06 febbraio 2011

“Il cappotto” di Nikolaj Gogol

di Gianni Quilici

Inizio a leggere con grande piacere “Il cappotto” per il modo con cui prende forma il protagonista, lo scrivano Akàkii Akàkievic.

Dapprima egli si presenta completamente assorto nel suo lavoro al punto di continuarlo la sera in casa. Un semplice lavoro di tipo meccanico, da cui tuttavia ricava una felicità vera, pur sotto gli occhi derisori dei colleghi. Questo piacere continuerà quando sarà costretto a farsi cucire dal sarto un cappotto nuovo, di cui ha assolutamente bisogno, essendo il vecchio non più riparabile. Il cappotto gli costa sacrifici non indifferenti, ma proprio questo processo di conquista lo rende felice; il cappotto non sarà ai suoi occhi semplicemente uno strumento d'uso, ma un compagno, uno scopo per cui vale la pena vivere.

C'è in Akàkii Akàkievic per un verso una alienazione (doppia: nel lavoro e nel cappotto) che lo rinchiude in quell'orizzonte limitatissimo; per un altro verso c'è felicità, perché egli non riconosce altre possibilità, quello è il suo modo di essere e di esistere, paradossalmente di ri-crearsi. Non esiste per Akàkii Akàkievic la monotonia di copiare passivamente, senza alcuna elaborazione personale; esiste il piacere di assolvere un compito, senza responsabilità ulteriori.

Lo sguardo di Gogol è divertito; è simile allo sguardo di uno spettatore che racconta ai suoi lettori, ai quali si rivolge direttamente, ciò che ha visto e che sa, giocando a volte con essi, perché non tutto sa, non tutto ha visto.

Ci sarà, come è prevedibile, la catastrofe: il cappotto gli verrà sottratto con la forza, lo scrivano si rivolgerà alle autorità competenti e a un “pezzo grosso”. Tutti lo tratteranno con alterigia e disprezzo. Di questo morirà. Una morte rapidissima.

Da qui, da questo momento il cambiamento di stile dello scrittore: da realistica la prosa di Gogol diventa fantastica.

Akàkii Akàkievic muore, infatti, ma il suo fantasma continuerà ad agitare la notte dei pietroburghesi attraverso “inafferrabili ma efficaci azioni sui vivi”, sopratutto verso l'ultimo delizioso ritratto (insieme a quello mirabile del sarto), il cosiddetto “Pezzo grosso”.

Clemente Rebora, traduttore, in un'analisi particolareggiata, nel complesso molto sottile, scriveva: “Fra la parte realistica del racconto e quella fantastica la saldatura è moralmente perfetta, e artisticamente quasi riuscita (...)”.

A me pare, invece, questa la parte debole del racconto, perché la svolta data da Gogol mi sembra di tipo ideologico. E' più la vendetta dello scrittore che quella del personaggio. Infatti lo scrittore russo dà oggettivamente una dimensione diabolicamente simbolica al povero scrivano,che realisticamente non aveva, facendolo diventare un fantasma persecutorio; allo stesso modo mi pare poco verosimile il profondo senso di colpa, da cui rimane attanagliato il “pezzo grosso”.

E tuttavia, letta con gli occhi dell'epoca, questa svolta trova una ragione. Scriveva ancora Clemente Rebora che questi effetti soprannaturali trovavano “un punto d'appoggio intuitivo nelle felici superstizioni d'allora, quando si credeva che le anime dei defunti ritornassero ad operare illuminatamente quaggiù; e si prestava fede soprattutto nelle apparizioni dei fantasmi (...)”.

Nikolaj Gogol'. Il cappotto. Traduzione, note e annotazioni di Clemente Rebora. SE.









































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