14 novembre 2024

"Scuola e fantascienza, un rapporto difficile" di Luciano Luciani

 


 

           Sconcerto, disappunto, rabbia: questa la gradazione, in crescendo, dei sentimenti della Professoressa delle Medie nello scoprire il genere delle letture del suo giovane discente.

 

        Eravamo alla fine degli anni '50 in una scuola alla quasi, allora, periferia di Roma e in una tranquilla discussione in classe sui libri preferiti da noi giovinetti alle soglie del "teenagerato", era venuta fuori la mia più che annosa. nonostante la giovane età, frequentazione con i BEM (i Bug-Eyed Monsters, i mostri dagli occhi d'insetto) che riempivano allora le pagine dei volumetti diUrania”. Mitici se si vuole, ma bruttini anzichenò: ora per le edizioni non integrali e maltagliate, ora per le traduzioni approssimative, ora per gli autori talora di grande valore, sovente sconosciuti e discutibili.

 

         Il primo incontro tra i due mondi, quello della mia scuola e quello della mia fantascienza di allora, non fu onestamente memorabile. Venni invitato dalla brava donna - una nobile figura di educatrice e una mamma per tutti noi - a liberarmi quanto prima dal mio "vizio" assurdo. Pensassi, invece, a dedicarmi con più passione di quanta ne avessi dimostrata fino a quel momento ai Classici e al latino, evitando così le brutte figure scolastiche e le "borse" sotto gli occhi.

Certo, a rileggerli ora gli oggetti dello scandalo, i fin troppo agili volumetti di Urania della seconda metà degli anni Cinquanta, così pieni di trovate mirabolanti, ma anche di comici esempi di cattiva scrittura, così zeppi di ossessioni anticomuniste espresse sotto metafore granghignolesche, bisogna ammettere che la brava donna che mi infelicitò la vita col suo latino non avesse tutti i torti.

 

         Non pervenuta la sf neppure al ginnasio e al liceo. La scuola continuò a ignorare la fantascienza, che, letta in condizioni di semi-clandestinità, occultata sotto il banco, patrimonio di una sparuta minoranza oppressa, finiva per essere vittima sia della pesante tradizione accademica che ha sempre gravato sulle nostrane vicende letterarie, sia della propria lentissima emancipazione dall'imbecillità stilistica.

        Comunque, onore al merito e alla mondadoriana collana “I romanzi di Urania”/“Urania”, governata dalle mani sapienti del suo primo curatore, Giorgio Monicelli, fratellastro del più celebre regista Mario, scrittore, traduttore e partigiano garibaldino. È proprio Giorgio a coniare il termine italiano di “fantascienza” per indicare una nuova letteratura proiettata verso spazi lontani, lontanissimi, e tempi ancora a venire. Problematica, minacciosa, ma sostanzialmente ottimistica, la sf viveva dello spirito del tempo: un’attesa nella realizzazione delle “magnifiche sorti e progressive” promesse dal formidabile sviluppo delle scienze e delle tecniche nel secondo dopoguerra e l’aspettativa di un’epoca di pace, fragile e insidiata, ma sempre pace. Il racconto di una storia futura, attento nei suoi prodotti migliori anche ai non trascurabili aspetti etici di quanto avverrà… 

         E se l’”Urania” di Monicelli ha buon gioco nell’attingere a piene mani dagli Autori fondamentali – Arthur C. Clarke, Van Vogt, Clifford Simak, Eric Frank Russel, Isaac Asimov… - Monicelli guarda senza particolari prevenzioni anche agli Autori italiani - qualcuno già c’era -  spesso costretti, però, a celarsi dietro pseudonimi vagamente anglicizzanti. Qualche nome? Lo stesso Giorgio Monicelli; il prolificissimo Franco Enna, che nasce Cannarozzo, giornalista, autore oltre che di sf (L’astro lebbroso, n. 73) di non pochi e neppure disprezzabili polizieschi, riconosciuto da Andrea Camilleri come il suo maestro; lo sceneggiatore Ernesto Gastaldi, travestito dietro lo pseudonimo di Julian Berry (Iperbole infinita, n. 220); Luigi Rapuzzi Johannis (C’era una volta un pianeta…, n. 41; Quando ero “aborigeno”, n. 110); le sorelle Maria e Ornella de Barba (Gli infiniti ritorni, n. 272) nascoste dietro l’unico nom de plume di Marren Bagels e altri pochi…

        Tra tutti, però, spicca Samy Fayad, e il suo Ulix il solitario, “Urania”, n. 208, 1959, copertina di Carlo Jacono, pubblicato quando la conquista dello spazio era ancora ai primordi, a metà strada tra lo Sputnik che girava sopra le nostre teste (ottobre ’57) e lo scomodissimo viaggio nel cosmo di Yuri Gagarin (aprile ’61) che, per alcuni anni, nella corsa alle stelle, sembrò assegnare il primato ai sovietici “rossi” e alla falce e martello.

          Letto alle soglie dell’adolescenza, intorno ai 12 anni, quando la scuola media di allora dopo la lettura dell’Iliade mi aveva appena proposto quella dell’Odissea, la storia di questo Ulisse giunto degli spazi profondi mi impressionò non poco per l’acuta sensibilità dell’Autore nel rielaborare il mito dell’eroe omerico, proiettandolo in un futuro non indistinto, ma immediato e tangibile. Navigatore stellare alieno, naufrago sul nostro pianeta, accogliente sino a indurre pericolose forme di oblio, Ulix non rinuncia mai alla speranza di poter tornare un giorno a unirsi all’amata Karen, una Penelope galattica distante anni luce e, forse, persa per sempre. La sua tenacia lo premierà? A quel che ricordo, sì.

         Narrazione di una diversità e dell’isolamento che ne deriva, condotta secondo toni elegiaci più che tragici, Ulix il solitario è opera di uno scrittore e giornalista, Samy Fayad, di origini libanesi, nato a Parigi nel 1925 e fattosi napoletano alla fine degli anni trenta. Autore di radiodrammi e testi teatrali di qualche notorietà, portati al successo da Nino Taranto, Fayad intercetta con disinvoltura la scrittura fantascientifica in questa e in un’altra occasione, La collina di Hawotack, “Urania”, n. 261, 1961, di cui, dopo più di sessant’anni, conservo vaga, eppure non sgradevole, memoria.

08 novembre 2024

"L'inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia" di Michele Ruol

 


di Marigabri

Come si sopravvive al dolore?

Da questa domanda fondamentale parte la ricerca letteraria di Michele Ruol che in questo racconto intenso e doloroso non cerca risposte ma descrive situazioni, rievoca a poco a poco memorie, mostra istantanee di un presente estraniato, a partire da un elenco di oggetti di uso quotidiano. Perché il mondo inanimato che circonda il buco nero del lutto rimane identico a se stesso. Lo tsunami che ha abbattuto le persone di Madre e Padre non ha nemmeno sfiorato la foto sul comodino, il telefono fisso, la mensola, il pentolino, il tappeto, il cavatappi…

E così si addensano memorie nelle cose che additano il vuoto del lutto con il loro silenzio e la loro pura e innocua presenza.

Le cose rimangono le stesse ma nel frattempo l’ombra di un dolore inconsolabile ne ha sfregiato per sempre l’imperturbabilità.

Le cose non sono più contorno neutrale al servizio di chi se ne serve. Sono segni incancellabili, simulacri di un viaggio senza speranza e senza ritorno.

Che cosa resta dopo la devastazione? Quali emozioni, domande, tormenti susciteranno quegli oggetti inanimati che hanno perduto ormai la loro innocenza?

Con stile asciutto e scrittura che attinge inchiostro dagli abissi questo libro ce lo racconta, e l’originalità non è il suo unico pregio.

Premio Giuseppe Berto 2024.

Meritatissimo.

Michele Ruol. Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia. Terrarossa edizioni

 

27 ottobre 2024

"La casadei notabili" di Amira Ghenim

 


di Giulietta Isola

“Ricordo che la mattina dopo le nozze, quando era sposato da una notte appena, tuo nonno lo ha fatto chiamare per colazione e gli ha detto lisciandosi i baffi: “Dì alla figlia di ar-Rassà, tua moglie, di dimenticarsi quello che faceva in casa di suo padre, perchè le leggi in vigore qui sono le nostre, quelle di casa en-Neifer… E qui nessuno entra o esce senza un motivo valido. Questa è una casa all’antica.”

          Ambientato a Tunisi a metà degli anni ’30, il romanzo dell’accademica e autrice tunisina Amira Ghenim, è un omaggio alla figura dell’intellettuale e riformatore tunisino Taher al-Haddad, autore nel 1930 del testo La nostra donna nella sharia e nella società che quando uscì creò un tale scalpore da renderlo un reietto fino alla fine della sua vita, condannandolo alla miseria e alla vergogna. 

 

        Al-Haddad è il protagonista silenzioso di questa grande saga familiare che è allo stesso tempo un affresco sociale, politico e culturale della Tunisia di quel periodo. Il racconto narra le vicende di una famiglia altolocata e molto conservatrice di Tunisi, gli en-Neifer, composta dalla madre lella Jnaina, il padre si Othman, i due figli Mohsen e Mhammed e la nuora Zubaida, moglie di Mohsen. La tranquilla vita domestica viene scombussolata dall’arrivo di una lettera per Zubaida durante una sera come tante, quando la famiglia è riunita nella grande casa nella medina di Tunisi. Sarà l’inizio di una serie di eventi drammatici che coinvolgeranno anche la famiglia di Zubaida, gli ar-Rassa, progressisti e liberali, nonché le domestiche degli en-Neifer e altri personaggi. 

        Ghenim costruisce un romanzo polifonico, ogni capitolo è affidato a un personaggio diverso che racconta i fatti di quella tragica notte dal proprio punto di vista, svelando di volta in volta dettagli e retroscena e arricchendo il racconto con altre storie che hanno per protagonisti personaggi della società, della politica, e della cultura tunisina di quel tempo e dei decenni successivi. 

        Emerge un affresco vivacissimo di una società che anela l’ indipendenza, mentre sullo sfondo si anima il confronto tra chi è favorevole all’istruzione e ai diritti delle donne e chi ancora contrario. Sarà il primo presidente della nuova Tunisia indipendente, Habib Bourghiba, a sancire la vittoria dei primi sui secondi con la promulgazione, nel 1957, del Codice dello statuto della persona, che garantì alle donne tunisine molti diritti, scuotendo alle fondamenta una società ancora molto patriarcale e ridando gloria e fama all’intellettuale che per primo, a metà degli anni ’30, aveva tracciato il passo: quel Taher Haddad, la cui vita sfortunata fa da sfondo alle vicende raccontate nel libro. 

        Fra aneddoti e descrizioni , proverbi e modi di dire comuni, credenze e magia popolare l’autrice sfoggia una cultura e una proprietà di linguaggio non comune per raccontare un dramma a tutti gli effetti: un matrimonio distrutto dai sospetti, liti tra fratelli, violenze inaudite, vergogne, odi segreti eppure è presente un’ironia di fondo e un delicato humor che alleggerisce storie di schiavitù, di ingiustizie e di cieca sottomissione. 

       Amira Ghenim incanta e tiene incollati alla pagina per la meticolosa ricostruzione storica, la caratterizzazione dei personaggi magistrale, curata e profonda grazie a un’acuta introspezione psicologica, la scrittura è raffinata, elegante, ricca di sfaccettature, impregnata di odori, sapori, colori, musicalità diverse. Un libro emozionante che aiuta a comprendere l’evoluzione del ruolo delle donne verso la moderna società tunisina.

LA CASA DEI NOTABILI di AMIRA GHENIM E/O EDITORE