29 marzo 2012

Appunti in margine a "Poesia che mi guardi" di Antonia Pozzi

di Davide Pugnana

Spiare cenni arcani di partenza”: silenzio e parola in Antonia Pozzi.

Anche perché l’anima dell’opera non è poi così diversa dal soffio vitale dell’artista, la cui pulsazione di respiro trapassa nell’enunciato. Tale soffio articola cioè una forma, crea una voce, più voci. L’opera riesce, quando ricrea nel silenzio della parola scritta il suono della vita che l’ha generata.” (Nadia Fusini)

Mentre la materia prima da cui viene ritagliata la letteratura è la parola, il mistero della poesia è costituito da silenzi che le parole si limitano e circoscrivere e valorizzare. Il mistero non è però mai nebuloso.Esso comincia al di là, non al di qua della trasparenza.” (Ana Blandiana)


Sulla soglia dell’ultima e più organica raccolta pubblicata in Italia sugli scritti, in poesia e in prosa, di Antonia Pozzi, Poesia che mi guardi, luca sossella editore, Bologna, 2010, pp. 650, euro 20, troviamo una nota in corsivo che tocca un punto nodale della storiografia letteraria: invita a riflettere intorno alla presenza di un “catalogo delle rimozioni”, una galleria di figure deraciné che conta un numero altissimo di agnelli sacrificali proprio sul terreno della ricerca lirica femminile. Questo oscuramento dei percorsi poetici femminili si fa visibile soprattutto a partire dall’esclusione sistematica delle poetesse italiane durante la formazione del cànone poetico novecentesco, cristallizzato dalle due antologie più famose, quella di Pier Vincenzo Mengaldo (che include un manipolo di testi di Amelia Rosselli) e quella di Edoardo Sanguineti. Nel corso di questo processo di periodizzazione e di sistemazione delle poetiche del Novecento, i nomi delle poetesse italiane sono totalmente assenti. Salvo due non trascurabili eccezioni: la Lirica del Novecento (1961) di Anceschi-Antonelli accoglie alcuni testi di Sibilla Aleramo e, rubricandole in area ermetica, tre liriche di Antonia Pozzi; mentre un altro accenno a questa produzione marginale si collocava, dieci anni prima, all’altezza del 1951, nell’antologia Poetesse del Novecento, allestita da Giacinto Spagnoletti e rimasto celebre atto di nascita della carriera poetica di una giovanissima Alda Merini. Questa zona di silenzio, e, di riflesso questo “catalogo delle rimozioni” letterarie femminili, è oggi colmata dalla pubblicazione dell’antologia L’altro sguardo. Antologia delle poetesse del Novecento” , un bacino di testi che coprono più di un secolo di storia letteraria mondiale. È utile segnalare questo florilegio non solo perché la sua comparsa in Italia potrebbe innescare una rilettura, o perlomeno un allargamento, del cànone poetico novecentesco in direzione femminile; quanto perché al suo interno, tra Elsa Morante e l’americana Muriel Rukeyser, compare Antonia Pozzi con otto liriche.

Accanto a queste poetesse della scena mondiale, Antonia Pozzi si arricchisce di sfumature nuove. Affiancata ad altri percorsi, la sua direzione di scavo e di ricerca si dilata e partecipa all’alterità di una ‘sguardo’ poetico tutto votato allo scavo del dolore e alla ricerca di una parola assunta su di sé, sul proprio corpo, come scheggia nella carne. Come le altre poetesse, sebbene diverse per contesto e formazione, Antonia crea testi viscerali che spaventano per la loro radicalità conoscitiva; per quel sottosuolo, oscuro e doloroso, che una parola ‘crudele’ interroga e spinge verso scenari notturni e perturbanti, attraversati da presenze, voci, figure, luoghi, ma anche da un senso della perdita e della precarietà. Da una presenza del tempo interno, a cui Eugenio Borgna ha dedicato pagine di estrema acutezza, intrecciando queste tensioni sotto la luce nera della malinconia. Le preziose pagine di diario presenti nell’antologia Poesia che mi guardi svelano il lievito filosofico delle liriche e parlano con gli accenti acuti e ardenti dei documenti di vita. Il pensiero del 4 febbraio 1935 è frammento rivelatore del diario di un’anima che ha conosciuto presto lo svuotamento pietrificante della mente: “Il mio disordine. È questo: che ogni cosa per me è una ferita attraverso cui la mia personalità vorrebbe sgorgare per donarsi. Ma donarsi è un atto di vita che implica una realtà effettiva al di là di noi: e invece ogni cosa che mi chiama ha realtà soltanto attraverso i miei occhi e, cercando di uscire da me, di risolvere in quella i miei limiti, me la trovo davanti diversa e ostile. […] Anche in me gli schemi si dissolvono e nasce il realismo umano. O piuttosto vorrebbe nascere e non può, in nessuna forma della realtà può esprimersi, come un pianto che non trova gli occhi per cui sgorgare, un sorriso che non ha un volto in cui aprirsi. Rifiuti, da tutta la realtà, ad ogni passo. E ad ogni passo, nuove ricerche per una foce che non esiste. E che non deve esistere.” Una diagnosi che suona, per l’estrema lucidità, come spietata autoanalisi di una personalità d’artista alla ricerca del proprio essere-nel-mondo. Per Antonia Pozzi scrivere nasce o presuppone una ferita. Una ferita e un donarsi percorrendo catene di versi “senza dirigere le ginocchia, ritrovate per istinto una strada abbandonata da tempo”. Due lembi di pelle surriscaldati e il rosso che freme nello sbrego scoperto: ferire e donarsi non si escludono; sono sinonimi di apertura e sacrificio. Sono essenza segreta della scrittura-sacrificio. La parola poetica scava nel disordine di questo cuore opaco; cerca nello svuotamento feroce delle proprie certezze (“Gli schemi della mia personalità si sono rotti”, scrive Antonia) il germe fecondante dove l’interrogazione si fa sì più contorta e oscura; ma dove il pensiero, lucido e potentemente tentato, trova un polo irrinunciabile di materia. Comincia qui, in questo ombelico dell’inconscio, lo sbrego interiore che alimenta la pagina scritta. È lì che i punti di riferimento (le “cose vive che sfuggono” ad ogni tentativo di costruzione e di aggiustamento razionale) o le direzioni prestabilite saltano e si incurvano in una vertigine che scava buche di silenzi; in cui affiora lo spettro della malinconia. E tuttavia, come per una feconda contraddizione, è in questa breccia che lavora lo sguardo interrogante; è nello strappo che improvviso si dischiude, traslucida, la sfera del senso: quell’archeologia di oggetti del mondo interno da organizzare in prosodia poetica. “Ma che diritto ho io di parlare dei miei versi, come di qualche cosa che giustifichi la mia inerzia, la mia inattività pratica? Quando proprio dal dubbio, dalla sfiducia radicale nel valore delle mie pagine, mi è nato questo stato d’animo d’oggi, questa febbre di vedere chiari i miei limiti, questa volontà di accentramento?”. Il flusso interno di esistenza si ingolfa e si fa diaframma di rocce in gola, che impedisce il canto poetico. Spesso ci si piega sulla pagina con una sensazione di orfanità molto simile a quella che si prova entrando “in una casa da cui ci si è staccati per colpa nostra”. L’orfanità del malinconico non nasce da un abbandono esterno o da un trauma biografico; ma da un’incapacità interna di abbandonare, o, meglio, di accettare il lutto delle cose; da una sorta di impossibilità di messa a morte degli oggetti interni. E sulla quale s’allunga l’ombra di un senso di colpa della cui natura ancora sappiamo poco. Il viaggio del poeta è un eccesso di consapevolezza delle cose: la “febbre del vedere” che acutizza lo sguardo di Antonia diventa attraversamento della ferita, la cui intensità condanna a scrivere. O a cercare la morte volontaria, come sarà per molte poetesse del Novecento. Come sceglierà Antonia, a ventisei anni.

Nella notte di San Silvestro del 1937 Antonia apre il diario e scrive. Siede nel silenzio della stanza; sempre implacabile nel frugare la ferita. Davanti a sé la chiarità della piccola lampada: “E questo terrore: mi perdo, non mi ritroverò, non mi riguadagnerò più. Piccole cose mi scalpellano, miserie mi corrodono.” Dal silenzioso scalpellio interiore delle ‘piccole cose’ nascerà il canzoniere di Antonia. È lavorando nella fusività, apparentemente antinomica, di parola e silenzio che troviamo uno degli impulsi generatori più profondi della poesia di Antonia. Ma per coglierlo appieno credo sia utile spostarsi sul versante della poesia straniera contemporanea. Cercare corrispondenze e conferme in un altrove geografico, in un’altra vita in versi, spiritualmente affine. Viene dalla poesia rumena la possibilità di una comparazione che - per la sua forza teorica e la sua affinità di registro con lo scavo poetico di Antonia Pozzi - permette di illuminare trasversalmente alcuni punti forti dell’uno e dell’altro processo creativo. Ciò a riprova di quanto sosteneva Madame de Stael circa l’utilità feconda della traduzione: per cui l’immissione di una voce poetica eccentrica rispetto al contesto avrebbe la capacità di innervarlo di linfe nuove e nuove prospettive di visione. Ecco che lo spunto interpretativo si appoggia proprio allo scritto in prosa di una poetessa rumena, Ana Blandiana, dal titolo La poesia, tra silenzio e peccato. Silenzio e peccato riecheggiano, per inconsci vincoli semantici, ferita e senso di colpa presenti nella tavolozza lessicale del diario di Antonia. Non è raro, leggendo i testi di Antonia, trovare la dimensione del ‘silenzio’: un silenzio restituito per figurazioni metaforiche e simboliche; in scenari ctoni e spazi nudi; attraverso certe fratture di ritmo che staccano le pause del dialogo amoroso tra l’io e un tu fantasmatico, muto e lontano; oppure nel recupero memoriale di luoghi d’intensità (la piccola stazione di Torre Annunziata dove le “a tratti parole si frangevano/ in sfumature lunghe di silenzio”); fino a toccare soluzioni opposte, meno intimiste e più aperte, come lo slancio di certi vocativi modulati sotto la notte o davanti a orizzonti marini; o, sul piano stilistico, con la scelta dell’esilità strutturale di certi versicoli, dal profilo di guglie eleganti.

Della natura di questo ’silenzio’ connaturato alla poesia, e così costante nel timbro di Antonia, cosa ci può dire la riflessione di Ana Blandiana? Prima di tutto che esso è un silenzio pieno, prossimo all’ascolto, o, meglio, ad un’attesa carica di tensione, porosa e assorbente verso i segnali del mondo esterno e dell’interiorità. In questa attenzione fluttuante prende corpo la parola poetica. Come nelle liriche di Ana Blandiana, così nella poesia di Antonia il silenzio agisce per circoscrivere e valorizzare il mistero, per rivestire la parola di funzioni poetiche, ossia dotarla di significati e polivalenze, ambigue e trasparenti a un tempo. Il silenzio da cui prende le mosse lo “sguardo” di Antonia è un margine sottile sul quale le percezioni si raccolgono a fascio: gli steli di tulipani “inarcati sul vuoto pesantemente”; il suono delle campane che riempie l’aria e incurva i pioppi; il “singhiozzo/ rattenuto, incessante della terra”; le grandi negazioni delle latitudini umane e metafisiche (“Non avere un Dio/ non avere un tomba/ non avere nulla di fermo/ ma solo cose vive che sfuggono”), o quei gouffres dai bordi sfrangiati che incrinano l’orizzonte di senso di tanti testi. Tutti questi elementi configurano e tematizzano questo ’silenzio’ di fondo. Basti pensare ad un testo esemplare come Novembre, nel quale il silenzio si asciuga nel tono fermo e desolato dell‘io lirico, vicino a diventare allegoria della precarietà esistenziale: E poi - se accadrà che io me ne vada -/ resterà qualche cosa/ di me/ nel mio mondo -/ resterà un‘esile scia di silenzio/ in mezzo alle voci - /un tenue fiato bianco/ in cuore all‘azzurro” .

Le affinità tra Ana Blandiana e Antonia si stringono. Scrivere versi, per entrambe, significa trovare “toni chiari e parole chiare”; lavorare affinché quell’oscurità, corteggiata da tanta poesia moderna, sia tradotta in un dettato di alta politezza formale, piano e comunicativo, ma, nel contempo, così dentro le cose da evitare il rischio di pizzicare corde ingenue e sentimentali.

L’istanza del silenzio, intesa dunque da Ana Blandiana come molla generativa della parola poetica, ritorna infine in un verso emblematico di Antonia: “spiare cenni arcani di partenza”. Di nuovo, la febbre del vedere che accompagna lo sguardo poetico di Antonia. È questo un verso che, per la sua potenza e la sua densità figurale, si impone come la più efficace definizione del pensiero poetante che permea il canzoniere di Antonia Pozzi. È come se in questa catena di parole fosse riuscita a chiudere la sua più lucida dichiarazione di poetica. Immerso in una porosità silenziosa, lo sguardo ‘spia’; si colloca nei tagli e nelle ferite della realtà e guarda fissamente, pronto a fermare i segni misteriosi, le cose minime, i sussulti latenti, a trovare i legami lontani. I “cenni” sono definiti, con aggettivo leopardiano, “arcani”; come venissero da un loro corso naturale, segreto, talvolta incifrato; sono oggetti emersi da un fondo oscuro, intermittenti, scheggiati. Sembrano aver concluso il loro viaggio, prossimi a disperdersi nel mondo; ma vengono raccolti per una nuova “partenza”, un viaggio conoscitivo che intende dimostrare qualcosa, dando ascolto al pensiero poetante che scova nessi profondi ed eleva le cose più semplici e quotidiane a poesia.


(questo scritto su Antonia Pozzi, qui ripreso e ampliato per LR, figura nel Registro dei progetti editoriali, a cura di Paolo Gervasi, luca sossella editore, Bologna 2011, pp.118)


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