15 aprile 2021

"L'identità" di Milan Kundera

 

di Marigabri

Di quanti simulacri è fatta l’identità? Quanti strati di esfoliazione devono essere sollevati per permetterci di arrivare al centro, al nocciolo di ciò che impunemente osiamo chiamare ‘io’?

E, allo stesso modo, come possiamo accedere all’identità dell’altro, quel ‘tu’ che riconosciamo nostro intimo e nostro sodale? Di quali e quanti misconoscimenti è costituita la nostra relazione?

Quando possiamo definirla autentica, vera? (ammesso che sia possibile)

O siamo invece frammenti baluginanti di un un gigantesco sogno dove impalpabili bolle di inconsapevolezza si contendono, senza averne diritto, il primato della realtà? Siamo dunque immersi nella volubile turbinante festa dell’apparenza di nicciana memoria (oppure nella kunderiana festa dell’ insignificanza)?

Kundera gioca, da par suo, con questi temi facendo di Chantal e Jean-Marc personaggi specchio dei nostri più segreti rovelli, capovolgendo spesso i luoghi comuni e mostrando il lato nascosto degli assiomi che governano le nostre vite.

Ad esempio:

“Quale giudice ha mai stabilito che il conformismo è un male e l’anticonformismo un bene? Conformarsi non vuol dire forse avvicinarsi agli altri? E cos’altro è il conformismo se non l’ampio spazio comune verso cui tutti convergono, e in cui la vita è più intensa, più fervida che altrove?”

Oppure:

“ Del resto, si domandò, che cos’è un segreto intimo? È forse ciò che racchiude quello che vi è di più misterioso, di più personale, di più peculiare in un essere umano? Sono forse i suoi segreti a fare di Chantal quell’essere unico che lui ama? No. È segreto quello che c’è di più quotidiano, di più banale, di più ripetitivo, di più comune a tutti: il corpo i suoi bisogni, le sue malattie le sue manie […] Se nascondiamo pudicamente tutte queste intimità non è perché esse siano strettamente personali, ma al contrario, per la loro assoluta, deprecabile impersonalità.”

Come sempre la scrittura letteraria di Kundera è fatta di metaletteratura, di sospensioni della narrazione verso digressioni, interrogazioni sul senso dell’essere e dell’esserci, questioni e domande che intraprendono un dialogo serrato e avvincente con l’intelligenza di lettrici e lettori.

A libro terminato abbiamo subito l’impulso di riaprirlo sulle domande che ci ha suggerito, sui dubbi che ci ha insinuato, sui veli e sulle ombre che ci ha fatto intravedere.

 Milan Kundera. 

L’identità. 

Traduzione di Ena Marchi. 

Adelphi 2003.

07 aprile 2021

"Elefteria di Istanbul" di Kemal Yilmaz

 

di Giulietta Isola

“ Non c’è più umanità…Umanità.. Quella notte, a Istanbul, se ne era perso il senso. Al suo posto era subentrato un odio cieco, razzista, capace solo di stuprare, picchiare, distruggere e rubare.”

        Della grande questione greco-turca, territoriale e non solo, sono rimasti nella memoria collettiva gli esiti nefasti della guerra d’indipendenza turca che vide contrapposti i due paesi tra il maggio del 1919 e l’ottobre del 1922, in seguito alla quale l’esercito turco, guidato da Kemal Atatürk che, sulla dissoluzione dell’Impero ottomano aveva fondato la Repubblica Turca, sconfisse quello greco con la conquista di territori, che erano stati greci per oltre tremila anni. Smirne fu data alle fiamme, più di un milione di greci cacciati dall’Anatolia, violenze di ogni genere, morti ammazzati, stupri comportarono fughe, esili, fame, malattie, fino allo scambio di popolazioni in seguito al quale, nel 1923, i greci dell’Anatolia andarono in Grecia e i turchi nella nuova Turchia. 

        Unica eccezione per i circa 400.000 greci di Costantinopoli/Istanbul, e delle isole di Imbro e Tenedo per i quali fu imposto il rispetto da parte del governo turco e lo stesso a quello greco per la minoranza turca. Si conosce abbastanza la storia dei greci del Ponto, ma si è parlato molto poco di un pogrom di greci molto più recente, quello di Istanbul del 5 e 6 settembre 1955, in seguito al quale molti greci furono costretti a fuggire per trovare rifugio nella madre patria greca. 

        Di questi avvenimenti parla lo scrittore turco Kemal Yilmaz in “Elefteria di Istanbul”. La storia inizia con Magnolia che piange la morte della madre Elefteria. La donna ha trent’anni, non è sposata e non ha mai conosciuto il padre, ha vissuto in perfetta simbiosi con la vecchia madre della quale ricorda l’insanabile dolore per essere stata cacciata da casa ed aver vissuto da esule, ma sa poco dei motivi della fuga. Negli anni le aveva chiesto tante volte: “Perché non sei rimasta a Istanbul?”, la madre si era limitata a un racconto essenziale: la corsa al treno alla stazione di Sirkeci, senza bagagli e senza neppure il tempo di salutare amici e parenti. 

       Nel 1964 una seconda ondata di persecuzioni colpì la minoranza greca in Turchia a causa della situazione di Cipro: “Il governo turco aveva emanato un decreto per tutti i greci di Istanbul: in cambio di quattro soldi avevano l’ordine di lasciare il paese entro quarantotto ore”. 

       L’autore si ferma a ragionare su questi fatti e sul motivo del silenzio nelle vittime: “Al loro arrivo si erano disperse, avevano fatto passare gli anni senza rivedersi, forse per non ricordare il buio di quei terribili giorni”. Quanto terribili siano stati quei tempi lo capiremo nei capitoli finali. 

      Intanto Magnolia rovistando e sistemando le cose lasciate dalla madre trova un diario ed una lettera a lei indirizzata, è scritta in turco, lingua che non conosce e per la quale ricorre all’aiuto di Celena, esule come la madre, che la conforta nella perdita e traduce per lei quelle pagine “da aprire dopo la morte”. 

      Comincia da qui un’abile costruzione narrativa che via via farà crescere la suspense attorno a quella lettera, il lettore resterà all’oscuro del contenuto ma assisterà al turbamento emotivo di Magnolia che ne sarà sconvolta, non sarà più la stessa, si chiuderà in una profonda depressione per guarire dalla quale tornerà a Istanbul. 

      Magnolia ed il lettore apprenderanno lì i fatti terribili di quei fatidici giorni del 1955, nei quali il governo dittatoriale di Adnan Menderes, leader del Partito Democratico, chiuse la polizia nelle caserme per permettere ai facinorosi dell’Associazione “Cipro è turca” di imputare ai greci l’incendio alla casa natale di Atatürk a Salonicco e giustificare così la violenta reazione nei loro confronti con case, negozi e chiuse incendiate (ben 78 saranno le chiese greco-ortodosse di Istanbul incendiate), decine di donne violentate, spari, morti, fino a costringerli alla fuga. 

       Ma non sarà, quella, la sola verità che Magnolia apprenderà. Ce ne sarà un’altra, che la interessa personalmente e che le farà capire quanto la tragedia di un intero popolo colpisca la vita personale, intima, non solo delle persone che la vivono, ma inevitabilmente anche il destino di persone come lei venute al mondo dopo. Molto interessante e consigliato.

ELEFTERIA DI ISTANBUL di KEMAL YILMAZ. FRANCESCO BRIOSCHI EDITORE

02 aprile 2021

"Seta" di Alessandro Baricco

 

di Rosanna Valentina Lo Bello

       Ci sono città come Genova che dividono: o si amano o si odiano. Ci sono scrittori come Baricco (1958 Torino) che hanno la stessa sorte: dividono. Io lo amo. Trovo il suo stile inconfondibile particolarmente idoneo alla mia struttura mentale e già nel 97 con “Oceano Mare” rimasi colpita e coinvolta positivamente dal suo modo di scrivere. Già, il suo modo di scrivere: un giusto incastro di frasi brevi con frasi ricche di subordinate con il piacevole equilibrio dato dalle ripetizioni di parole non a caso.

       La lettura ha il sapore della scorrevolezza che scivola fin dentro le più antiche emozioni. Baricco possiede un talento trascinante ed è capace di rari giochi letterari e di insoliti abbandoni. Seta, un titolo veramente appropriato: sposa alla perfezione la storia e, soprattutto, ne indica la sofisticata e leggera sensazione che offre la seta in qualità tessile. “Questo non è un romanzo. E neppure un racconto. Questa è una storia. Inizia con un uomo che attraversa il mondo e finisce con un lago che se ne sta lì, in una giornata di vento. L’uomo si chiama Hervè Jancour. Il lago non si sa.” Questa storia è ambientata a metà Ottocento e ci racconta il viaggio sia nella particolareggiata dimensione geografica che in quella di un amore profondo e struggente.

       Hervè Jancour è un commerciante francese di bachi da seta che per questo motivo affronta periodicamente dei lunghi e difficoltosi viaggi: prima verso la Siria e l’Egitto, poi, a causa di un’epidemia che infetta le uova, verso il Giappone, unico Paese salvo. L’imperatore di questo Paese aveva vietato l’esportazione delle uova dei bachi da seta ma c’erano dei fuorilegge che li vendevano ugualmente. Hervè, uomo pragmatico e temerario, viene conquistato dalla realtà orientale e si innamora morbosamente di una ragazza (con occhi non orientali) creando un rapporto idilliaco con un intenso puntuale incrocio di sguardi. Colpisce l’immobilità emotiva esteriore di Hervè nel relazionarsi con diversi personaggi della storia.

       Silente è anche sua moglie. Il loro silenzio nella narrazione diventa un urlo equilibrato e melodico dentro la mente di chi legge oltre le righe. Il finale, che non svelo, è un vero e proprio colpo di scena impregnato di un AMORE così denso e così raro che offre un significato diverso alla parola sublimale. Nella parte finale del libro vi è trascritta una lettera che per me rappresenta l’intero delicato senso di questo libro. Vi confesso che l’ho trascritta su pergamena e l’ho anche incorniciata, merita davvero e avvolge come seta.

Ogni tanto, nelle giornate di vento, scendeva fino al lago e passava ore a guardarlo, giacché disegnato sull’acqua, gli pareva di vedere l’inspiegabile spettacolo, lieve, che era stata la sua vita”.

Alessandro Baricco. Seta.  Pag. 108. Feltrinelli 2012.

29 marzo 2021

“Il mistero del cinema” di Bernardo Bertolucci

 

di Gianni Quilici

Lo vedo negli scaffali dell’edicola  e lo prendo al volo. Sono poco più di 90 pagine e so che lo leggerò con piacere e che forse troverò lo spunto per scriverci.

Ho sempre avuto un rapporto felicemente contraddittorio con il cinema di Bernardo Bertolucci.  A volte mi ha conquistato, penso per fare qualche nome, a Strategia del ragno o al Il conformista;   altre volte,  non mi ha convinto fino in fondo,  come per esempio in  L’ultimo imperatore o in The dreamers . Tuttavia , più o meno tutti, mi hanno lasciato il desiderio di rivederli, come se dovessi farci ancora i conti non tanto con singoli film, ma con la figura stessa di regista di Bertolucci

Bella la copertina con il volto intenso poco decifrabile del regista, la posa sicura, quasi spavalda, con la mano destra infilata dentro la cintura dei pantaloni e l’altra ivi poggiata e aperta. Quando inizio a leggerlo capisco che non sono articoli come, a  un primo sguardo, pensavo, ma  un intervento scritto in occasione della laurea honoris causa ricevuta dall’Università di Parma nel 2014, come ci informa Michele Guerra nella bella postfazione.

Il libro è una carrellata veloce della sua autobiografia umana e artistica. Prendono corpo il padre poeta, Attilio, il fratello regista, Giuseppe, la mamma, Ninetta; i luoghi più significativi: Casarola e Parma, Roma e Parigi, il Sahara e la Cina; i suoi maestri, che lo hanno molto influenzato all’inizio: Pasolini e Godard; e infine il cinema e i suoi film.

Ciò che mi colpisce è l’intelligenza della  passione. Una passione che nasce dalla vita e che si nutre  dell’ossessione, anche speculativa, della rappresentazione. Bertolucci racconta, infatti, cosa ha voluto dire per lui fare cinema, fare film.

Un film come libertà, senza idee precostituite. Una libertà che crea. Una creazione che realizza momenti magici, quasi miracolistici. La sensazione, infine,  di sentire la vita del film, come se esso acquistasse una sua vita propria.

E questo come e quando succede? Quando si incontra lo stile. Perché un film, argomenta Bertolucci, è certamente una storia, ma il linguaggio usato oltrepassa i fatti narrati, li rende più ambigui, più misteriosi. “Il carrello ad esempio” scrive “mi ha sempre fatto  pensare alla poesia, è come se scrivessi poesie con un tipo di metrica differente: serve per dare movimento, come accade in un verso”.

Ho pensato che “Il mistero del cinema” diventi anche “il mistero Bertolucci”. Il cinema di Bertolucci, infatti, è innamorato non solo della realtà e della sua rappresentazione cinematografica, ma anche del suo pensarla, rimuginarla. Bertolucci è’ stato, infatti, un narratore e un esteta, un intellettuale e un poeta. E il suo mistero è in tutto ciò che i suoi film di complesso e misterioso ci lasciano ancora.

Il mistero del cinema. Bernardo Bertolucci. La nave di Teseo. La repubblica. Pag. 92. Euro 8,50.