meno nota “del dottor Leyman “, 1656; ma anche Michiel van Mierevelt, la Lezione di anatomia del dottor Willem van der Meer 1617), nelle quali alla rappresentazione del corpo del cadavere si affianca la rappresentazione degli organi dissezionati, della carne di cui è fatto il corpo.


Contrariamente al tema dei cadaveri e nei morti che non ha mai cessato di avere i suoi cultori anche nell’800, tra i quali anche il Courbet autore di L’origine du monde (Lopopolo 2016), la carne ha trovato di nuovo la possibilità di esprimersi nella grande arte solo nel ‘900, ad esempio nell’opera di Herbert Boeckl, che negli anni ’30 riprende i quadri sulle lezioni anatomiche in chiave moderna, esaltando gli aspetti più raccapriccianti,

 oppure in Sex murder, di Otto Dix, così simile a Qualche colpo di pugnale di Frida Kahlo,


 Vicino a certe opere di  Frida, possono essere considerate alcune figure di Francis Bacon, nelle quali la deformazione del corpo allude all’esposizione della carne oppure dei tratti animali del corpo,  come nei Tre studi per la crocifissione (1962), nei quali, in una sorta di escalation, si passa dalla rappresentazione dei corpi a quella della carne sanguinolenta ed infine ai pezzi di macelleria.

Last but not least dobbiamo solo ricordare, ma questo aprirebbe tutto un altro discorso, come la carne abbia una sua importantissima rappresentazione nella storia del cinema, non solo perché è alla base del sottogenere splatter (che significa spargere sangue) del genere horrror, ma anche perché più di recente anche autori importanti come Cronenberg, Greenaway, Lars von Trier e Kim Ki-Duk in varie loro opere hanno voluto recuperare la potenza estrema del dolore e del piacere della carne per “far sentire” allo spettatore cinematografico, per la prima volta, il potere della visione di immagini  verso le quali normalmente tutti noi ci difendiamo drasticamente.
 In Frida, cha a questo punto dobbiamo considerare un’antesignana anche su questo punto, la rappresentazione della carne è connessa intimamente alla rappresentazione di sé e dei propri vissuti, del corpo, delle funzioni e dei vissuti delle donne, di tutte le donne; il carattere perturbante delle sue apparizioni è in qualche modo addolcito dal percorso di decifrazione ermeneutica, che le individua come basi corporee di un ragionamento che si potrebbe anche definire, in senso lato, fenomenologico o, forse, filosofico tout court; ed è questo che fa della sua opera un unicum, non solo nel campo della storia dell’arte, ma anche della fenomenologia del corpo.


Bibliografia:
Calvi L.: La carne, la scelta, l'epoché. In: Calvi L.: La coscienza paziente, Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2013, pp. 33-43.
Galimberti U. (1983): Il corpo.- Freltrinelli, Milano.
Henry M.: Incarnation. Une philosophie de la chair. Seuil, Paris, 2000.
Lopopolo D.: La morte nell’arte. Astenersi impressionabili. http://www.spettakolo.it/2016/03/28
Ricci G.: Il corpo e la carne. Sui disegni di Francesca Magro. www.giancarloricci.net/il-corpo-e-la-carne/ 2016




08 ottobre 2016

Leggendo "Psicoanalisi immaginaria di Frida Kahlo" di Riccardo Dalla Luche e Angela Palermo





di Lucia Del Sarto

Grazie agli autori, Angela Palermo e Riccardo Dalle Luche, per il viaggio che mi hanno portata a fare dentro di me.
La vita non è solo esteriorità, è sopratutto interiorità, per essere poi...esteriorità.

Frida kahlo....
Dai colori sgargianti e da quell'espressione magnetica e penetrante, quanto distaccata.
Forze contrapposte giacciono in lei da renderla tanto fragile quanto forte, in quella espressività viva che non aspetta altro che essere riversata al di fuori di sé.
Un corpo torturato dal dolore, dalla sofferenza, fa da contenitore a energie vitali spumeggianti, quanto demoralizzanti.
Una Vita piena di Contrasti di alti e bassi, di amore e di odio, di ombre e di luce, di colore, tele, ritratti di pezzi di vita.
Quella vita sentita e goduta, con quella necessità di maternità andata più volte non a buon fine, da smorzare quell'energia quasi mascolina, acuta e penetrante.
Avere in grembo un figlio di Diego  era forse per lei come possederlo appieno.
Per poi, chi sa, alla nascita vederlo come una sua estensione, da renderla appagata e rassicurata per sempre.
Tutto era visto in relazione al suo amato diventandone parte, come un radicarsi nell'altro... per questo sofferente ad ogni suo allontanamento, da sentirsi un nulla.
Quel nulla che poi alla fine diventa tutto.
Vivere in relazione dell'altro, ma anche amori passionali per entrare sempre più in contatto con quella parte forte e sana, che la renderà in seguito più libera. Rovesciando i ruoli dei due protagonisti.


Tutto ciò che accade nella vita ha un suo significato, anche se a volte non lo comprendiamo.
Lei è riuscita a far tesoro di tutto il suo vissuto senza rimpianto, e a trasformarlo in potenzialità.
Ogni cosa portata all'extremis, come essere legata a un doppio filo da non riconoscere più la sua vera natura, confondendo quella linea che separa il sonno dalla veglia, il giorno dalla notte, il bianco dal nero.
Un viversi attraverso la grande personalità di Diego, standogli al fianco per inondarsi, e colmare quei vuoti che, se non fosse stato così, forse, non sarebbe stata in grado di far uscire tutta la sua originalità, tutte le sue sfaccettature portate fino all’esasperazione.

E lei dove era...
Forte e fragile...
Nella sofferenza ci si focalizza ancor di più nella situazione, identificandoci a tal punto da non vedere e riconoscere l'opportunità di intravedere la propria zona di ombra, accettandola.
Il trauma avrà fatto questo, avrà riportato in luce in lei questa parte che gridava di esser vista e vissuta?!...anche se in modo forzato dovuto allo shock subito...non so, pensieri che vagano ad alta voce.
Sarà da tutto ciò che è scaturita quella forza e intelligenza acuta ed emotiva, che le ha permesso di riprendere in mano totalmente se stessa, anche attraverso i suoi dipinti.

Si parla di punto zero, di un nuovo inizio, di un ricominciare, di  un nuovo punto di partenza dato dal trauma, dalla lunga sofferenza imposta e forzata dallo stato fisico.
Un po' come dovrebbe capitare nella vita davanti alla sofferenza. Ci dovrebbe essere sempre qualcosa da comprendere, da imparare, se no, la sofferenza di per sé non avrebbe ragione di esserci...a parte quella fisica.
Un nuovo rivedersi...chi sa se inconsciamente volesse proprio questo.
 

E quando non riusciamo coscientemente a realizzarlo, l'esistenza mette in moto per noi eventi anche disastrosi, in modo che prendiamo coscienza sul da farsi.
E come leggiamo nel libro, lo star bloccata nel letto può dare la possibilità di vedere e rivedersi, riflettere per rinnovarsi.
Rinnovamento forse portato all'estremo per le sue condizioni fragili precarie, facendole pensare che la vita è una, e breve....da rincorrerla quella vita, assaggiarla in tutte le sue parti, con tutta se stessa, e oltre...
L'insegnamento di vita sarà forse questo.  Distaccarsi dalla manipolazione e dai bisogni per colmare vuoti affettivi.

Che cosa è, infatti, la vita se non un alternarsi di alti e bassi, per poi ad un tratto trovarsi in quel mezzo che chiamiamo equilibrio, dove giace la saggezza di colui che sa, che si è lasciato vivere e morire più volte.



07 ottobre 2016

"Psicosi delle 4.48" di Sarah Kane diretto da Giorgia Filanti e Enrico Morcacci




di Silvia Chessa

Giorgia Filanti ha debuttato, con il testo Psicosi delle 4.48 (di Sarah Kane), diretto da lei stessa con Enrico Morcacci, il 19 Settembre, al Teatro Lo Spazio, di Roma.

Sull'opera di Sarah Kane, è doveroso spendere due parole, per coloro che, come me, non la conoscevano abbastanza bene fino ad oggi (o non la conoscono affatto), malgrado la sua diffusione ed i riconoscimenti ufficiali che ne attestano la grandezza e specificità.

Sarah Kane, scrittrice e drammaturga britannica, è autrice di cinque testi teatrali, dei quali, questo, "4.48 Psychosis", è, a buon diritto, considerato il suo testamento spirituale ed è, di fatto, un sogno-delirio incubo dove si assaporano e si scandagliano le sue visioni, fobie, allucinazioni .. quelle di un'anima devastata e di una mente dissociata con lampi di rovente lucidità.

Poemetto dolorosissimo, dunque, e massacrante che suscita di solito reazioni estreme, in quanto è pertugio aperto sulla sensibilità di Sarah ma, in generale, sul panorama contemporaneo della psicosi (Sarah Kane è morta, suicida, a 28 anni, nel 1999).

In questa opera ella ci appare ora bambina, vulnerabile, indifesa, preda di autoaccuse, ora rabbiosa e violenta come una erinni, protagonista di un attacco al mondo delle convenzioni, delle falsità. - (“Ti ho creduto, ti ho amato,  non è perderti che mi addolora,quanto le tue fottute stronzate mascherate da annotazioni mediche”)-,  e degli orrori vari ("il fantasma maligno della morale comune"); orrori che forse uccidono più delle private delusioni alle quali non sappiamo dare soluzione o convivibilità ("sono un fallimento come persona", "sono colpevole", "vengo punita") e di certo acuiscono lo stato di estrema sofferenza di un'anima che già patisce di suo (l’abbandono da parte della persona amata… l'estenuante ricerca della figura paterna che, pur assente, la compenetra e le è dentro, e non solo geneticamente o epidermicamente: c'è senza liberarla, trasuda e impregna l'aria ma senza averla mai abbracciata, cercata, protetta, inclusa nei suoi pensieri di padre vacante, ma dalla figlia inseguito, interrogato in interiori dialoghi e domande..).

Si trapassa, con la spada insanguinata di parole acuminate, e si radiografa, la Kane, coi suoi occhi aguzzi e mordaci, in questo funesto testo. Poi, elegge il suicido, e muore. Muore in un momento di massima energia e forza vitale - (“la pollastra balla ancora, la pollastra non si ferma”). Forza che pervade le sue alte grida a se stessa, frutto di un ego auto-ostile, e parimenti grida al mondo, altro da sé ma altrettanto deludente, falso ed ostile.

Massima vitalità, dunque, ma, allo stesso tempo, l'apice del negazionismo esistenziale, radicale rifiuto delle convenzioni e manipolazioni del mondo in generale e della scienza psichiatrica, in specifico (che le ripete come un mantra, senza beneficio, il trito e ritrito "non è colpa tua", oppure le prescrive veleni farmacologici atti ad ottunderle la mente)

Nella versione teatrale proposta da Giorgia Filanti, sotto la direzione di Enrico Morcacci, la scenografia si presenta essenziale, quasi di beckettiana memoria, utile ad convogliare il fulcro dell'attenzione nel cuore del dramma.

Il senso di inquietudine, cifra marcante dell'opera, è suscitato con immediatezza acustico-visiva mercè la proiezione integrale del video del brano Chandelier, di Sia, laddove estetica e contenuto (immagini, musica e testo) che evocano perfettamente spettri, abusi (one two drink..)  ed arcaiche paure inscenate dalla prodigiosa talentuosità di una danzatrice bambina, la quale, come un folletto impazzito, esplode il suo talento in una ambientazione tetra e claustrofobica, potendo, altresì, vantare una espressività mimico-facciale impressionante. Impressionante come ogni elemento di questo video, scelto magistralmente per introdurre lo spettacolo.



Nel corso della sua ottima performance, Giorgia ha caricato di rabbia la rabbia, di dolore il dolore, di provocazione ogni provocazione, assumendo in sé e scandendo ogni sillaba di un testo già forte che trasuda traumi e sofferenze, ma anche punte di raro humour noir. -(“Non mi sono mai uccisa prima quindi non cercate precedenti.”)
Ha speso largamente ogni sua energia fisica, anche con ripetute corse attorno al pubblico (additato, accarezzato ..coinvolto senza filtri e reso partecipe fino all'inclusione nell'opera stessa); e, levandosi di dosso ogni pudore o riserva, ha svestito ed incarnato rabbia e disperazione, allargando lo sguardo in fissità deliranti accecate di lucida follia..

Affronta  di petto la questione. E la questione è: l'impossibile fondersi di anima e corpo, malgrado il loro essere intrinsecamente connessi. La decisione di congedarsi dalla esistenza e dagli altri (espressa in parole, parolacce,  gesti estremi e finali ..) mista alla richiesta, urlata, di essere, dagli altri, vista, guardata. Cosa che significa essere accettata, riconosciuta, amata.

-"Vaffanculo, vaffanculo, vaffanculo per rifiutarmi non essendo mai lì, vaffanculo per farmi sentire una merda, vaffanculo per dissanguarmi di vita e d'amore, vaffanculo a mio padre per avermi distrutto la vita, e vaffanculo a mia madre, per non averlo lasciato, ma più di tutti, vaffanculo dio, che mi costringe ad amare una persona che non esiste"-
..e poi..
-"Guardatemi scompaio
Guardatemi scompaio 
Guardatemi
guardatemi
guardate"-

L'umanità, oggi e sempre, è piena di creature sofferenti, malate nella mente oppure nel corpo, ove mai si riuscisse a scinderli, creature, come la Kane, di acuta sensibilità, le quali stanno scomparendo, ma, finché  non lo sono, credo ci chiedano di non essere invisibili, giacché l’invisibilità è morte peggiore di quella corporale, bensì di essere viste, guardate, fissate bene, tenute a mente.

Il teatro, sede di catarsi per eccellenza, rende possibile la catarsi dello sguardo proprio nell’altrui e tangibile la metamorfosi della malattia, del singolo, e della società (individuo e società che sono connessi, anch’essi, come corpo e mente, ed, attualmente, sono ammalati entrambi).

La malattia trasforma il corpo di una donna-emblema del male di vivere e della società sconfitta, lo raggomitola, lo atterra, lo ingabbia nei suoi deliri kafkiani, nel suo proiettarsi immaginificamente in uno scarafaggio
-         “Come se fossi scivolata come uno scarafaggio sugli schienali delle loro sedie” - , poi ne attacca la mente, vi si insidia come un tarlo, la percuote, la scuote febbrilmente..ma non del tutto, se quella mente, colpevolizzata dalla società (che nega lo sguardo per dirigerlo altrove, vergognandosi dei suoi membri, meno belli e sani, o cerca di acquietarli con false paroline, vuote di vera comprensione), ancora si concede di disquisire e puntualizzare le differenze fra similitudine e metafora, suscitando in noi rispetto e tenerezza.

Come lo suscita ogni apparente incongruenza o corto circuito emotivo.. la razionalità che rema nel naufragio dell'irrazionale. 



Una performance teatrale, quella di Giorgia, coraggiosissima e viscerale, che lascia giustamente scioccati  (come si dovrebbe prefiggere chi resuscita e rianima quest'opera), benignamente 'disturbati'.

Forse, se si vuole trovare un motivo di perfettibilità alla  sua resa, avrei voluto assistere ad un grammo di malinconia, ad un millimetro di cedimento, ad un barcollio della schiena, un bisbigliato,  un impaccio imprevisto o disagio del corpo (che è tonico, tutto nervi e scattosità come nel testo-testamento è esposto con smaccata autoironia -"la pollastra ancora balla"- ..ma sappiamo anche che sta destinandosi a scomparire...ed io lo avrei decomposto, argentato, insomma trasfigurato per un attimo..); questo accorgimento avrebbe alluso ad una vecchiaia precoce, che poi sarebbe la stanchezza del cuore, altro caposaldo dell'opera, o il traballare di una volontà che sebbene granitica è pur sempre umana dunque scalfibile,  come ineffabile e tremante è il dolore
-“tremo senza ragione e inciampo nelle parole e non ho nulla da dire sulla mia "malattia" che in ogni caso consiste semplicemente nell'essere consapevole che nulla ha senso perché sto per morire”-

Ecco,  forse, qui per rendere appieno tutta la gamma delle emozioni coinvolte in questa tragedia contemporanea e struggente, da togliere il fiato, ed al fine di ottenere un coinvolgimento totale e fatale, toccando tutte le corde del pubblico, poteva bastare un incrinarsi della voce dell’attrice protagonista..o qualcosa di tenero, vago ed incerto, atto a tradurre, in atto, e compensare, ogni eventuale manchevolezza o intraducibilità di un testo come questo, che si potrebbe al limite anche considerare come un’opera compiuta ma mai rivisitata in quanto, essendo appena precedente alla morte dell’autrice, non poté essere oggetto di perfezionamenti o rimaneggiamenti, da parte dell'autrice stessa.

Piccoli accorgimenti, semmai, da inserire in una lodevole interpretazione, che ho trovato appassionante e coinvolgente, quasi spericolata, nel tuffarsi e condurci, a picco, nel vortice  di delirio e dolore.  
   

05 ottobre 2016

L'industralizzazione in Lucchesia 1880 - 1901 di Francesco Petrini

di Luciano Luciani

Libro di grande interesse storico questo Aspetti dell'industrializzazione in Lucchesia 1880 - 1901. Il volume, risultato della rielaborazione e dell'arricchimento documentario di un saggio dallo stesso titolo apparso trent'anni fa sul n. 5 di "Documenti e studi", semestrale dell'Istituto Storico della Resistenza di Lucca, mantiene tutti i caratteri che ne determinarono, allora, il generale apprezzamento. Soprattutto il fatto che ricerche di questo genere erano - e sono rimaste – piuttosto rare. A metà del secolo scorso si contavano sulle dita di una mano gli autori che avevano affrontato i contenuti, i processi e i protagonisti della rivoluzione industriale italiana: Corrado Barbagallo, Le origini della grande industria contemporanea (1750-1850)), 1929-1930; Roberto Tremelloni, Storia dell’industria italiana contemporanea. Dalla fine del ‘700 all’Unità, 1947; Antonio Fossati, Lavoro e produzione in Italia dalla metà del secolo XVIII alla II guerra mondiale, 1951  e, il più famoso di tutti, Rodolfo Morandi, Storia della grande industria in Italia, 1959: studi di storia economica che si erano poi riversati nella ricostruzione e interpretazione della nostra vicenda nazionale unitaria,  con i lavori di Gerschenkron, Caracciolo, Cafagna,  Romeo...

Sugli esordi della rivoluzione industriale di Toscana, aveva cominciato a lavorare fra la fine degli anni Cinquanta, lo storico marxista Giorgio Mori, che non aveva mancato di cogliere l’importante novità industriale-capitalistica rappresentata dallo Iutificio di Emanuele Balestrieri: “un grandioso stabilimento” lo definisce il Mori, che occupava un’area di 150.000 mq, di cui 20.000 fabbricati che dava lavoro alla fine dell’Ottocento a circa 1500 addetti alla filatura e alla tessitura, con l’istallazione di 10.000 fusi e 300 telai meccanici: una grossa novità, non solo sul piano provinciale e regionale, ma anche nazionale. Non va dimenticato, infatti, che in quel periodo, gli anni Ottanta del XIX secolo, la quasi totalità delle industrie tessili presenta - e presenterà ancora per alcuni decenni - caratteri spiccatamente agricoli. Manifatture importanti come quelle della seta e della lana, sono ancora frazionate in migliaia di piccole aziende domestiche con impianti artigianali e modi di lavorazione patriarcali; sono sparse nella campagna e sono servite da contadini divenuti solo occasionalmente operai e il lavoro artigianale-industriale è percepito come accessorio e pronto a essere disertato non appena le attività agricole e i lavori campestri lo richiedano.


Cogliamo meglio, quindi, tutto il peso e tutte le novità dell’iniziativa economica del Balestreri, così ben raccontata da Petrini che divide il suo lavoro in due parti: ”Vita e opere di un imprenditore”; “Aspetti della condizione operaia nel Comune di Lucca”.
 

Partiamo dal primo punto.
Chi è Emanuele Balestreri? È un uomo del Risorgimento, di seconda generazione risorgimentale; troppo giovane  per la poesia, del nostro processo di unificazione nazionale - il ’48 ; il ’59, la spedizione dei Mille - in età, però, per la prosa risorgimentale: il difficile avvio dell’Italia unita; la dolorosa presa di coscienza dei suoi numerosi e gravi problemi: la questione meridionale; la questione sociale; la questione cattolica…


Genovese, volontario in marina a 20 anni, Balestreri torna claudicante dalla III guerra d’indipendenza. Liberale crispino, appartiene a quell’area politica che aveva abdicato rispetto alle aspirazioni repubblicane per abbracciare la monarchia e che, dopo  il passaggio del potere della Destra alla Sinistra storica, era arrivata al governo del Paese, che avrebbe mantenuto sino al marzo 1896, all’indomani della tragedia di Adua con le definitive dimissioni del Crispi. Il tempo dello statista siciliano coincide, più o meno, col tempo dell’esperienza dell’imprenditore genovese e della sua avventura industriale a Lucca. Alcuni caratteri li accomunano: entrambi spregiudicati nei rapporti economici e politici, tutti e due autoritari e dirigisti costituiscono un mix di nuovo e di vecchio. Balestreri realizza un’azienda all’avanguardia per la modernità degli impianti (quattro motrici per fornire energia all’intero stabilimento; una lavorazione a ciclo completo, la luce elettrica per il lavoro notturno), ma vive con disagio tutti i vincoli propri di un rapporto col territorio e più in generale l’intero sistema delle relazioni politiche, sociali, culturali col Morianese e con Lucca. Per esempio, quando ha bisogno dell’acqua per le sue attività industriali, in maniera del tutto unilaterale se la prende, togliendola all’agricoltura e ai contadini della zona, dando vita così a un interminabile contenzioso col territorio, i suoi abitanti e i suoi rappresentanti. Una polemica insanabile che finirà per logorarlo anche presso i suoi stessi colleghi, quegli industriali lucchesi, che non lo amano granché e che hanno accettato,  obtorto collo, la presenza della sua manifattura: un’industria che per le sue esigenze produttive disfaceva e non poco vecchi equilibri, ne produceva e fondava di nuovi, creava interessi diversi da quelli tradizionali e consolidati. Profondo il sentire ant-Balestreri di  larghi strati del conservatorismo e del moderatismo lucchesi che, infatti, non permetterà mai all’industriale genovese di intraprendere una significativa carriera politica. Né va meglio a Balestreri l’impresa di rendere Ponte a Moriano una “città-sociale”, sul modello di quelle realizzate da un altro industriale del tessile, Alessandro Rossi, proprietario della Lanerossi che nel Veneto, a Schio, modifica addirittura la struttura urbanistica della città; costruisce nuovi quartieri abitativi per gli operai e impianta strutture sociali - asili nido per i figli delle lavoratrici; scuole tecniche; un teatro, ben quattro linee di collegamenti ferroviari con i paesi vicini per la mobilità dei lavoratori - che trasformano  la cittadina in uno straordinario polo industriale centro del progetto filantropico-paternalista del Rossi.
Ben più modesti gli interventi sociali del Balestreri a Ponte a Moriano: le abitazioni operaie dette “Le Torrette” a Ponte a Moriano; una Società operaia di mutuo soccorso con pochi operai, però, e tanti maggiorenti a presiederla; una Scuola serale per i figli dei soci; una discussa Cooperativa di Consumo tra gli operai e gli impiegati della fabbrica. Niente di paragonabile, forse anche perché estranea agli orizzonti ideologici dell’industriale genovese, all’esperienza totalizzante e interclassista di Rossi nel Veneto.


In questa prima parte del lavoro, Petrini, sta bene attento a mantenere le giuste distanze dal Balestreri: non ci si identifica, come accade spesso in tante biografie e a non pochi biografi che di sovente finiscono per “innamorarsi” del personaggio oggetto di studio. A Petrini, con l'industriale genovese, non succede: di lui conosciamo le luci, le ombre e anche le zone più in ombra: la sua passione per le donne; un temperamento impulsivo che non disdegna le reazioni violente ai torti, veri o presunti, subiti. E, per meglio delinearne il carattere e la percezione diffusa di questa prorompente personalità, in tempi e ambienti diversi l’Autore utilizza, quando possibile, anche le fonti orali: le voci del villaggio operaio che si sono tramandate di padre in figlio, sono diventate lessico familiare e senso comune.


Una scrittura, quella di Petrini, documentata e controllata: una ricostruzione storica documentata sine ira ac studio: un atteggiamento equanime, obbiettivo… Che giustamente, almeno a mio parere, s’incrina nella seconda parte del libro "Aspetti della condizione operaia nel Comune di Lucca" quando l'Autore espone le cifre, i dati, terribili, tragici degli interminabili orari di lavoro, dei salari da fame, delle pessime condizioni igienico-sanitarie, delle malattie professionali e sociali diffuse, della deprivazione complessiva – anche culturale, anche umana, – a cui furono sottoposte generazioni soprattutto di donne e fanciulli tra la sostanziale indifferenza di autorità, istituzioni, intellettuali.

Questi dati, queste cifre debbono essere state per l’Autore un doloroso pugno nello stomaco che Petrini ci gira pari pari. Il moralista che è in lui s’inalbera, s’indigna: e lo dimostrano sia la scelta degli argomenti che illustrano le condizioni materiali di vita del proletariato lucchese, sia la costruzione delle sequenze di testi argomentativi, sia la selezione delle citazioni. Un climax, quello compiuto dall’Autore in questa sezione del libro, che ottiene il suo punto di maggiore dolorosa intensità nella storia di una vita operaia spezzata: quella di Ester Fenili, operaia dello iutificio, che nel 1901, a poco più di 30 anni, si dà la morte per sfinimento, per stanchezza, per la tristezza di una vita non degna di essere vissuta. Con i pochi materiali a disposizione, Petrini ricostruisce una povera storia di una vita povera: povera al limite della miserabilità, ma soprattutto senza speranza, senza prospettiva, senza sogni.


Stasera è l’ultima che vengo a casa tua è il titolo dell’ultimo capitoletto di questo segmento di libro, pagine particolarmente partecipate, intense, commosse in cui davvero Francesco Petrini mi è sembrato all’altezza di quanto auspicato da Gramsci proprio cento anni fa: “Il proletariato non vuole predicatori di esteriorità, freddi alchimisti di parolette, vuole comprensione intellettuale, simpatia piena d’amore”.

Francesco Petrini, L'industralizzazione in Lucchesia 1880 - 1901, Maria Pacini Fazzi editore, Lucca 2016, pp. 175, Euro 16,00

02 ottobre 2016

"L'abbraccio" foto di Gianni Quilici



di Caterina Donatelli

A volte le tue foto le 'vivo' come una possibilità. Un furto del tempo reale dove poter accedere.

 Inoltre, o di conseguenza, mentre le vedo non mi sento spettatrice solitaria dentro lo spazio tra me, l'immagine e quello che suscita, ma mi percepisco come estensione dell'attimo.  E’ come se fossi anch'io lì, dietro a te che scatti.

Penso che ci siano diversi piani di osservazione di una fotografia per definirla 'bella', però trovo estremamente interessante, come in questo caso, anche quel tipo di scatto che con poco, trova una sua magia per l'osservatore.

Gianni Quilici. Cape Dastris, Corfù. Settembre 2016. 

30 settembre 2016

“La società punitiva” di Michel Foucault




di Daniele Guasco



E’ stato pubblicato da poco tempo in Italia (Marzo 2016)  il corso tenuto da Foucault al collège de France tra il 1972 e il 1973: “La società punitiva”. Il testo è necessariamente legato al celebre Sorvegliare e Punire per via della tematica, ma non funziona né come appendice né come bozza di questo. Brilla anzi per ciò che di importante fa emergere sulla prigione e sulla criminalità rispetto al funzionamento della società capitalistica.


Ciò che vi è di più interessante in effetti – soprattutto pensando ai futuri sbocchi della ricerca foucaultiana – è che la prigione, nell’analisi di Foucault, così come gli altri dispositivi che popolano il campo sociale, serve al funzionamento dell’economia capitalistica. Eppure nei testi di Economia Politica non compare nessuna discussione sulle prigioni.


Perché, pur essendo implicate – dal punto di vista di Foucault – nel funzionamento dell’economia non si discute di prigioni e manicomi nei testi di Economia Politica? Per rispondere bisogna considerare che l’approccio foucaultiano a Marx è influenzato soprattutto da Althusser: sono questi due filosofi – Marx e Althusser – a condizionare fortemente gli studi e i metodi di Foucault in proposito. Sono questi due ad aver considerato il processo capitalistico non solo come un processo riguardante la produzione di beni e di profitti, ma anche di soggetti, ed è la divisione tra struttura e sovrastruttura a rendere gli studi di Marx non solo come critica dell’Economia Politica, - come i titoli dei testi di Marx dichiarano - bensì allo stesso tempo studi di portata sociologica e filosofica. E’ così che si passa dal binomio struttura-sovrastruttura a quello enunciati-pratiche. E’ così che nascono gli studi su prigioni e manicomi: luoghi dove si mettono in atto le pratiche del potere, ma anche luoghi dove si costituisce un sapere, dove l’occhio vigile del medico, dello psicologo, del criminologo danno luogo ad una produzione scientifica, volta a legittimare una “micro-fisica” del potere, uno sguardo che esercita un controllo capillare sugli individui. Così, nel connettere il funzionamento micro politico di queste istanze, come la prigione, con il funzionamento globale della società, si dispiega l’opera di cui si parla qui: durante il corso Foucault sostiene che la forma-prigione è la forma della società intera: un sistema di sorveglianze perpetue, di ricompense e di punizioni, di apparati entro i quali la condotta degli individui viene continuamente controllata e sanzionata. Così accade a Foucault di disegnare una sorta di geografia delle istanze del potere: la prigione, la fabbrica, la scuola, non funzionano senza l’apporto della polizia, dei tribunali. Così tutto gioca come in un circuito e ogni elemento è funzionale a tutti gli altri, ad essi essenziale. Giungiamo così al rapporto tra prigione e processo economico: tutte queste istanze implicate nella geografia del potere servono, secondo Foucault, alla produzione e alla riproduzione di forza-lavoro e alla protezione delle merci e del loro scambio. Così viene mostrato nel libro, attraverso dati storici della società inglese ottocentesca, la nascita della polizia – una sua forma embrionale – dall’esigenza di proteggere le merci dalla depredazione, l’imprigionamento di massa per reprimere il vagabondaggio e il furto, conseguenza a sua volta della disoccupazione, a sua volta condizione essenziale per il mantenimento del salario a livello più basso possibile.  E anche quando riuscirà a sfuggire a questo circolo, il lavoratore sarà ugualmente sottoposto a un sistema di disciplina e di controllo all’interno della fabbrica, dove la sua condotta sarà continuamente osservata e sanzionata.


Ma è soprattutto nel circolo vizioso prima indicato: disoccupazione per mantenere bassi i salari, dunque criminalità, dunque formazione di un apparato poliziesco e messa in pratica di un imprigionamento di massa, è questo circolo vizioso a mostrare i concatenamenti che conducono dalla prigione sino ai bassi salari, è la presenza di grandi accumulazioni di merci nei porti di Londra a essere legata allo sviluppo dell’apparato poliziesco, così come sono i processi economici, l’osservazione continua della condotta del lavoratore a mostrare il legame tra la forma-prigione e la vita di fabbrica.


Così ecco la peculiarità di questo importante scritto: più che in Sorvegliare e Punire, è visibile il legame tra il potere biopolitico e il processo economico, che va a creare dei soggetti asserviti alle necessità della produzione, controllandone e disciplinandone l’evoluzione vitale, anziché esercitare un potere sovrano sulla vita e sulla morte dei soggetti. L’operazione compiuta da Foucault è quella di rendere visibile l’azione del potere nella società capitalistica. Operazione questa, che non era stata svolta – bensì solo disegnata nei suoi princìpi - da Marx e da Althusser nella misura in cui erano troppo occupati a svolgere un altro tipo di lavoro. Potremmo dire che l’operazione di cui parliamo non ha impegnato solo il 1972 e il 1973, ma tutta la carriera di Foucault: quest’operazione coincide con la definizione del concetto di biopolitica. “La società punitiva” è una determinazione particolare di questa grande ricerca.


In aggiunta, si può dire che nel testo è anche difficile non presentire gli echi di Althusser come di Bourdieu, di Bataille e dell’Anti-Edipo di Deleuze e Guattari, uscito precisamente nel 1972, anno di inizio del corso di Foucault al collège de France. Più volte si parla di macchine, di corpi, di desiderio e di produzione dove questi erano concetti centrali nell’Anti-Edipo. Questi echi sono solo i primi segni di una forte influenza reciproca, influenza nell’evoluzione delle ricerche di Foucault e dell’accoppiata Deleuze – Guattari, influenza che andrà a definire tra i più importanti nomi di una grande stagione della filosofia francese.




Michel Foucault, La società punitiva, Feltrinelli, pp. 384, € 35,00

29 settembre 2016

“Dido & Aeneas” di Henry Purcell. Regia di Sasha Waltz





di Silvia Chessa

Lo spettacolo Dido & Aeneas, coreografia e regia di Sasha Waltz, intorno al mito di Didone ed Enea, cattura il pubblico in modo immediato con uno strabiliante esordio. In una vasca di 1700 litri d'acqua, creature dai corpi bellissimi, avvolti in sottili vesti scintillanti, irradiate da magnifici giochi di luci, ci appaiono in grado di danzare le correnti liquide ed abitare, in movimento sensuale ed armonioso, le onde, appropriandosi, quindi, per sinestesia, la danza, tout court, dell'elemento acqua, oltre a quello della terra.

Al contempo, nelle loro movenze eteree, soavi ed incantate, i danzatori in piscina ci riportano alle figure umane di Chagall, raffigurate in voli sopra le città, e quindi anch'esse, in modo trasognato, capaci di evadere dalla dimensione reale e di occuparne altra - i cieli- in voli pindarici densi di poetico stupore..

Al contempo, un carattere di opulenza e di senso del barocco, inteso come meraviglia e stupore, inizia ad affiorare e a farsi strada..


In questo universo terracqueo, già affascinante e magico, interverranno, nel corso dell'opera, voci liriche soliste (Enea e Didone) e corali (queste ultime riecheggianti la tragedia greca), e 51 elementi di danzatori non professionisti (fra cui anche musicisti, orchestranti..) prestati alla danza, i quali attueranno una tangibile e dinamica interconnessione fra la musica e la danza, con un effetto suggestivo e coinvolgente che non soffre interruzione e non conosce intervallo.
Altro elemento caratteristico dello spettacolo è la tendenza a non lasciare mai vuoto il palcoscenico: anche nei momenti di raccordo fra i diversi quadri e nelle fasi di sistemazione della scenografia, sul palco si affida il movimento, vuoi ad un ballerino che esce per ultimo attendendo l'ingresso dei successivi protagonisti, vuoi ad una bambina che anima la scena correndo attorno mentre trasportano e sistemano un tavolo...garantendo un fluire ininterrotto della creazione artistica nelle sue singole fasi, in una idea, ribadita, di integrazione totale.
Colpisce, infine, la forza caratteriale e la figura a tutto tondo, moderna, della protagonista, Didone, lenta a cedere alle lusinghe amorose quanto tetragona ed immediata nel votarsi al suicidio.

Suicidio che non si configura, però, qui come compimento di un fato tragico, da vittima amorosa ed abbandonata, bensì come gesto da autrice (faber) del proprio destino, regale e di donna, la quale vi accede nella orgogliosa rivendicazione della sua autorevolezza, peculiarità identitaria e del suo ruolo.. Il suo accattivante ed enigmatico danzare con la lunghissima chioma di capelli ad onde (come quelle della piscina della prima scena) nel momento culmine del lamento e del suo avviarsi alla morte, enfatizza le sue caratteristiche femminili, accompagnando una voce praticamente perfetta e calda di molteplici coloriture. La lunghissima chioma riccia a cascata che la avvolge e la riveste lentamente come un bozzolo, nel quale si raccoglie, poi, a terra esanime, allude, circolarmente, all'elemento amniotico, mercè quelle ondulazioni di capelli, e quel navigarci, dentro ed attorno, delle sue mani fra sfumature di colori ramati e forme morbide e setose, che la nascondono e proteggono, rivelandone l'enigmatica e assoluta bellezza. In ciò la fine di Didone è soprattutto compimento di se stessa ed epifania al mondo da lei amministrato, con lucida passionalità.

In tal senso la Didone di Sasha Waltz è antesignana di una donna contemporanea, animata e non scissa fra autoderminismo e femminilità, madre del suo stupore, figlia della sua interiore bellezza, fitta di intelligenza e capacità, che vive e governa naturalmente un mondo dove si coniuga una estetica barocco-surrealista a modernissime e forti passioni.

Dido & Aeneas di Henry Purcell,
Regia e coreografia sono curate da Sasha Waltz, sul palco la Tanzcompagnie Sasha Waltz & Guests. Christopher Moulds dirige l’Akademie für Alte Musik e il Vocalconsort di Berlino. L’allestimento ha le scene di Thomas Schenk e Sasha Waltz, i costumi di Christine Birkle, le luci di Thilo Reuther. L’opera è eseguita nella ricostruzione musicale di Attilio Cremonesi. Teatro dell’opera di Roma



28 settembre 2016

"Psicoanalisi immaginaria di Frida Kahlo" di Riccardo Dalle Luche e Angela Palermo



di Anna Maria Bambini

Leggero come un romanzo. Profondo come un saggio.
La narrazione di Angela Palermo e Riccardo Dalle Luche è piacevole e istruttiva. Ci conduce attraverso percorsi artistici e mentali con grande naturalezza.
Si tratta di un libro denso, che tocca diverse tematiche passando per un originalissimo approfondimento.
 
La conoscenza degli Autori è plurima, profonda, spazia dal cinema alla psicopatologia e ci offre spunti di autoanalisi e di identificazioni, nel piccolo di ogni nostra esperienza.
Gli Autori ci raccontano come gli artisti siano capaci di far diventare vita i propri sogni, di superare barriere e convenzioni, di esaltare le proprie emozioni fino a livelli non raggiungibili da noi comuni mortali. Essi vivono in modo esasperato e totalizzante sentimenti e storie, sono in grado di andare incontro a incontrollabili passioni, senza darsi dei limiti, lasciandosi inondare e travolgere da esse. Permettono tutto a sè stessi.
 
Gli artisti entrano anche a contatto con la Storia.
 
Un po' romanzo sentimentale, un po' libro di storia dell'arte, quello su cui tutti avremmo voluto studiare. L'analisi puntuale dei quadri è chiara, ordinata, coinvolgente.
 
La descrizione psicopatologica degli effetti del trauma, poi, è di grande interesse e molto più che esauriente.
 
Il tutto corredato da una ricostruzione storica e da una bibliografia molto interessante.


Al termine del libro ci si dispiace un po' dover lasciare quelle pagine. La vita di Frida è grandiosa e la sua scrittura è immaginifica, come i suoi quadri. Le sue parole sono quelle di una visionaria d'amore.
Alla fine si ha la sensazione che il connubio Diego-Frida non solo era inevitabile ma, addirittura, necessario.
 
Resta lei. Così pienamente viva, vibrante. Come solo alcune donne spezzate sanno essere.

Riccardo Dalle Luche, Angela Palermo, Psicoanalisi immaginaria di Frida Kahlo, Mimesis 2016, pag 188, € 20,00




27 settembre 2016

"Viaggio in Corsica: Bastia" di Maria Teresa Landucci






Viaggio di notte ed arrivo all'alba. Sola. Poi un giro nella Bastia antica, con il fascino delle vecchie battone. Sì, volevo proprio dire puttane. Vecchia e sfatta, con il puzzo di piscio agli angoli, i vicoli bui,  l'anziano addormentato con la testa appoggiata sul braccio e questo sullo schienale della sedia con l'impagliatura tutta rotta, fuori del portone della sua casa ... un budello stretto stretto, che sale ripido su per quelle scalette scalcinate e buie, con gli scalini consumati nel mezzo.


Via Vattelapesca. Non è uno scherzo, la stradina si chiama proprio cosi. La vecchia puttana è questo: l'antitesi dell'eleganza, anzi un'accozzaglia di superfetazioni, di vecchie insegne pubblicitarie, di fili elettrici, di panni stesi, confondono l'occhio, che a fatica ritrova le tracce di un passato nobile. Un passato che narra di ricche famiglie provenienti da Genova, da Venezia che qui controllavano i propri traffici commerciali ed ancora qui facevano costruire i loro palazzetti, seguendo il gusto dell'architettura italiana, ambasciatori dello stile della loro città di origine.

 In mezzo alle umili ed anonime facciate distinguo palazzo Ciardi, con il sorprendente vestibolo voltato ed affrescato ed il palazzo dei rilievi femminili, organizzato su ben nove piani, i cui fondaci al livello terreno, destinati ad accogliere i magazzini delle merci.  Bel bassorilievo in facciata: due donne sedute simmetricamente ed un animale marino fantastico al centro, immagino il tributo di una famiglia matriarcale, dedita ai commerci per mare. Come una rete da pesca è la struttura urbanistica della Bastia vecchia, una maglia di stradine, grosso modo parallele, poste su livelli diversi e collegate da rampe di scale più o meno strette, più o meno ripide, che scendono verso l'antico porto. Ricorda Genova o Portoferraio, città con le quali Bastia ebbe evidentemente stretti rapporti di scambi commerciali, politici e culturali. Rari slarghi si concede la stretta maglia urbanistica, nemmeno le due chiese presenti hanno la consueta piazza in fronte facciata.

L'unica vera piazza è quella del mercato, di impianto ottocentesco, con i platani lungo tutto il perimetro rettangolare e una moderna fontana al centro: una sensuale figura femminile beve dallo zampillo d'acqua di fronte alle sue labbra.  Inizia la vita, si montano i banchi della frutta, si issano enormi ombrelloni bianchi, arrivano i furgoni che si allineano uno accanto all'altro.
Fra questi mi colpisce uno: "Boucherie populaire traditionale corse", recita l'insegna rossa sul furgone bianco. Macelleria popolare tradizionale corsa, tradotto alla lettera. Un trionfo di pezzi di carne di ogni genere. Rossa o rosata, fresca e dall'aria invitante. La cucina tradizionale dell'isola è ricca di carne in effetti.  Arrivano le prime massaie, alcune con il carrellino altre con le borse di paglia. Si fermano, osservano, commentano, acquistano. Quando incrociano un'amica scambiano i convenevoli saluti, noto in lingua francese. La lingua corsa è viva nell'isola, ma forse maggiormente praticata dagli uomini che non dalle donne. La città è oramai animata, i tipici tavolini dei caffè sulla piazza si riempiono di gente. Fra gli avventori molti sono i gestori islamici dei banchi del mercato; la lingua araba si mischia al francese e alla lingua corsa. Si prende un caffè, si fuma una sigaretta, si commenta la partita di calcio, trasmessa in TV la sera precedente.

Un giovane accompagnato da due ragazze, abbigliate con abiti eleganti, rumorosi e ridanciani, reduci da una nottata di divertimento e presumibilmente di bevute alcoliche, mi passano accanto e mi salutano allegramente ... bonjour madame! ... ricambio il saluto con altrettanta allegria ...bonjour a tout le monde