20 novembre 2012

"L'olivo" di Luciano Luciani



Olivolì, olivolà…


L’oliva cantata
Tutta la geografia dell’olivo, dalla Puglia all’Umbria, dall’Abruzzo alla Toscana, dalle Marche alla Liguria è disseminata di semplici melodie  e versi ingenui che ricordano la fatica antica della raccolta delle olive, aiutano a far passare il tempo di lavoro e contribuiscono a ingannare la pene dell’ultima impegnativa opera campestre prima dell’inverno: nenie, tarantelle, rispetti, canti a due voci trattano, anche con qualche ironia, lo sforzo e le difficoltà della raccattatura.
Qui siamo a Molfetta:

Uè cummà Uelin
Com s’accoggghien l’aliv?
S’accogghien ad un ad un…

Ma più spesso il canto argomentava del sentimento amoroso. Così, la caduta dell’oliva dalla pianta veniva letta e metaforicamente rielaborata come il segno di una passione tanto inesausta quanto dolorosamente contraddetta. Tra i testi più belli quello intitolato Cade l’uliva, un accorato rispetto toscano, (variante regionale dello strambotto, antica forma popolare di poesia amorosa), riscoperto e cantato nei primi anni sessanta dalla voce straordinaria di una mai dimenticata Caterina Bueno:

Cade l’uliva e non cade la foglia
le tue bellezze non cadono mai,
sei come il mare che cresce a onde,
cresce per vento e per acqua mai.
E tu sei come l’erbo tenerino,
quanto più cresci più’dveti bellino;
e tu sei come l’erbo tenerello,
quanto più cresci più doventi bello.

Almeno altrettanto intenso e ricco di poesia Addio, addio amore, un canto abruzzese dell’area di Ortona, in cui, anche in questo caso, i frutti e le foglie che giunti a maturazione si staccano dall’olivo sono paragonati a un sentimento d’amore che, come tutte le cose di questo mondo, è destinato a finire:

Nebbi’a la valle e nebbi’ ala muntagne
ne la camapagne nen ce sta nesciune

Addije, addije amore
casch’ e se coje
la live e cascha l’albere li foje

Cascha la live e casche la ginestre,
cascha la live e li frunne ginestre

Addije, addije amore
casch’e e se coje
la live e casch’a l’albere li foje


L’oliva, un cibo da strada
Si facevano vedere agli angoli delle strade, ai margini dei mercati, in occasione di modeste fiere di quartiere o di festività patronali o anche agli ingressi dello stadio Olimpico, quando urgeva qualche evento sportivo pallonaro che richiamasse gente. La loro apparizione coincideva con i primi temporali, quelli che spezzavano definitivamente la calura estiva e preannunciavano già l’autunno. Li chiamavamo “olivari”, conosciuti anche nella variante “olivaroli”, oppure “olivedorci” dal grido con cui segnalavano la loro presenza ai potenziali clienti. Erano i venditori ambulanti di olive fresche, conciate, immergendole in una soluzione al due per mille di soda caustica, e mantenute in acqua appena appena salata: un mestiere antico nella capitale, documentato sin dal XVII secolo.
Un lavoro stagionale, il loro, che durava dalla fine d’agosto (d’altra parte la saggezza popolare ha sempre affermato che “Per l’Assunta” - 15 agosto – “l’oliva è unta”), sino all’autunno inoltrato quando l’oliva, ormai matura si scuriva sull’albero e si faceva sempre più adatta per la mola del frantoio.
Per pochi spiccioli, l’”olivaro”, organizzatosi con un banchettino precario, recipiente in coccio e mestolo bucherellato, te ne riempiva un cartoccio a forma di cono di robusta carta gialla, quella da pane, che, se pure s’intrideva di salamoia, era in grado di resistere sino all’ultima oliva.
Un piacere aggiunto a quel sapore dolce/salato consisteva nello sputare il nocciolo e colpirlo col piede al volo, urlando: “Tiro. Goal!” trasformando così, immantinente, per lo straordinario potere delle fantasia ragazzina, ognuno di noi negli amatissimi centravanti della Roma, della Lazio, della Nazionale…
Un gioco rumoroso e blandamente atletico che al gusto dell’oliva ne aggiungeva altri, indimenticabili. Quelli dell’infanzia che si faceva adolescenza, dell’amicizia virile, di una spensieratezza semplice. E per dirla col poeta:  Pochi momenti come questi belli…

Olive malandrine
Nel gergo malandrino della piccola criminalità milanese del secolo scorso, quella bonaria, capace ancora di un suo codice d’onore, non feroce come l’attuale, “farsi un’oliva” significava rubare una macchina per scrivere, quindi, per antonomasia, un’Olivetti. Oggi, quell’azienda all’avanguardia del progresso tecnologico quale si configurava cinquant’anni fa, un gioiello della nostra industria leggera del dopoguerra non c’è più. Fatta oggetto di speculazioni finanziarie, depotenziata, smantellata, ridimensionata sopravvive melanconicamente in qualche piega del mondo volatile della cosiddetta telefonia mobile e non ho idea di come gli attuali ladruncoli lombardi possano designare fra loro l’atto poco bello di sottrarre ai legittimi proprietari un computer portatile.

Le olive, al plurale, per la loro forma ovoidale, non potevano non trasformarsi nella facile metafora sessuale dei testicoli: per cui “cambiare l’acqua delle olive” è un modo appena appena meno garbato del più diffuso e ipocrita “andare a lavarsi le mani” e senz’altro meno diretto di “fare un po’ d’acqua”. Tutte interdizioni di decenza sempre meno diffuse, ci pare, nel nostro parlare quotidiano. E, sempre per rimanere nell’area delle parti basse, oliva è la vulva e olivetta il (la ?) clitoride, dettaglio anatomico divenuto strategico nel dibattito femminista degli anni settanta e poi, però, in gran parte dimenticato.

Olive televisive
Se dico “Società Anonima Commercio Lavorazione Alimentari”? Nessuna reazione, nessuno la (ri)conosce. Se utilizzo il suo acronimo SACLA, magari a qualcuno viene in mente qualcosa. Se metto l’accento sulla seconda A, trasformando SACLA in SACLÀ, allora sì che si affollano i ricordi… Legati naturalmente a Carosello, una delle più felici invenzioni della televisione italiana, che, all’inizio del miracolo economico, lasciava intravvedere i segni di un modesto benessere e si lasciava alle spalle il ricordo di annose povertà e, soprattutto, la memoria recente degli anni duri del dopoguerra. Gli adulti maturi di oggi, allora bambini, ricordano ancora le buffe storielle televisive che a partire dal 1957 nell’arco di un paio di minuti attraverso moderne, sorridenti favolette ti sottolineavano la qualità, bontà, economicità di un prodotto
Così, una parola di due sillabe, tronca e insensata, alla fine degli anni sessanta riuscì ad avvicinare la famiglia italiana a nuovi consumi: prodotti alimentari vegetali, conservati sottolio o sottaceto in grandi confezioni di vetro trasparente, disponibili non più solo stagionalmente, ma per tempi anche assai più lunghi. Una novità per i tempi perché la SACLÀ è stata la prima azienda conserviera a comunicare e promuovere la propria immagine presso i consumatori. Un’operazione che avvenne, al solito, attraverso le immagini di un vero e proprio film in miniatura e un jingle (motivetto musicale) che definire accattivante è dire poco: Vi ricordate le anche le parole? Follemente indimenticabili: Olivolì, Olivolà, Olivolì, Olive SACLÀ !  E destinate nel giro di pochi giorni a diventare in famiglia, a scuola, sui luoghi di lavoro dei veri e propri ‘tormentoni’, fischiettati, ripetuti all’eccesso, riadattati. È la pubblicità, bellezza!
Per me, in quegli anni poco più che adolescente, le SACLÀ in particolare ma in genere tutte le olive da allora assumeranno le fattezze di una bella e brava cantante, attrice e show girl che in quegli anni ha interpretato alcuni degli ilari raccontini televisivi di Carosello (la parola spot ancora non era ancora arrivata!) che magnificavano i vantaggi di un’alimentazione a base di olive: si chiamava Minnie Minoprio, era di origini italo-inglesi e così sexy che una sua esibizione televisiva provocò addirittura un’interrogazione parlamentare.
Un’altra Italia, un’altra televisione, non saprei davvero dire se migliori o peggiori delle attuali!

(Pagine da Luciano Luciani, Un’oliva tira l’altra, collana I mangiari, mpf, Lucca 2012)




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