17 gennaio 2022

"Sono immagini dell'alba" di Marisa Cecchetti

 

 di Luciano Luciani

    Presenza discreta ma tenace nei territori non vastissimi della scrittura di qualità, in prosa e in versi, Marisa Cecchetti ha saputo conservare il dono di una rigorosa fedeltà al proprio mondo. 

       Una condizione questa, che, comunque non ingenera nel Lettore nessuna sensazione di noia o monotonia, perché a ogni antologia di racconti, a ogni silloge poetica, l’Autrice toscana riesce a sorprenderti sempre: ora aggiungendo non poche originali nuance al proprio discorso poetico; ora illuminando di nuova luce talune zone della percezione rimaste in ombra, ora rendendo più ficcanti, incisive e civilmente impegnate le incursioni nella memoria. 

        Nella sua più recente raccolta di racconti  Sono immagini dell’alba, Viareggio (Lu), 2021, infatti, non a caso compare in maniera ricorrente il tema del sogno capace di ampliare in maniera significativa sia l’area della narrazione sia quella della coscienza, mentre non viene taciuto il duro prezzo quotidiano che tutti noi stiamo pagando all’attuale tragica recente, novità della pandemia: una dimensione di vita brutale a cui nessuno di noi era preparato e che tutti ha sorpresi e disorientati. 

        Dunque il sogno e un quotidiano spigoloso e abrasivo: queste le polarità lungo le quali si muovono le narrazioni dell’ultima Cecchetti che ne corregge però le asprezze facendo ricorso ai  temi che da sempre costituiscono il deposito etico ed estetico che ne ispira la scrittura: la sempre delicata dialettica tra solitudine e socialità; la solidarietà tra le persone e le generazioni; l’accoglienza da riservare soprattutto ai più deboli e ai più fragili; la simpatia piena d’amore per tutti i viventi: animali, piante, fiori e anche per le cose, gli oggetti, in quanto testimoni comunque intrisi di un’umanità mai del tutto estinta… 

         E poi la memoria e i suoi diritti che torna prepotente e dolorosa, tagliente e dolce nei racconti di vita familiare, professionale, personale… Tanti i ricordi che in queste pagine si rendono capaci di una narrazione ancora più privata, quasi intima, forzando, rispetto ad altre esperienze, le porte della riservatezza. Compare, così, la famiglia d’origine: pisana, contadina, d’impianto tradizionale ma capace, quando necessario, d’intercettare il nuovo che urge. E poi la propria: un marito, due figli, un orizzonte piccolo borghese non sempre soddisfacente, non sempre all’altezza delle aspettative, a riprova che governare una famiglia è difficile quasi quanto governare un regno: un’esperienza segnata da lacerazioni e grandi crucci, non scevra, però anche da più di qualche motivo di consolazione, soddisfazione e gratificazione. Una complessità di temi, di argomenti sviluppata nel modo del racconto breve, ma del tutto compiuto in se stesso, o meno breve dove è già possibile intravedere il seme di una eventuale estensione romanzesca.       

                                            Foto Gianni Quilici

         Li sostiene una scrittura limpida, piana, misurata. Cordiale: non sale mai di tono, né si fa mai vernacolo facile oppure gergo. Democratica, perché si rivolge con naturalezza al pubblico vasto di coloro che amano la lettura - di pregio - del nostro presente e del nostro passato recente. Così come li sa e li può attraversare un’anima sensibile senza essere disarmata, uno spirito gentile ma concreto, una donna, Marisa Cecchetti, tutta calata in questi tempi malmostosi: un uccellino sì, ma pugnace e combattivo.

Marisa Cecchetti, Sono immagini dell’alba, collana Battitore libero, Giovane Holden Edizioni, Viareggio (Lu) 2021, pp. 120, Euro 13,00

10 gennaio 2022

"Pensieri della mosca con la testa storta" di Giorgio Vallortigara

 

di Giancarlo Beriola

         Un verme sta strisciando sul terreno di un prato, improvvisamente gli cade addosso del terriccio e istantaneamente si arrotola su se stesso; una persona è distesa al sole sulla sabbia con gli occhi chiusi, improvvisamente le cade addosso della sabbia: apre subito gli occhi e si alza in piedi.

    Entrambi hanno “percepito” qualcosa che accadeva là fuori (fuori da sé) e “sentito” (dentro di sé) che accadeva loro qualcosa e vi hanno risposto con uno stimolo motorio. “Quest’idea che esistano due diverse modalità di rappresentazione degli stimoli, le sensazioni, quello che accade a me, e le percezioni, quello che accade là fuori, è un’idea di Humphrey [Nicholas, psicologo evoluzionista] che prende a prestito da Thomas Reid (1710-1796) filosofo della Scuola scozzese”.

    La citazione è tratta dall’interessantissimo saggio di Giorgio Vallortigara Pensieri della mosca con la testa storta, che cerca di dare una risposta ”... al problema della coscienza animale. ... Qui per coscienza intendo il fatto di avere esperienze, di provare, di sentire qualcosa quando si sfiora una guancia con le dita, si odora della menta o si guarda il fondo di una pentola bruciacchiata ... E la confusione è causata dal mescolare liberamente il tema dell’avere coscienza con quello del mostrare certi comportamenti. Non è ovvio quando e perché alcuni comportamenti semplici o complessi siano accompagnati da un sentire, dal fatto di avere esperienze”.

    Come è possibile quindi che in situazioni simili un verme e un homo sapiens abbiano le stesse reazioni? L’essere coscienti potrebbe essere una risposta ma si dubita che i vermi siano coscienti (possiederebbero troppi pochi neuroni...) in quanto si ritiene che solo cervelli voluminosi permettano tale stato ma, se così fosse, quale sarebbe la dimensione necesssaria? “Prendiamo il caso dei cetacei. La grande intelligenza di questi animali viene spesso associata ai capienti volumi dei loro cervelli. In realtà specie diverse mostrano dimensioni alquanto variabili - dall’etto e mezzo scarso del delfino dell’Indo ai ragguardevoli sette chili della megattera”. E, utilizzando il quoziente di encefalizzazione (massa del cervello rapportata a quella che ci si aspetterebbe di trovare in un tipico animale della stessa taglia), si scopre che nella specie Steno bredanensis è pari a 4,95 mentre per i capodogli è di 0,16.

    Anche il numero dei neuroni presenti in un cervello non è un indice significativo di intelligenza (302 neuroni il verme, 86 miliardi l’uomo - come si sia arrivati a questo preciso numero lo trovate nel libro stesso) in quanto “al variare delle dimensioni dei cervelli il numero dei neuroni può cambiare in maniera diversa nelle differenti specie. Nei primati i neuroni aumentano con lo stesso tasso con cui si accrescono i cervelli ... Nei roditori, invece, la grandezza dei cervelli aumenta più di quanto aumenti il numero dei neuroni” (per sintesi: in un grammo di cervello di una scimmia di taglia piccola troviamo lo stesso numero di neuroni che in un grammo di cervello di una scimmia di taglia grande; invece potremmo trovare più neuroni in un grammo di cervello in un roditore di taglia piccola rispetto a quello di un roditore più grande).

    “Nel libro svilupperò idee che sono antitetiche a questo modo di concepire il problema dell’esperienza cosciente [grado zero di coscienza del verme e grado massimo per l’uomo] ... In particolare sosterrò la tesi abbastanza estrema che le forme basilari della vita mentale non necessitino di grandi cervelli e che il surplus neurologico che si osserva in alcuni animali sia probabilmente al servizio dei magazzini di memoria, non dei processi di pensiero o della coscienza”.

    Quindi, se non è la dimensione del cervello che determina i processi di pensiero o della coscienza (molti gli argomenti nel saggio che lo dimostrano...) qual è il substrato che ha permesso questi processi? Secondo Vallortigara questi processi sono sollecitati dalla capacità delle cellule di sentire, capacità, questa, derivante dall’acquisizione del movimento volontario che ha reso necessario distinguere il dentro dal fuori di sé.

    Quello che chiamiamo senziente è un organismo che deve in primo luogo distinguere tra i segnali che genera egli stesso e quelli che sono generati sulle sue membrane da tutto ciò che è altro da lui. Per avere il genere di movimento attivo che renda possibile <sentire> la stimolazione è necessario disporre di un distinto sistema recettoriale che agisca su un distinto sistema motorio”.

   Strutturati questi due sistemi - recettoriale e motorio - qual è il meccanismo che permette la distinzione tra un impulso interno e uno esterno?

   Supponiamo che dal cervello arrivi un segnale (o stimolo) ai muscoli extraoculari che fanno muovere gli occhi, segnale che chiamiamo efferente; una copia di questo segnale efferente viene inviata al comparatore che “attende” un segnale afferente cioè un impulso che dall’esterno, attraverso gli organi di senso, arrivi al sistema nervoso (nota: in questo caso il segnale afferente che si produce è il risultato dello scorrimento dell’immagine sulla retina).

   Il segnale afferente passerà anch’esso dal comparatore ma, essendo presente la copia efferente che dimostra che lo stimolo iniziale è stato prodotto internamente dal movimento degli occhi anziché dal movimento di un oggetto esterno, il segnale afferente verrà cancellato.

   In un caso opposto, invece, se un segnale esterno (afferente) arrivase al comparatore questo, non avendo ricevuto alcuna copia efferente, lo lasciarebbe passare perché arrivi ai neuroni preposti.

   Torniamo allora al nostro verme che riceve sulla pelle il terriccio o alla persona che stesa al sole riceve sulla pelle la sabbia: il segnale afferente trasmesso dalla pelle non verrà cancellato ma sarà registrato come qualcosa di esterno e il sistema sensoriale manderà il segnale dovuto (di reazione o di accettazione o di indifferenza...); questa azione viene assimilata come esperienza.

    Come hanno notato molti autori, questa che viene posta in essere dal meccanismo di copia efferente costituisce in effetti una primitiva distinzione tra sé e non-sé, il passo cruciale per la comparsa della coscienza (alias esperienza). Ma come può il meccanismo della copia efferente produrre l’esperienza? L’esperienza, se seguiamo le intuizioni di Reid e Humphrey, è associata alla sensazione, a quello che succede a noi, e si manifesterebbe perciò proprio quando il segnale di copia efferente non è presente, quando cioè il segnale sensoriale non viene annichilito dalla scarica corollaria [o copia efferente]. Si noti, a questo riguardo, che quasi tutti gli autori sembrano credere il contrario perché non distinguendo tra sensazione e percezione, associano il ruolo dell’azione motoria alla percezione”.

    A questo punto credo si sia compreso quanto interessanti e complessi siano “i pensieri della mosca” considerando che quanto scritto è solo un accenno rispetto al contenuto del ricchissimo saggio di Vallortigara, scritto con una forma piana ed elegante e mai noioso, che sollecita curiosità e interesse.

   Ah, alla mosca Eristalis tenax, per un esperimento, è stata ruotata la testa di 180 gradi (cosa che può fare normalmente...) ma “testa storta” (anziché ritorta), dice l’autore, nel titolo suona meglio.

    E, a proposito di esperimenti, tra i vari presentati nel saggio c’è ne uno nel quale una scimmia di nome Helen è stata chirurgicamente resa cieca: a lei e a tutti gli animali sacrificati (non solo in nome della scienza...) sento di fare le mie scuse.

 Giorgio Vallortigara è professore di Neurologia e Cognizione animale presso l’Università di Trento. In precedenza Adelphi ha pubblicato Cervelli che contano (scritto insieme a Nicla Panciera, 2014).

 Giorgio Vallortigara. Pensieri della mosca con la testa storta (Adelphi, 173 pagg., € 20,00)

 

 

 

07 gennaio 2022

"La violinista. E altre storie" di Giuseppe Ciri

 

 di Marisa Cecchetti

      Una ampia raccolta di racconti brevi, quella di Giuseppe Ciri -che ha già pubblicato  poesia e prosa- di piacevole lettura.

      Tema trasversale e quasi costante è l’incontro, il crearsi di un rapporto d’amore o d’amicizia, la sorpresa e lo stupore davanti alla bellezza femminile, il desiderio.

      Sono soprattutto storie nate da uno sguardo più intenso, da un caffè bevuto insieme, da una cena accettata con gioia, proseguite nella notte. Incontri che possono trasformarsi in storie coniugali o restare il ricordo di una emozione intensa, intervalli di fuga all’interno della vita di coppia. C’è molta libertà nell’assecondare il richiamo dei sensi ed indulgenza davanti alle scelte presenti e passate.

         Amori giovani, fortunati o meno, sono seguiti attraverso il rito -ignoto alla nuove generazioni- del fidanzamento, della presentazione canonica alle famiglie di entrambi,  fino ad un possibile happy end.

        Passa il tempo veloce all’interno delle brevi storie, si riassumono epoche e fasi della vita, crescono i figli e talvolta  si sostituiscono ai genitori sul posto di  lavoro. Sono per lo più famiglie piccolo borghesi, gente con un titolo di studio, amante dell’arte, della musica, della letteratura. La narrazione procede con  un affabulare sereno, come nei racconti a veglia tra amici.

      Ma se passa il tempo veloce all’interno delle storie, questo trascorre anche nella vita reale. E il narratore a poco a poco apre agli incontri tra vecchi amici, tra compagni di studio o di lavoro, che si ritrovano dopo anni e leggono i danni del tempo l’uno sul volto dell’altro.

     Il maschio si avvicina comunque alla femmina, magari ancora piacente, magari una vecchia fiamma; talvolta è stato un amore che allora non si è potuto realizzare ed ora scoppia di nuovo nonostante gli anni in mezzo.

      Ma talvolta gli anni passati sono talmente tanti e tante le trasformazioni fisiche e psicologiche, che l’incontro crea illusioni che la notte distrugge.

    La solitudine che accompagna l’avanzare della vecchiaia fa capolino, bisogna alla fine conviverci. Si può trovare consolazione nel piacere della lettura e nella bellezza della Natura, quando si ha la possibilità di raccogliere con uno sguardo pianura, fiume, colline, in un avvicendarsi di colori e di luce.

      E il narrare si carica di nostalgia, di persone, di luoghi, di età della vita lontane.

       Il procedere quasi a mo’ di favola si completa con due racconti finali,  Il gatto Isidoro e il lupo, e I due popoli.

       Soprattutto quest’ultimo contiene un bisogno ed un auspicio di concordia e di pace, che si fa sempre più forte in chi ha vissuto una vita già ricca di decenni: nato dall’amore di un re e una regina confinanti che si uniscono in matrimonio, il territorio diverrà un regno unico per volontà del figlio loro erede: “Quando il figlio raggiunse i venti anni, i genitori lasciarono a lui la guida dei loro sudditi. Così i due regni divennero uno”.

 Giuseppe Ciri, La violinista. E altre storie,

Marco Del Bucchia Editore 2021, 

pag. 210 € 17,50

 

 

04 gennaio 2022

“I due minatori” di Margaret Bourke-White

 


nota di Gianni Quilici

E’ una foto splendida. E’ la foto che la stessa autrice, Margaret Bourke-White, definì come sua “preferita”. Siamo nel 1950, in una miniera d’oro, a Johannesburg nel Sudafrica  con due giovanissimi minatori. E’ una foto splendida, perché esprime una contraddizione esplosiva, che non si coglie al primo sguardo, perché più implicita che esplicita.  

Infatti è sufficiente aver letto racconti o inchieste giornalistiche o essersi imbattuto in qualche pellicola  per immaginare quanto sia disumano, oltre ogni umanità, aver lavorato (o lavorare) in miniera. Aver lavorato ( o lavorare) dentro le viscere della terra, con una temperatura, in questo caso, di 38°,  con un’aria irrespirabile, buio, polveri mortali,  umidità e lavoro di mani,  braccia,  schiena  con picconi, pale, carrelli per 8-10 ore senza soste. Quanto può durare una vita! Quanto sarà durata la vita, per esempio, di questi giovinetti? E che vita sarà stata?

Qui tuttavia ciò che  colpisce al primo sguardo è la bellezza  dei due giovani minatori.  E’ la dignità del loro sguardo abbandonato (l’uno), circospetto (l’altro) e comunque poco definibile. E’ la nobiltà della loro postura, che li fa sembrare, nella loro naturalezza, statue viventi. Sono i caschi poverissimi da minatori con la torcia elettrica sovrastante, che  formano una sorta di aureola intorno al capo. E’ lo sfondo buio della miniera che fa risaltare il biancore delle pupille. E’ il torace nudo e virile  su cui scorrono fitte le goccioline di sudore che, oltre  oltre a segnalare la fatica del lavoro, infonde alla foto un tocco poetico, quello che forse Roland Barthes avrebbe definito il punctum dell’immagine.

Una domanda tuttavia sorge. Non è uno scatto troppo estetico che sorvola il dramma che enuncia appena? Margaret Bourke-White realizzò un reportage sull’Apartheid in Sudafrica, ma riuscì a ottenere l’accesso alla miniera  solo attraverso eccezionali misure di sicurezza (possiamo immaginare quali fossero) e con la diffidenza “politica” dei proprietari. E questo ritratto non solo non falsifica niente, ma scolpisce con la pellicola un’umanità e una bellezza che saranno distrutte.

 Margaret Bourke-White. Johannesburg. 1950