30 ottobre 2008

MEIN FÜRER di Dani Levy

La veramente vera verità su Adolf Hitler

di Ilaria Sabbatini

«La misura della soluzione finale, non la deve prendere come una cosa personale» si giustifica Goebbels con Adolf Grünbaum, attore di fama internazionale nella Germania degli anni venti. Solo che il professor Grünbaum - come lui pretende di essere chiamato dai vertici del reichtstag- è ebreo. Si può ridere di Hitler e capovolgere in grottesco il terrore che lo ha accompagnato nella sua perversa parabola politica? Secondo Dany Levy, sì. Non solo si può farlo ma si può proporlo scientemente come provocazione e come catarsi. «Veniamo a conoscere continuamente dei fatti nuovi. Però una vera discussione morale sull'epoca viene sempre evitata» dice Levy. Questo film non ha avuto riconoscimenti né cerimonie, eppure è uno di quelli che, finita la visione, lascia senza parole. Viene da chiedersi cosa si sia svolto in realtà davanti ai nostri occhi, quale sia il sottotesto e non ci sono rispose semplici. Mark Twain sosteneva: « The human race has one really effective weapon, and that is laughter». Questa è in effetti l'essenza dell'opera di Levy. Un'arma incruenta contro la disumanizzazione e le soluzioni manicheistiche. Ricco di citazioni autoriali, il film si pone ad un livello di speculazione molto più complesso di quello che appare, come se avesse molteplici livelli di significato. Le trovate di un fürer impotente, affetto da mille vizi maniacali e vezzi grotteschi sono solo il contorno del vero nodo del racconto. Eppure Levy non mira a caso perché quando gioca sulla difficile infanzia del gerarca si basa sul libro di Alice Miller che, ne "La persecuzione del bambino", ha documentato i maltrattamenti psico-fisici subiti da Hitler per mano del padre. Se questo è lo sfondo dissacrante, in primo piano c'è un altro fatto altrettanto documentato: Hitler ha realmente avuto un maestro di recitazione che gli insegnava la respirazione e i gesti della sua oratoria. Levy da un volto al mentore del dittatore, immagina così che dietro alla sua terribile figura si celi un piccolo attore ebreo che insegna i segreti della retorica al grande demagogo. Di lui il padrone dell'Europa ha bisogno per recuperare la fiducia in sé stesso proprio nel momento più critico della sua tremenda avventura militare. E' il gioco del disvelamento la sempiterna favola che rivela la nudità del re, il quale assume le sembianze insolite del più angoscioso protagonista del Secolo Breve. Onestamente si fa fatica a collocare Mein Fürer tra le commedie perché non corre verso l'epilogo fulminante come il virtuosistico Train de vie, non intenerisce come La vita è bella, non usa la caricatura come The producer, non fa tanto ridere insomma. O meglio non fa ridere programmaticamente bensì trattiene sempre il riso sul confine dello stupore. «Tutto rimane doloroso e fa paura. Il film non offre soluzioni a questo» glossa l'autore. Del resto, visti i tempi che corrono, dubito che ormai faccia ridere perfino il capolavoro di Chaplin cui evidentemente l'intreccio di Levy deve molto. E' una storia la sua che non fa sconti a nessuno: l'ebreo non riesce a uccidere l'incarnazione dell'antisemitismo, fallisce nel tentativo di salvare gli ebrei del proprio campo e può a malapena sottrarre al lager la numerosa famiglia. L'equilibrio del film va cercato altrove, non nella riproposizione di fughe impossibili, storie patetiche o ucronie fantastiche. L'ironia a tratti feroce della sceneggiatura fa piazza pulita di ogni buonismo e pone sarcasticamente domande mirate a scuotere la coscienza civile della nostra epoca. "Perché l'ebreo non si ribella? Niente coraggio? Non avete rabbia?" Grünbaum replica con un diretto micidiale, ma la domanda rimane, oltrepassando l'appartenenza, interpellando tutti indistintamente. Si può ridere del fürer? Certo, si può, perché decostruendo la retorica di regime, di ogni regime, rivelandone l'implicita contraddizione, si scaraventa il mito più oscuro del novecento giù dal podio degli eroi negativi e lo si offre allo sberleffo generale capace di riportarlo alla dimensione di un banale essere umano, meschino nella sua stessa abiezione.