03 settembre 2009

"Nino Costa e la passione del vero" di Luciano Luciani




Si intitola “Da Corot ai Macchiaioli al Simbolismo. Nino Costa e il paesaggio dell’anima” la mostra aperta al pubblico nelle sale di Castello Pasquini a Castiglioncello e visitabile fino al 1 novembre di quest’anno. Tesa a indagare il ruolo svolto dalla Toscana del secondo Ottocento come crocevia culturale di respiro europeo, la mostra, curata da Francesca Dini e Stefania Frezzotti, s’incentra sul ruolo ‘strategico’ svolto dal pittore romano Nino Costa, all’origine delle più vivaci esperienze artistiche – e non solo – del complicato periodo compreso tra il Risorgimento politico e la belle époque.
Già, ma chi era Nino Costa e perché si torna a parlare di lui?

Tra fucile, cospirazione e pennello

Uomo appassionato alle vicende storico-politiche dei suoi tempi complicati e difficili e coerente protagonista e testimone degli anni del riscatto nazionale; pittore originale, raffinato ed apprezzato in Italia e ancor più all’estero; penna tra le più robuste ed incisive tra le numerose della memorialistica garibaldina, Nino Costa, “dopo avere offerto tutto il proprio magistero di stilista all’arte, tutta la propria virtù di cittadino alla patria” (F. Sapori) muore a Marina di Pisa il 31 gennaio del 1903, concludendo un’esistenza mossa, ricca, intensa che, ancora oggi, in occasione dell’anno centenario, merita di essere ricordata e studiata.

Romano, trasteverino di San Francesco a Ripa, Giovanni (Nino) Costa nasce nell’ottobre del 1826 da una famiglia di umili origini ma agiata e fedele al governo pontificio: il padre da modestissimo cordaio era diventato un rispettato industriale della lana e a Nino, quattordicesimo di sedici figli, è possibile studiare. La sua formazione avviene prima in collegio a Montefiascone, poi a Roma nel Collegio Bandinelli a San Giovanni dei Fiorentini, una delle più rispettabili istituzioni educative romane. Solo al termine degli studi regolari può finalmente dedicarsi alla pittura, per la quale sentiva una vivissima vocazione, frequentando, senza particolare soddisfazione per la verità, gli studi dei più apprezzati pittori romani del tempo: il barone Vincenzo Camuccini (1771-1844), esponente del neoclassicismo romano e Filippo Agricola (1795-1857), uno dei più noti esponenti del ritratto neoclassico di gusto raffaellesco. Ma la Storia con la S maiuscola irrompe ben presto nella vita privata del giovane Costa e lo distoglie da una sicura crescita artistica. Nel 1847 si iscrive alla “Giovane Italia” e l’anno seguente si arruola volontario nella Legione Romana: partecipa alla difesa di Vicenza e rimane nel Veneto anche dopo l’allocuzione papale del 29 aprile 1848, che sancisce l’inizio dell’involuzione politica del moto italiano. Rientrato a Roma, si fa notare per aver strappato, insieme a Gaspare Finali, le insegne austriache da Palazzo Venezia:democratico è prima accanto a Ciceruacchio, poi a fianco di Mazzini. Durante la Repubblica Romana, membro della Municipalità, si occupa di sanità, di ospedali, di approvvigionamenti, responsabilità che non gli impediscono di battersi valorosamente agli ordini di Garibaldi, che lo chiama a far parte del suo Stato maggiore. Nino è in prima fila a Villa Pamphili, al Casino dei Quattro Venti, al Vascello…

Moderato in politica, rivoluzionario in pittura

“Tornata Roma sotto al dominio dei preti, dovetti nascondermi perché compromesso politicamente ed allora mi dedicai alle arti belle sotto la direzione di un certo Massabò scolaro di Coghetti, quindi passai da Podesti né questo essendo ancora di mia soddisfazione entrai nello studio di Chierici, ma anche questo non mi appagava ed allora lasciava l’aria dello studio, e della stufa, gettandomi alla campagna onde studiare il vero all’aria aperta…”: così scriverà qualche anno più tardi il Costa a Diego Martelli, critico d’arte, amico e sostenitore dei Macchiaioli, esprimendo con semplicità e vigore le sue convinzioni sia politiche sia artistiche. Certo, il magistero dell’ anconetano Francesco Podesti (1800-1895), celebre ed affermato illustratore di soggetti storici, sacri e mitologici non poteva soddisfare l’ansia di verità del giovane artista romano. Così nel 1857 Nino Costa lascia Roma e si trasferisce ad Ariccia nei Castelli romani: qui, con maggiore pienezza gli è possibile essere immerso nelle luce e nei colori di quella Campagna romana, le cui rappresentazioni qualche anno più tardi lo avrebbero reso celebre in Italia e fuori d’Italia. Stabilisce vincoli d’amicizia e d’arte con importanti pittori inglesi quali Federico Leighton e George Mason che a Roma vivono e lavorano.
In questi anni partecipa anche alla generale evoluzione politica di molti rivoluzionari del ‘48/’49: si stacca da Mazzini, si avvicina alla monarchia sabauda, si fa moderato perché “per vincere cannoni e soldati occorrono cannoni e soldati, occorrono buone armi: buone armi e non ciancie. Il Piemonte ha soldati e cannoni: dunque io sono piemontese. Il Piemonte, per antica consuetudine, per educazione, per genio e dovere, oggidì è monarchico: io dunque non sono repubblicano”: uno stato d’animo diffuso tra l’opinione pubblica nazionalista della penisola negli anni Cinquanta del XIX secolo e ben espresso dalle parole, appena riportate, di una lettera di Aurelio Bianchi-Giovini all’ “Unione” di Torino.
Nella primavera del 1857, dopo una visita di Pio IX alle Legazioni, nel corso della quale il pontefice è accolto con freddezza se non con astio, Costa dà prova della sua intelligenza politica: sottoscrive un documento indirizzato al municipio romano in cui, con equilibrio ma con fermezza, si rivendicano amnistia e riforme.

Nino Costa e Giovanni Fattori

Due anni più tardi, alla vigilia della seconda guerra d’indipendenza, interrompe di nuovo l’attività artistica per arruolarsi nell’esercito piemontese nel reggimento cavalleggeri Aosta: un atto con una forte valenza simbolica che sta ad indicare la volontà dei romani di partecipare con pienezza di responsabilità alle vicende della causa nazionale. Subito dopo Villafranca torna alla tavolozza e ai pennelli: è prima a Milano, poi a Firenze dove frequenta l’ambiente degli artisti che che si ritrovano presso il Caffè Michelangelo. Sono i cosiddetti Macchiaioli, propugnano una pittura non di scuola, intesa, come ebbe a dire il più illustre tra loro, Giovanni Fattori, a riprodurre “l’impressione del vero”. Loro intenzione è quella di “rompere col passato accademico ed anche con la moda del momento, e riformare l’arte con la ricerca del vero, fatta nel modo più franco semplice e coscienzioso…”
L’incontro con Nino Costa è determinante per la maturazione artistica di Giovanni Fattori: durante lunghe passeggiate in campagna, occasioni che per il pittore toscano sono delle vere e proprie “lezioni” en plein air, Costa era solito spiegare la sua visione artistica e l’interesse per una rappresentazione sintetica e vera del paesaggio. E’ proprio Costa, mentre un giorno osserva Fattori impegnato nel suo studio nella realizzazione di una grande composizione avente per argomento un episodio della storia medicea medievale, a stimolarlo invece verso una pittura capace di rappresentare la realtà contemporanea: si racconta che Fattori, allora, abbia imbiancato la scena fiorentina e girata la tela per dipingervi sopra la straordinaria immagine di una battaglia tanto recente quanto decisiva per le sorti dell’unità nazionale. Nasce così la Carica di cavalleria a Montebello (1862) ed è uno dei quadri più celebri del Fattori, il primo di una serie di memorabili dipinti ispirati alle campagne risorgimentali che preceduti da infiniti studi dal vero rappresenteranno al meglio il suo essere artista e garibaldino.

Nino a Porta Pia

Nel 1862 Costa è a Parigi dove espone il quadro Donne che portano la legna a Porto d’Anzio, già presentato a Roma nel ’56 e a Firenze nel ’61. Il quadro è accolto senza difficoltà dalla giuria del “Salon” e contemporaneamente al “Salon des refusés” presenta uno Studio di alberi di olivo. Incoraggiato dal successo di questi due lavori, il pittore romano presenta ai colleghi francesi la sua raccolta di studi dal vero condotti sui luoghi e i personaggi della campagna romana e della costa toscana: li apprezza soprattutto Corot, l’anticipatore della rivoluzione degli impressionisti, un artista da sempre ammaliato dalla luce mediterranea. Da Parigi Nino Costa si trasferisce a Londra dove la sua ricerca artistica era già ampiamente conosciuta; quindi nel 1864 torna di nuovo a Roma, secondo la sua schietta ammissione “per cospirare”: un’attività non nuova per lui e che lo impegna per un triennio. Nel marzo del 1867, infatti, anche per impedire ai mazziniani di conquistare l’egemonia del movimento nazionale fonda un “Centro di insurrezione” e lo sostiene con i propri mezzi economici. Fedele alle indicazioni di Garibaldi lascia che l’organizzazione da lui promossa e sostenuta confluisca nella “Giunta Nazionale Romana” alla quale sola sarebbe spettato il compito di promuovere e guidare un moto insurrezionale che collegato con gruppi di insorti in azione nell’Agro romano avrebbe dovuto provocare l’intervento dell’esercito italiano. Nino esce da Roma, raggiunge Garibaldi a Monterotondo ed entra a far parte dello Stato maggiore del Generale. Si batte a Mentana e accompagna l’Eroe dei due Mondi fino a Figline, alle porte di Firenze dove Garibaldi è arrestato. E’ tra i firmatari della protesta per la sua detenzione. Poi ancora Firenze, ancora tavolozze e pennelli e si arriva al 1870. Nino è’ tra i primi ad entrare a Roma; in ottobre collabora all’organizzazione del plebiscito che restituisce Roma all’Italia. In novembre è eletto consigliere comunale, carica che ricoprirà per sette anni: esauriti gli incarichi amministrativi per oltre un quarto di secolo la sua esistenza riguarderà solo gli impegni dell’arte.

Trent’anni di indefessa attività artistica

Di quel 1870, così decisivo per la storia del nostro Paese, è La Seminatrice, una tela in cui Nino Costa testimonia una nuova, più consapevole maturità artistica esprimendo la sua predilezione per una natura incontaminata che entra in comunione con la presenza umana solo attraverso la ritualità antica del gesto proprio di un mestiere tanto semplice quanto remoto nel tempo.
A partire da quell’anno e per oltre un trentennio Costa riproporrà tenacemente la sua poetica: cioè, riprodurre la natura dal vero, riflettendola nella sua pittura con la stessa vivacità con cui l’artista la coglie, la percepisce, fissandone la prima, decisiva impressione in un rapido studio. E doveva assolutamente essere rapido “perché mutevoli e di breve durata sono gli effetti pittorici, e raramente, anzi mai, ritornano nell’identica maniera” (Giuseppe Cellini). Si tratta di un modo nuovo di intendere e praticare la pittura di paesaggio: la fonda sullo studio diretto del vero, la passa – come il pittore romano ebbe modo di affermare - al filtro del “sentimento del pensiero” attraverso il quale supera la pura e semplice “veduta”. Insomma, la sua è un’interpretazione nuova, spiritualizzata della natura: un dato luogo, in un momento dato quale riflesso del nuovo modo di sentire dell’uomo moderno: “L’artista al cospetto della natura sceglie tra la molteplicità delle apparenze quella che suscita un’eco nel suo pensiero e nel suo sentimento (Angelo Conti).
Fonda l’associazione “In Arte Libertas” intorno alla quale si stringono artisti come Enrico Coleman, Norberto Pazzini, Napoleone Parisani, Edoardo Gioia, Giuseppe Cellini, Aristide Sartorio, Adolfo De Carolis e molte altre personalità della scena artistica italiana tra Ottocento e Novecento. Le mostre organizzate dall’associazione che lo ebbe come maestro e decisivo punto di riferimento - in particolare quelle tra la fine degli anni Ottanta e i primi Novanta - costituirono una decisa frattura con l’ambiente accademico ufficiale: la pittura di paesaggio e la ritrattistica proposte da questi artisti si muovevano, infatti, nel senso di favorire ogni esperienza di superamento del verismo, scaduto ormai ad anedottica bozzettistica, in favore di una nuova relazione, psicologica e simbolica, con la realtà. Luogo privilegiato di questi pittori la campagna romana e le paludi pontine di cui vengono colti dal vero la serenità, la pace, il senso di quiete, i giochi dei riflessi di luce e le loro variazioni, le suggestioni di luoghi in cui natura e storia si incontrano. La poesia dal vero porta questi artisti a privilegiare l’uso della tempera, dell’acquarello e del pastello in dipinti di piccolo formato come avviene nel caso di Sartorio, forse il personaggio più illustre di questa cultura pittorica che si va orientando nel senso di un simbolismo intimista, acuto, di una freschezza virgiliana.
Il valore della pittura di Nino Costa ebbe consacrazione in Inghilterra dove era già stato apprezzato dal Leighton, dall’Howard, da William Blake Richmond, autori con i quali il pittore romano aveva lavorato in Italia e cospirato al tempo degli “eroici furori”: a Londra nel 1882 espone con grande successo oltre sessanta tele in cui risaltano “la minutezza del miniaturista nel profilare le cime dei monti lontani, nello sciogliere l’acqua tra l’erbe…la leggerezza degli steli, la vaporosità di certe spighe sospese nell’aria” (Francesco Sapori). Allo stesso 1882, un anno particolarmente fecondo, risalgone tre lavori straordinari per i colori personalissimi e la capacità di racchiudere estesi orizzonti in un piccolo spazio : Ritratto d’una figlia, Castello di Normandia, Una sera a Lerici.
Nel 1896 una sua tela, Il risveglio è accolta, ancora vivente l’autore, alla National Gallery.
Una sua Leda realizzata nel 1900 influenzerà il giovane Amedeo Modigliani che nella primavera del 1901, di ritorno da Capri, aveva avuto modo di frequentare il suo studio a Roma e ne era rimasto talmente impressionato da riproporne atmosfere e tematiche in un’opera poco conosciuta e dimenticata dai più, Il canto del cigno.

Quel che vidi e quel che intesi

A partire dal 1892-93 Costa iniziò a dettare alla figlia Giorgia le proprie memorie. La narrazione si interruppe nel 1896 e l’artista romano la riprese negli ultimi anni della sua vita, quando Olivia Rossetti Agresti ottenne le informazioni necessarie ad una biografia del pittore. Le pagine dettate alla figlia e quelle raccolte dalla Rossetti in Giovanni Costa, His life, work and times, edito a Londra nel 1904, un anno dopo la scomparsa di Nino, costituirono Quel che vidi e quel che intesi, uscito solo nel 1927, a cura di Giorgia Guerrazzi Costa in occasione del centenario della sua nascita. Di questo testo, considerato tra i migliori della vasta letteratura garibaldina offriamo alcuni giudizi critici:
“Vibrante, senza compiacimenti retorici, con un felice gusto del racconto, la pagina del Costa è come dominata dall’immagine di Roma che fu la cara suggestione della sua vita di cospiratore e di combattente, un’immagine che egli vagheggia come creatura viva, dolcemente amata” (Gaetano Mariani);
“Sono, le sue, note rapide, nervose, incisive, che pur nel loro stile dimesso e spoglio di ogni artifizio rettorico, rivelano pienamente la fede e la nobiltà d’animo dello scrittore” (Bianchi-Pazzaglia).

"Maigret, uno di noi" di Luciano Luciani





Nella storia del romanzo poliziesco la Grande Svolta avviene a ridosso degli anni Trenta, grazie alle opere di Georges Simenon che riescono a compiere una duplice operazione: riscattare il romanzo poliziesco dalle critiche, tanto facili quanto diffuse, di imbecillità stilistica; emanciparlo dalla fama di essere una letteratura dai contenuti solo volgari e violenti. Il lascito più importante del letterato francese è stato, infatti, quello di avere ottenuto di far leggere il poliziesco anche a quel pubblico colto che si è sempre vantato di non aver mai letto una pagina di letteratura ‘di genere’ e di opere “paraletterarie”

Georges Simenon (Liegi, 1903 – Losanna, 1989) è stato uno scrittore destinato ad influenzare il romanzo poliziesco per oltre un cinquantennio e a esercitare sulla sua trasformazione un peso pari, se non maggiore, a quello di Conan Doyle e di Dashiell Hammet. Anch’egli è un “forzato della penna” come i grandi scrittori d’appendice, Balzac, Zola e, si parva licet, Maurice Leblanc e la coppia Allain /Souvestre rispettivamente inventori di Arsenio Lupin e Fantomas. Autore di non meno di cinquecento romanzi, solo settantasei dei quali appartenenti alla serie di Maigret, il letterato belga è conosciuto quasi universalmente per essere il creatore del celeberrimo commissario parigino della Prima Brigata Mobile, uno dei più noti personaggi della narrativa gialla.

Gran parte del fascino di Maigret non risiede solo nella malinconia di cui è intriso il personaggio, ma soprattutto nel suo metodo d’indagine: quel suo calarsi nell’atmosfera del delitto, quell’immedesimarsi nei pensieri e nei sentimenti della vittima e del colpevole anche quando quest’ultimo non ha ancora un’identità, fino ad appropriarsene in virtù di uno specialissimo di rapporto empatico che il commissario parigino stabilisce sempre tra lui, imperterrito cacciatore della verità, e la sua preda, l’autore del crimine.

Simenon si fa apprezzare più nel definire le ambientazioni che nello strutturare le trame. I suoi interni piccolo borghesi, le sue atmosfere familiari, i suoi bozzetti di vita urbana e rurale sempre improntati ad un tranquillo naturalismo tendono a permanere nella memoria più a lungo di tante cervellotiche architetture delittuose propriamente dette. “Io non penso mai”, dice talvolta Maigret. “Io non tiro conclusioni”. O anche “Io non ho idee”. Talvolta, la consegna del colpevole alla giustizia è del tutto secondaria e Maigret sembra quasi rassegnarsi al suo ruolo di poliziotto proprio perché non ne può fare a meno.

Dalle sue prime inchieste Pietr Le Letton, 1930, e L’affaire Saint – Fiacre, 1932, Le testament Donadieu, 1937, Maigret è rimasto immutato come la sua Parigi, anche se nel corso dei decenni si è fatto sempre più maturo e amaro: la miseria morale lo turba nel profondo come un elemento che mortifica la dignità dell’uomo. Se nel corso di oltre mezzo secolo di onesta attività investigativa si è via via diffuso l’uso del telefono, si è affermata l’automobile, la radio e la televisione hanno cambiato nel profondo la vita dell’uomo occidentale e si sono fatti sempre più sofisticati i sistemi scientifici per portare avanti le indagini, la natura umana è rimasta sempre la stessa, sfregiata dai soliti vizi: disamore, avidità, ipocrisia, prevaricazione dei più forti sui più deboli… I tempi recenti hanno aggiunto in più l’indifferenza, la mancanza di calore umano, l’assenza di qualsivoglia solidarietà, il cinismo… Ricorrenti nelle migliori pagine di Simenon i temi della solitudine esistenziale e il senso, amaro, di una suprema stanchezza di fronte al male che incombe e permea di sé ogni aspetto della vita e della condizione umana. Vano ogni tentativo di raggiungere la libertà o la redenzione

A leggere bene le pagine di Simenon appaiono forti e frequenti i suoi legami con l’hard boiled: privo di ogni carattere di “maledettismo”, più congeniale a un Sam Spade o a un Philip Marlowe, Maigret, di corporatura robusta e quasi pingue, di mezza età, è per stile di vita, convinzioni e comportamenti un piccolo borghese, un modesto funzionario parigino dell’ordine pubblico perfettamente inserito nella società del suo tempo. Dei contemporanei eroi d’oltreoceano vive, però, sia la stessa ossessione per la verità e la conseguente giustizia, sia i disincanti nei confronti della Storia e della Società. Investigatore abituato ad usare la pazienza e le gambe nelle sue investigazioni (quanto cammina Maigret per le strade di Parigi!), pragmatico e per niente cerebrale non è granché interessato agli indizi o alle deduzioni logiche: il “metodo” di Maigret parte sempre dal presupposto che “in ogni malfattore, in ogni bandito c’è un uomo”. Basta allora saper aspettare e spiare “soprattutto la fessura… il momento in cui… appare l’uomo”. Nel frattempo bisogna marcarlo quanto più possibile da vicino, imparare a conoscerne virtù e debolezze: insomma, coinvolgersi fino in fondo nella vicenda criminale, condividere il caso dall’interno, viverlo con pienezza di umanità, di ragione e sentimento sia dal punto di vista delle vittime, sia da quello dei carnefici che spesso tali non sono. Maigret infatti è persuaso che “su dieci delitti, ce ne sono almeno otto nei quali la vittima è partecipe in larga misura della responsabilità dell’assassino”: l’esperienza professionale e di vita gli ha insegnato che esiste “una sorta di vocazione di vittima”.

A detta della critica più recente e aggiornata la chiave dello straordinario successo del “canone Maigret” – settantasei romanzi e ventisette novelle in circa mezzo secolo di scrittura – consiste proprio in questa straordinaria capacità del suo Autore di disegnare ambienti riconoscibili abitati dalla piccola e piccolissima borghesia urbana, oppure le atmosfere grigie e stagnanti della provincia francese. I lettori del secolo scorso, il Novecento, hanno sempre percepito Simenon non tanto come un autore di gialli, ma come uno scrittore “serio”, capace di fare della letteratura rispettabile, lontana dalla sensazionalità di tanta produzione propria del genere. Una lettura ‘buona’ da poter esibire pubblicamente: e non è un caso se le opere di Simenon - sia il “canone Maigret”, sia gli altri suoi prodotti di una torrentizia attività di romanziere - in Italia e fuori sono sempre state ospitate in collane diverse, separate e più “alte” di quelle “basse” destinate ad ospitare il poliziesco.

Postilla dai "Dialoghi con Leucò" di Cesare Pavese


di Emilio Michelotti
LA CATENA DEL TEMPO SCARDINATA DALLA MORTE
Nessuno sapeva la bellezza della barbarie.
Una bellezza incomprensibile, insopportabile,
inaccettabile, scandalosa. Se non si percorre questo scandalo
fino in fondo, non si capirà granché dell’uomo.
Ciò che egli mise in essere fu un ritratto apollineo
dell’estasi dionisiaca
(Milan Kundera – Improvvisazione in omaggio a Stravinskij
da I testamenti traditi )


Dal dialogo XIV – L’ospite

Il corpo che noi laceriamo deve prima sudare, schiumare nel sole.
Quello è il momento di aprire una gola. Il sangue che Madre ci ha dato
glielo rendiamo in carne e escrementi. I brani van sparsi nei campi,
la testa va avvolta fra tralci di fiori e di spighe.
Il grano germoglia se è in terra viva, nutrita.
Perché non uccidere un’ultima volta qualcun che per sempre
fecondasse la terra e le nubi e la forza del sole?
Tu contadino non sei, e lo vedo. Nemmeno sai che ogni volta
tutto comincia al solstizio e che il giro dell’anno esaurisce ogni cosa.
Tranquillo, Litierse, risalendo ai suoi padri, nutrito qualcuno
abbastanza sarà dei succhi in stagioni passate, di sangue
così generoso, da bastare alle zolle una volta per tutte.

da "Dialoghi con Leucò" di Cesare Pavese


di Emilio Michelotti

UN GIOCO FRA L’ESSERE E IL NULLA
Emilio Michelotti ha liberamente tratto questa sorta di poemetto
dai Dialoghi con Leucò di Pavese, un capolavoro del ‘900,
una rivisitazione, un rovesciamento di alcuni miti greci.
L’autore dello scempio è cosciente del sacrilegio compiuto
ma, paveseanamente, ha tirato dritto con caparbietà.



PROEMIO

Sulla terra ormai fatta pietosa si dovrebbe invecchiare tranquilli,
di storie senza giustizia e pietà, dei vecchi destini, nulla rimane.
Rimane il torrente, la rupe, la nuvola, l’orrore. Rimangono i sogni. Ogni cosa ha un destino.
Ma allora gli dèi che ci fanno? Vennero tardi, il mondo è più vecchio di loro.
Già riempiva lo spazio di sangue e godeva, prima che il tempo nascesse.
La bestia e il pantano eran terra d’incontro di uomini e dèi.
Che cos’era bestiale se la bestia era in noi come il dio?

La sorte dell’uomo è mutata. Altre mani ora tengono il mondo.
Non puoi più mischiarti alle ninfe delle polle e dei monti,
alle figlie del vento, alle dee della terra. E’ mutato il destino.
Faranno di te come un’ombra, ma un’ombra che rivuole la vita e non muore mai più.
Tutti distrusse la smania di potere ogni cosa. Che per nascere occorre morire,
lo sanno anche gli uomini. Non lo sanno gli Olimpici, perché non esistono: sono.

NE’ L’UNO NE’ L’ALTRO
E’ un mattino d’estate. Un ragazzo si bagna, si tuffa e rituffa.
Male gli prende ed annega. Dovrà attribuire agli dèi la sua fine,
oppure il piacere goduto? Né l’uno né l’altro. E’ accaduto qualcosa,
cui daranno poi un nome gli dèi. Così ogni volta che il caos trabocca alla luce.
Dove finisca sgomento e cominci la fede è difficile dire.
Non sarà meglio, ai mortali, finire così, che nella bestia incappare,
o nell’albero, o bue divenire che mugge, serpente che striscia, fontana che piange?

ARTEMIDE: IL SELVAGGIO E IL DIVINO
Tu sai cos’è l’orrore del bosco quando s’apre una radura notturna?
Quando le cose escon dal buio, selvagge, intoccabili, un fiore è come una belva,
non ha nome, è divino, terribile.
Non c’è dio sopra il sesso. C’è la bacca, c’è l’urlo, la morte, la terra vorace,
la solitudine, l’acqua. Il selvaggio e il divino cancellano l’uomo.
Puoi dire che Artemide abbia dietro di sé, nel pantano, lasciato la voglia bestiale,
l’informe furore sanguigno che l’ha generata? La selvaggia ha un riso breve,
un comando che annienta. E nessuno le ha mai toccato il ginocchio.

UN EGEO TUTTO INTRISO DI SPERMA E DI LACRIME
Oh, Saffo, sorridere è vivere come un’onda o una foglia, accettando la sorte.
E’ morire a una forma e rinascere a un’altra. E’ accettare, accettare, se stesse e il destino.
Ma non senti il tedio, l’inquietudine del mare? Qui tutto macera e ribolle senza posa.
Ricorda chi nacque quaggiù, quella che non ha nome, l’angosciosa,
che sorride da sola: il mare è sua sostanza e suo respiro.

PREDESTINATI ALLA SCELTA
Vale la pena fare una cosa ch’era già fatta quando ancora non c’eri?
Vorrei essere il più sozzo e il più vile degli uomini, purché
avessi voluto quello che ho fatto. Non subìto così. Non compiuto volendo far altro.
E’ febbre che si chiama destino, il timore, l’orrore.
Nulla eravamo: anche le voglie del cuore, il sangue, i risvegli
sono usciti dal nulla. Il desio di scampare al destino
è destino esso stesso, o Edipo.

GLI UCCISORI DEI MOSTRI VERSARONO SANGUE FRATERNO?
Ma gli dèi sono giovani, quasi come te, uomo. Quello
fu un mondo di mostri e del caos, Prometeo? Dei Titani e degli uomini,
delle belve e dei boschi. E’ il mondo di lotta e di sangue che ha fatto chi sei.
Dio è sempre chi vince. Finché l’uomo-titano combatte e tien duro
può ridere e piangere. Se pietà si fa gesto, questa è vittoria:
salvare gli altri a sue spese. Tu sei tutto nel gesto che compi.
Voi sarete i Titani, tra poco, voi mortali, o immortali, non conta.

SBRANARE IL DIO, FARSI DIO

Ciò che è stato sarà, ma Orfeo non sa della morte che farsi.
Cercava un passato che Euridice non ha. Su ogni foglia intravide
un barlume di cielo. Più nulla importò di colei che seguiva. Cercava piangendo
non lei ma se stesso. Si ascoltava. Non ebbrezza travolge la vita, né morte
ci rende più umani. Si scende nell’Ade a strappare qualcosa, a violare
un destino. Però non si vince la notte, si perde la luce.
Purché le donne di Tracia non sbranino il dio

LA VIOLENZA E IL SACRO

Se l’Uomo-lupo fosse tuo simile, non mancherebbe che l’urlo
e rintanarsi nei boschi. Avremmo dei giorni che, se il dio ci toccasse,
saremmo alla gola di chi ci resiste. Sole, a salvarci, le mani e la voce.
Ma non avremmo timore del sacro, né d’altro che uguaglia ai signori del cielo,
speranze e rimorsi svaniti. Quello che prima era scelta, era voglia,
ti si scopre destino. D’un tocco leggero t’inchioda laddove sei giunto.

Il sacrificio: fanno bene i padroni a mangiarci il midollo

Bagna e spruzza, ragazzo. Basta il vitello ucciso dai ricchi. Se piove, piove per tutti.
Se una volta bastava un falò per far piovere, un vagabondo bruciato
per salvare un raccolto, quante case e padroni bisogna incendiare, quanti
per strade e per piazze ammazzarne, prima che torni giustizia e per dire la nostra?
I padroni e gli dèi son fatti così, bisognava ammazzare ogni tanto qualcuno per farli godere.
Ora non ne han più bisogno. Siamo in tanti a star male che gli basta guardarci.
Fanno bene gli dèi a lasciarci patire.

L’ORIZZONTE DELLA CADUCITA’
Immortale è chi accetta l’istante, chi non teme la morte, chi non spera di vivere.
Lo sono i vecchi dèi che il mondo ignora, sprofondati nel tempo come pietre nella terra.
L’immortale Calipso di morire non spera, né spera di vivere. Quasi non resta
di lei che la voce del mare e del vento. L’isola vibra di rimbombi marini
e di stridi d’uccelli. C’è nell’aria un arresto, un’antica tensione, una presenza scomparsa.
Ma Odisseo non sfugge al rimpianto, ha portato un’altra isola in sé, mutata,
perduta, in silenzio, e racchiusa nel fondo.

Oltre il tempo, si vive. Senza ricordi come la lepre,
il lupo, il cervo. E si fugge, s’insegue, sempre.
E’ il vivo crepuscolo di un mattino perenne, una luce
che vien dall’interno, un vigore non intaccato dai giorni. Che cosa
può far solitudine in questo inumano silenzio? Delle prugne fra il verde
più azzurra è quest’acqua. Ti sciogli in stille e brusii, nella voce
del lago, nei ringhi del bosco. Rinato, il fuggiasco guarda la quercia
e nemmeno sa se esiste, né l’oggi aggiunge qualcosa al suo ieri.
Sente il bisogno di stringere a sé un sangue caldo e fraterno.
O Diana selvaggia, concedigli questo!

INFANTICIDA PER TROPPO AMORE

C’è una verginità delle cose che più del rischio spaventa: le vette dei monti, il mare profondo.
Era giovane il mondo, giorni come chiare mattine, notti
di tenebra spessa. Di volta in volta, i prodigi eran mostri, erano fonti,
erano uomini o rupi. Violarono i monti, varcarono il mare,
distrussero mostri. Ed uno vide i suoi figli sacrificati da madre furente.
Medea non piangeva. E sorrise soltanto quel giorno. Giasone
pretese giacere con lei, la maga. S’accorse poi che aveva a che fare
con carne mortale e allora, altrove cercò di essere dio.

IL DIO UCCIDE PER GIOCO

A Tebe nacque, il più giovane di tutti gli dèi. E’ un dio di gioia.
Chiunque lo segue lo acclama. Uccide ridendo. Lo accompagnano
i tori e le tigri. La sua vita è una festa crudele. Chi gli resiste s’annienta.
S’incontra nei vigneti a costa lungo il mare, nell’ora lenta
che la terra dà il suo odore. Un odore rasposo e tenace, tra il fico e il pino.
Quando matura l’uva, e l’aria pesa di mosto, saltano capre
tra il bosco e la vigna. Sulle cime, di notte, compaion le stelle.

LA CADUTA DEGLI IDOLI

Questo figlio del monte che comanda col cenno, non è più
come i vecchi signori – la Notte, la Terra, il Cielo o il Caos. C’è una legge e una mente.
A te piace che lasci le vette e vada a farsi uomo tra gli uomini? Che si compiaccia
di vigne, donne e città? Non sarebbe signore se la legge che ha fatto non potesse interromperla
Dimentichi forse che visse nei tempi fuggiasco su un’isola a mare, lì morì e fu sepolto.
Prima l’uomo, la belva e anche il sasso erano dio. Ci voleva la fuga, la grossa empietà
del confino fra gli uomini, quando ancora era bimbo e poppava alla capra; lo star
fra le belve, le parole e le leggi dei popoli, il dolore la morte e il rimpianto.
Il bambino rinato divenne signore vivendo tra gli uomini.
Non essendo più il mondo divino, la parola di chi sa di patire
e si affanna e possiede la terra, rivela le sue meraviglie, ama violare i silenzi.
Non sono che poveri vermi, costoro, ma tutto fra loro è imprevisto e scoperta.
Si conosce la bestia, si conosce l’iddio, ma nessuno sa mai il fondo dei cuori.

L’ETERNO CICLO DEL GRANO E DEL VINO

Senza i mortali che cosa sarebbero i giorni. Ciò che da loro è toccato
tempo diventa. Diventa azione. Attesa e speranza. Anche il loro morire è qualcosa,
come i vigneti che han saputo piantare su questa collina. Di brutti
pendii sassosi han fatto un dolce paese. Dove spendono fatiche e parole,
lì nasce un ritmo, un senso, un riposo. Chi direbbe che nella loro miseria
abbiano tanta ricchezza? Per loro io sono Demetra, un monte selvoso e feroce,
sono nuvola e grotta, signora son dei leoni, di biade e di tori. di rocche murate,
la culla e la tomba, la madre di Core. Dovremmo aiutarli di più, essergli accanto
nella breve giornata che godono. Io non so come, ma i nostri doni
diventano ambigui. E anche tu, Dioniso, fai scorrere del sangue innocente.
Tutta la loro ricchezza è la morte, e il sangue è come il frumento
e il vino con cui li nutriamo, esaltiamo. Icario questo ha pensato: il vino è il mio sangue.
Vendemmiava, pigiava e svinava come un folle. Per primi, su un’aia,
vedono schiumare del mosto. Ne spruzzan le siepi, i muri, le vanghe, poi
sbranano Icario al posto di un capro, sotterra lo mettono
perché nasca altro vino. Lui stesso lo vuole, e la figlia
s’impicca nel sole come grappolo d’uva.

Dobbiamo insegnare agli uomini questo racconto, insegnargli
un destino che intrecci col nostro. Così moriranno e avranno vinta la morte,
come il grano e la vite discendon nell’Ade per nascere.

IL DILUVIO

Nessuno, come le bestie selvatiche, sa capire che muore e guardare la morte.
Ci diremo che non tutti potremo sparire, se no che senso l’essere nati avrebbe?
Ed anche diremo che se violata fosse la vita, bastato sarebbe quello a punirci.
Ma è proprio questo il diluvio: morire e sapere che non resta nessuno a saperlo.


NEL TEDIO, A UN PASSO DALLA FELICITA’

Se penso a una cosa passata, mi pare di esserlo stato, contento.
Eppure raramente lo sono: esistenza, noia vuol dire e fastidio.
Sola ricchezza è dar nome alle cose che le fanno diverse, eppur familiari
come una voce che da tempo taceva. E’ solo un istante, simile
a tanti del passato ma inedito, a farmi d’un tratto felice. Potrò mai fermarlo?

Guardo lo stesso ulivo degli anni, ed è come amico che dice d’attesa parole.
A volte di un passante lo sguardo, la pioggia che insiste da giorni, d’uccello
uno stido, o nube di certo già vista. Quell’attimo rende la cosa un modello.

Ma gl’istanti non sono la vita. Volessi ripeterli perderebbero il fiore.
Stanno a due passi da noi la noia e le cose immortali Il sacro e il divino
sono nel letto, sul campo, davanti alla fiamma, insieme con noi.

EPILOGO

Chi dice il vero s’accontenta. Siamo noi a mentire
ché non abbiamo mai visto del Centauro il mantello
o sull’aia il colore del sangue d’Icario.
Io, per me, credo l’albero e il sasso profilati nel cielo
fossero dèi fin dall’inizio. E che furon prima
le voci di terra, fonti, radici, le serpi.
Se il demone congiunge la terra col cielo,
deve uscire alla luce dal buio del suolo.
Se mentirono quelli che videro cose tremende
e nemmeno stupivano, anche tu, quando dici
“è mattino” o “vuol piovere”, hai perduto la testa.
Non chiedo se furono prima le parole o le cose.
E se credo ai corpi imbestiati, ai sassi viventi,
ai sorrisi divini, a parole che annientano,
credo in ciò che ogni uomo ha sperato e patito.


Cesare Pavese – Dialoghi con Leucò ( 1947)– Introduzione di Sergio Givone- 1999 - Einaudi

02 settembre 2009

"Per amore o per finta" di Giuliano Parenti


di Alessandro Trasciatti

Questo di Giuliano Parenti è un romanzo satirico sulla televisione, sulla realtà parallela creata dalla finzione televisiva e che poi tanto parallela non è perché finisce per interferire con la vita reale. E’ un romanzo ironico, divertente, rocambolesco, pieno di colpi di scena, di ribaltamenti tra virtuale e reale, televisivo e vissuto quotidiano.

Il protagonista, Other Berlina, è un attore che ha la caratteristica saliente di essere un attore negato, con una faccia inespressiva, sempre uguale, ferma. Paradossalmente è questo che gli permette di essere notato ad un provino ed è questo che diventerà il suo cavallo di battaglia. Un incrocio, dice il regista Hans Cristian Coltellas – altro personaggio fondamentale del romanzo – fra l’inespressività di Unprhey Bogart e il dinamismo forsennato del primo Sean Connery. Quindi: gran movimento, grande atletismo, azioni mozzafiato e una faccia che non dice nulla, che non esprime nulla, neanche la noia o la fatica.

E’ questa la fortuna di Other (da notare il nome) e del personaggio televisivo che interpreta, il commissario Quapur. Other si ritrova così a fare una vita da star, guadagna montagne di soldi, è costretto a camuffarsi per sfuggire ai fans, è lusingato dalle ammiratrici.

Qui entra in gioco un altro personaggio chiave del libro, Mery Effy, che diventa la sua amante. Donna eccentrica e ricca, dirige una linea di profumi, ama i travestimenti e le parrucche (poi si scoprirà perché) e trascina Other in una avventura extraconiugale lussuosa, romantica, dispendiosissima e basata sul patto di non chiedere mai nulla all’altro che riguardi le rispettive famiglie, le rispettive vite private. In sostanza una relazione che cerca di escludere rigidamente le intrusioni della vita reale, della banalità quotidiana e si confina in un piccolo “grande” albergo e all’interno di questo si sigilla nella stanza più ricercata, più ambita.

Ma qui, nella stanza d’albergo, cominciano – o forse meglio dire che si fanno ancora più eclatanti – i paradossi. Perché Mery Effy comincia ad arredare la camera come se fosse di sua proprietà e a un certo punto della storia rientra in camera con un sacchetto della spesa dopo essere stata al supermercato. Cioè tradisce un desiderio di autenticità che è insopprimibile. E tuttavia continua ostinata nella finzione, nell’artificio di questo amore tagliato fuori dal resto del mondo, dal contingente, un amore assoluto ma fragilissimo.

Simbolo di questo modo di stare insieme, di questo amore sui generis, è il rituale di accoppiamento di Other e di Mery, che prevede preliminari lunghissimi, ore e ore di preliminari e poi una congiunzione che è soltanto un dolcissimo vibrare di organi, non un movimento vero e proprio, solo un vibrare che produce una musica: la passacaglia in do di Bach (e qui si sconfina un poco verso il realismo magico). Per Mery l’atto sessuale come tutti lo concepiscono è triviale, basso, le ricorda i martelli pneumatici degli stradini, è puzzo di catrame.
Comunque la realtà è destinata ad invadere anche questa gabbia dorata: l’unica volta che fanno l’amore in maniera tradizionale-animalesca, rimangono dolorosamente incastrati e lei oltretutto concepisce un bambino.

Il tema ironico-sentimentale si alterna così alle vicissitudini televisive, ma quando Other si accorge di comportarsi nella vita reale come il personaggio che interpreta nella finzione entra in crisi, è un inizio di nevrosi. Il fatto è che la pressione del pubblico è enorme, la legge dell’auditel macina tutto, determina le mosse del regista, le sue strategie, lo induce a pianificare un certo andamento delle avventure invece che un altro e incide profondamente anche sulla psiche dell’attore che, per la apparente facilità di “lasciarsi vivere” (frase che ritorna spesso) finisce al contrario per perdersi.

Al termine della storia Other si riscatta, riesce ad imprimere una svolta alla sua vita e riesce anche a dare una coloritura etica alle finzioni che interpreta, cioè riesce a fare sì che le indagini del commissario Quapur si concludano con l’arresto di veri criminali. Quindi c’è anche il lieto fine, un non-eroe, un personaggio non cattivo ma un po’ inerte, passivo, riesce ad assumersi delle responsabilità e a svolgere un ruolo attivo sia nella vita privata che in quella pubblica. Resta però la grande girandola di avvenimenti contraddittori che è stata la sua vita: la sua doppia esistenza di uomo senza qualità e eroe televisivo; di uomo sposato con figlie che però conduce una vita sentimentale parallela.

E soprattutto viene da chiedersi quale sia diventata la funzione della televisione, dove finisca l’intrattenimento e inizi il gioco sugli appetiti più bassi del pubblico; se sia lo spettatore da considerarsi un fine o un mezzo; se gli si voglia comunicare qualcosa di buono (o anche solo decente) o andare incontro ai suoi desideri.

Anche la struttura formale del libro corre su due piani: quello della storia narrata e quello dei capitoletti con il testo incolonnato; non sono versi, diciamo che è una prosa di carattere diverso, non narrativo ma piuttosto riflessivo-argomentativo, in cui il protagonista cerca di fissare le propri coordinate nel mondo, specula sui massimi sistemi e in cui – mi permetto di dire – l’autore fa coincidere la propria voce con quella del personaggio.

Giuliano Parenti, Per amore o per finta, pp.196, euro 12, Mauro Pagliai editore - www.mauropagliai.it.

"Vidocq, l’oscuro" di Luciano Luciani




Non pochi critici fanno risalire la nascita del moderno romanzo poliziesco alle memorie del francese Eugène-Francois Vidocq (Arras 1775–1857). Personaggio storico, fu prima giovanissimo delinquente, poi volontario nell’esercito borbonico, quindi, dopo due anni, di nuovo malavitoso specializzato nella difficile arte dell’evasione tutte le volte che veniva ristretto in cella. Divenne allora prima collaboratore di giustizia, informatore e spia, quindi poliziotto infiltrato in quegli ambienti criminali che conosceva alla perfezione. Furono decine e decine i malviventi mandati sul patibolo o al bagno penale da questo spietato ed efficientissimo poliziotto di nuovo tipo. Si deve a lui la nascita della celeberrima Sureté Nationale, la prima grande polizia del mondo moderno che anticipava Scotland Yard e il Federal Bureau of Investigation e i loro metodi. Tra il 1811 e il 1812 di fronte a una criminalità sempre più aggressiva e a una polizia inadeguata a combattere il crimine, l’allora prefetto di Parigi, Pasquier non esitò ad affidargli l’incarico di riorganizzare la polizia parigina.

E Vidocq operò, al solito, con grande spregiudicatezza arruolando nel nuovo corpo i suoi ex compagni di ribalderie, realizzando oltre ottocento arresti nel solo primo anno di attività con sistemi mutuati direttamente dal mondo criminale, facendo inorridire i cultori del diritto e i garantisti del tempo. Allontanato da questo incarico nel 1827, forse per rigettare le accuse di corruzione che gli venivano mosse da più parti, forse per denaro, iniziò a scrivere le sue Memorie, pubblicate in quattro libri negli anni 1828-1829: riottenuta la direzione della Sureté nel 1832, rimase alla testa della polizia parigina solo un anno a causa di uno scandalo che toccò un suo funzionario e che lo coinvolse.

Sensazionale fin da subito il successo delle Memorie di Vidocq. Più volte ristampate e tradotte in inglese ebbero come attento lettore anche Edgar Allan Poe che di lui scrisse:
“Vidocq era uomo di buon intuito, e grande perseveranza. Ma sprovvisto di un’intelligenza allenata, sbagliava continuamente, proprio a causa della eccessiva concentrazione con cui conduceva le indagini. Tenendo l’oggetto troppo accosto non riusciva a vedere con chiarezza. Magari riusciva a scorgere uno o due punti con chiarezza, ma inevitabilmente perdeva di vista l’insieme”.
Fitte di elementi romanzeschi le sue Memorie ispirarono Victor Hugo, che probabilmente modellò sullo avventuriero di Arras due celeberrimi personaggi dei Miserabili, Jean Valjean e l’ispettore Javert. Anche Vautrin, uno dei più famosi protagonisti della Commedia umana di Balzac, venne plasmato sugli esempi offerti dalla complicata esistenza di Vidocq.

Le sue pagine appartengono alla fase aurorale del romanzo poliziesco. Ancora oggi è difficile stabilire in quale misura le Memorie siano da attribuirsi al fondatore della Sureté e non invece a due gosth-writer, identificati in Emile Morice e Louis-Francois l’Héritier: non ancora romanzo poliziesco e controverso il suo valore come documento storico, le Memorie si possono definire un’ ”autobiografia romanzata” che illustra con ricchezza di particolari un metodo investigativo semplice ma di indubbia efficacia.

In occasione di un’indagine Vidocq mobilitava i suoi uomini, di solito ex criminali come lui e i suoi informatori. Lui stesso si travestiva da delinquente e si aggirava nei locali malfamati, dove conquistava le simpatie di ladri e assassini e li induceva a fidarsi di lui e a rivelargli indizi, che poi utilizzava nel corso delle sue inchieste.

L’attività investigativa di Vidocq si può ricondurre a due ruoli, quello dell’informatore e quello del detective, che sa mettere a frutto la sua profonda conoscenza del mondo criminale maturata nel corso della sua precedente “carriera”: per esempio, conosce l’argot, la lingua utilizzata sin dal secolo XVII da accattoni, imbroglioni, prostitute, assassini, costretti a nascondere alle orecchie indiscrete il senso dei loro discorsi. L’argot rappresenta un registro linguistico di natura criptica, decodificato dalla polizia francese nei primi anni dell’Ottocento e ammesso nella letteratura alta proprio attraverso le Memorie.

Ma questo particolarissimo poliziotto non è solo abile ed astuto e sa ricorrere in caso di necessità ad una vasta gamma di procedure non ortodosse. Egli, per esempio, provvedendo a schedare tutti gli arrestati per ritrovarli più facilmente in caso d’evasione, dimostra di apprezzare la sistematicità propria dei procedimenti scientifici: nel quarto volume delle Memorie, basandosi sulla propria esperienza, Vidocq realizza un’ampia ed articolata tassonomia, dividendo i criminali in tre categorie, ladri di professione, d’occasione e per necessità, ognuna dotata di classi e sottoclassi, ognuna identificabile attraverso particolari caratteristiche o comportamenti ricorrenti.

Nonostante le dimissioni, offerte al ministro dell’epoca, nel 1832, non fu facile per Vidocq liberarsi della sua storia e della sua fama. L’agenzia privata di investigazioni di da lui fondata suscitò le gelosie dei nuovi responsabili delle polizia parigina e, considerato il suo passato, non fu davvero difficile ai suoi avversari trascinarlo, ancora una volta, in tribunale. Condannato a cinque anni ricorse in appello e superò legalmente l’ultima difficile prova della sua vita, mentre i giornali dell’epoca ricevevano centinaia di lettere in favore di questo personaggio, tanto oscuro quanto popolare tra i suoi contemporanei.

Terminò la sua vita nel 1857, a più di ottant’anni, come piccolo imprenditore, gestendo una piccola azienda che produceva carta, un’altra attività in cui Vidocq amò circondarsi dei suoi compagni di un tempo: quegli ex carcerati che conosceva così bene per essere stato prima uno di loro, poi il loro più accanito persecutore.

26 agosto 2009

"Il canto del diavolo" di Walter Siti

di Emilio Michelotti  

Dalla pubblica autoflagellazione alla custodia in teca dell’istinto trasgressivo, dall’esibizione oscena di una sessualità mortifera alla pacificazione col proprio daimon.  

Walter Siti, non è inutile ricordarlo, è lo scrittore che suggerì la connessione sottile fra una notte d’orgia vissuta personalmente e la strage di Bologna, fra una vita senza regole e una società senza etica. La sua non era, in fondo, che l’estrema deriva di una “disperata vitalità”- con l’accento ormai posto sull’aggettivo -, mutuata dall’ultimo Pasolini, quello, per intenderci, della rivisitazione dell’inferno dantesco e, soprattutto, di Petrolio

Folgorati da una metamorfosi mefistotelica ci si può così, in vecchiaia, scoprire “parte di una forza” costretta a “volere sempre il male” ma ad “operare sempre il bene”. I Sette Emirati sono la via di damasco ideale per questa conversione: Dubai dal caos nutriente, assurda, demenziale nel suo sfarzo alla Disneyland, città digitale programmata da pazzi; Abu Dhabi più kitch ancora, torre di Babele di etnie che non si comprendono, magnete che attira gli affari del mondo. Non manca nulla del fenotipo pasoliniano, rintracciabile sotto i monumenti alla Rolex e a Paperino: varie apocalissi culturali hanno lasciato il posto allo sbigottimento, a una gioventù finta, liberata di anima nonché di modelli positivi. Nessuno ha coscienza del risultato finale di quel che sta facendo. Perfino i cammelli sono inselvatichiti. La tradizione è un “rimasuglio puzzolente” e il viaggiatore è facile preda del mito orientale secondo cui tutto si può comprare, tutto è lecito. E inoltre della convinzione che ciò che sopravvive del passato non abbia più niente di pittoresco, ma sia invece riducibile a una pelle che sventola nel nulla, come se una bomba al neutrone l’avesse spazzato via. Prove tecniche di solitudine. Disintossicamento dall’indifferenza. La felicità come depressione vista al contrario. Paesi intagliati nella stessa materia delle nostre paure. Senti che il mondo, per credere di sperimentare la felicità, deve ridursi alla parodia di se stesso. 

Egocentrico e maniacale, questo racconto è un’ossessione camuffata da reportage di viaggio. L’abbrutimento, lo scivolare continuo sulla soglia del disumano, va di pari passo con una sempre più marcata ipocondria, e questa con la nostalgia, riscattante, di un amore omoerotico squinternato e fuori controllo, dal quale trabocca però una sublimazione perennemente in agguato, disarmante, castissima, indomabile.

 “Chi l’ha detto che la bellezza deve essere armonia, coerenza, originalità? Se fosse vero che è, invece, aumento di vitalità, non potrebbe annidarsi in uno shock disarmonico? Una lingua innovativa, una grande capacità di affabulazione, una narrazione nella quale ti sorprendi a scoprire che fra l’infimo e il sublime non vi sono distanze, ma semmai identità. Che solo gli amori folli, disperati e perversi avvicinino davvero a Dio, come sfacciatamente sostiene Siti?  

Walter Siti – Il canto del diavolo,247 pag.Rizzoli 2009. Euro 16.50.

17 agosto 2009

“Viola” di Elisabetta Salvatori


di Gianni Quilici

Dino Campana è il poeta dell'eccesso: esistenziale e immaginativo.
In lui la poesia non è soltanto vita, ma è anche e soprattutto vita.
Vita come sperimentazione del corpo, degli occhi, dei paesaggi.
Rappresentarla non è facile. Si rischia l'estetismo (l'idealizzazione in nome della Poesia) o la banalità della superficialità.

Non è casuale che ci abbia provato Elisabetta Salvatori. Non è casuale perché i suoi spettacoli hanno spesso come protagonisti i diversi. Diversi, perché portatori di una vocazione, di un destino, di un Daimon. Alcuni noti come Ligabue e Campana, altri semplicemente personaggi del popolo.

Di Campana Elisabetta Salvatori ricostruisce la tragedia. Dei genitori che non lo amano, lo osteggiano, che forse, soprattutto la madre, hanno quasi bisogno che lui sia pazzo.
Questo sicuramente è la causa essenziale della vita tragica di Campana, costretto a dubitare fin da piccolo di sé, rimasto sempre ai margini e finito, come sappiamo, nel manicomio di Castel Pulci.

Vita tragica, ma anche esaltante. L'esaltazione è nella libertà selvaggia, che lo fa viaggiare vagabondo per il mondo. L'esaltazione è nella poesia che vive e che rappresenta, poesia misconosciuta, ma che costituisce la sua unica, vera, grande carta d'identità. Quella che lo ha fatto ri-conoscere.

Questi due elementi di fondo, la tragedia e la poesia, percorrono “Viola” in tutto lo spettacolo.
E' questo è il primo merito della Salvatori-scrittrice, presente in tutta la sua opera. Dare voce a dei personaggi, che hanno una storia con radici familiari e ambientali. Rappresentare le cause non solo gli effetti; l'individualità, ma anche il mondo che l'ha segnata.

C'è poi la recitazione. In “Viola” la Salvatori interpreta tre voci-volti: la narratrice partecipe, che racconta, a volte commenta la vicenda; l'interprete, che diventa personaggio nei ragazzi che prendono in giro il poeta, nella ragazza del popolo che ammira le poesie da lui recitate, in Campana stesso; ed infine, sia all'inizio, quando spiega, le ragioni di questo titolo (“Viola”); sia, alla fine, quando racconta la visita alla tomba del poeta, è lei stessa direttamente ad entrare in scena. Forse a sottolineare una adesione emotiva non soltanto intellettuale.

Avrei trovato forse ancora più efficace dare più spazio all'interprete, perché Campana, diversamente da Ligabue, ci ha lasciato l'eredità delle parole: oltre alle poesie, lettere, brani prosaici o di poesia in prosa.

Elisabetta Salvatori, invece, non recita Campana. Per scelta. Anche se non avrebbe avuto, credo, difficoltà ad inserire scorrevolmente suoi testi nella storia del poeta.
Ha fatto un'altra scelta. Canta “La speranza” “La chimera”... Canta, accompagnata da Matteo Ceramelli al violino e Fabrizio Calabresi al violoncello, le poesie di Campana, perché esse (alcune di esse) sono canti (orfici), che hanno una musica: ora languida, ora lampeggiante, ora allucinata...

Le musiche sottolineano alcuni passaggi. Calibrate. Trasportano verso l'alto e in profondità, fluide ma con un rapporto a volte aspro tra violino e violoncello.

Gli applausi convinti e prolungati del pubblico sottolineano che Elisabetta Salvatori ha raggiunto il suo proposito: raccontare una vita, raccontare un poeta. Trasmetterlo.


Viola. La vita di Dino Campana raccontata da Elisabetta Salvatori con Matteo Ceramelli al violino e Fabrizio Calabrese al violoncello. Ex Marmi, Pietrasanta. 13 agosto 2009.

"Storia naturale dei giganti" di Ermanno Cavazzoni


di Alessandro Trasciatti

Non è un libro per tutti (nessun libro è per tutti) Storia naturale dei giganti di Ermanno Cavazzoni, ma ha qualcosa di geniale.

Non si presenta come un romanzo né come una raccolta di racconti, ma come l'abbozzo, il manoscritto di un vero e proprio trattato di storia. Quella dei giganti, appunto, i giganti dei poemi cavallereschi quattro-cinquecenteschi, e ai poemi viene attribuita da Cavazzoni la stessa attendibilità di una cronaca o di un documento d'archivio. La finzione letteraria del passato assurge al rango di "verità" storica. Siamo di fronte, quindi, a un raffinatissimo e ponderoso divertissement, che ha qualcosa sia dell'etnologia fantastica sia della rigorosa antologia di letteratura. Sì, perché di tutti i giganti citati viene puntigliosamente ricordato il luogo letterario della loro apparizione, la fonte insomma, così che la letteratura cavalleresca si srotola di fronte al lettore fin nelle sue pieghe più recondite, nei suoi autori e nelle sue opere meno conosciute, tenendo sempre lo sguardo puntato sulla presenza dei giganti, figure che appaiono marginali e a cui, invece, nessun autore di poemi sembra saper rinunciare.

Di tanto in tanto, si fa sentire la voce dell'autore-ricercatore, sotto forma di notazioni diaristiche poetiche e desolanti intorno alla fatica dello studioso e ai suoi mali d'amore, incarnati dalla sfuggente signorina Guastavillani. La sfera intima del narratore si alterna al rigore della sua ricerca impervia e coscienziosa, una trama di ragno sul nulla, su quel mondo di nulla che è la letteratura.

Quando la passione amorosa prende il sopravvento sulla ricerca scientifica, la scrittura cambia passo, la voce si fa risentita e irresistibilmente comica, come nelle lunghe tirate contro Barbieri, l'inetto fidanzato della signorina Guastavillani. Altrove la voce rallenta, e il paragrafo si chiude con qualche sconsolata considerazione sull'esistenza, sulla solitudine.

L'inizio stesso del libro è desolato, poeticissimo e esilarante, è una Dedica futura che merita di essere riportata, almeno in parte: "Questo scritto, quando sarà perfezionato e pulito dalle note mie personali, voglio che sia dedicato a Monica Guastavillani, anche se da lei per la verità non ho avuto un aiuto, anzi, da lei ho sempre avuto un implicito ivito a lasciare perdere. I giganti non l'hanno mai interessata. Eppure sono stati una cosa gloriosa, a quanto dicono i poemi di cavalleria; una popolazione gloriosa di cui oggi poco si sa, purtroppo, dei loro usi, costumi, caratteri fisici, tendenze sessuali, sistemi riproduttivi, manie, sociologia; e poi decadenza e scomparsa; perché a questo mondo tutto finisce, Monica Guastavillani ad esempio con lei è finita, alla data attuale, e anche i giganti sono ad un certo punto finiti, poveretti, come sono finiti i mammuth, o come fra poco saranno finiti i gorilla del Kilimangiaro, i panda, la balenottera azzurra, la tigre della Tasmania. I giganti sono finiti per via della caccia spietata che hanno subito; e per via, io dico, del loro sistema riproduttivo male orientato, della attività sessuale sgonfia, imprecisa."

In questo inizio c'è tutto Cavazzoni, la sua voce, la sua tristezza impastata di euforia, la sua frase molle in cui si scivola dal rigore pseudo-scientifico all'imprecisione lirica del tema in classe, del pensiero a voce alta, e il discorso così va su e giù, tra massimi sistemi ("a questo mondo tutto finisce") e minimi collassi ("Monica Guastavillani ad esempio con lei è finita, alla data attuale") che ne sono la poco calzante dimostrazione, per poi infilzare come salsicce le parole, una dietro l'altra, perché Cavazzoni conosce bene il comico degli elenchi, il riso che nasce dagli accumuli, dalla sproporzione. E questo sui giganti è un libro sulla sproporzione.

Mi ricordo - vagamente devo dire - che qualcuno criticava il suo primo libro, Il poema del lunatici (1987), perché era bello, sì, ma troppo lungo. Ora, anche questa Storia naturale dei giganti non è che sia corto, sono 250 pagine molto fitte, e a un tratto mi sono chiesto anch'io se ci volessero davvero tutte. Poi mi è venuta in mente una scena del film Amadeus: qualcuno critica Mozart dopo un concerto perché nella sua sinfonia c'è qualcosa di...come dire..."Troppe note!". Al che Mozart, tagliente, chiede che gli vengano indicate quelle da togliere. Il critico ovviamente non sa che dire. Ovviamente neanch'io saprei che dire a proposito del libro di Cavazzoni, è un'impressione buttata lì senza pensarci troppo. Una certa dismisura è implicita nella sua scrittura e, del resto, proprio la letteratura cavalleresca trova nella sovrabbondanza inesauribile dei suoi episodi una delle sue ragioni di fascino. E forse è anche il retaggio di un certo sperimentalismo, di una certa poetica dell'oltranza (mi vengono in mente Queneau e soprattutto Perec). Cavazzoni non è certo estraneo a questi ambienti, anzi, è membro dell'Opificio di Letteratura Potenziale.

Ma poi davvero cosa depennare, l'Indice dei giganti citati, strepitosa parodia degli indici ragionati della saggistica? ("Amoroldo: non pensa niente e scalcia", "Antena: simile a un martello pneumatico", "Arcifanfano: scorreggia molto prima di essere castrato" ...e così via). O l'altro indice, quello delle opere citate, prezioso di indicazioni e di commenti autoriali? ("Ludovico Ariosto, Orlando furioso, 1516-1532; libro da venerare e tener sempre in tasca in edizione mignon - ad esempio Hoepli - perché mai fu scritto al mondo libro più eccelso ed aereo"; Cesare Lombroso, L'uomo delinquente, 1876; questo è un libro che può riuscir comico e fantasioso, quando si è di buon umore; altrimenti è il libro di un povero citrullo"...). Ovviamente no. Resta solo un'impressione vaga di ridondanza. Nient'altro. Nient'altro che un libro bello e singolare.


Ermanno Cavazzoni. Storia naturale dei giganti. Guanda 2007. Pag. 252. Euro 14.50.

14 agosto 2009

"Philo Vance, investigatore e superuomo" di Luciano Luciani



Il romanzo poliziesco made in Usa delle origini si ispirò più ai grandi modelli inglesi che all’americano Edgar Allan Poe. Nemo propheta in patria e, infatti, l’inventore del Cavalier Dupin era stato apprezzato più in Europa che negli Stati Uniti: gli americani non lo avevano percepito come un loro autore e i pionieri del genere l’avevano ben presto dimenticato per preferirgli i miti, i moduli, le convenzioni di Wilkie Collins, Conan Doyle, Richard Austin Freeman.

Una perdita di memoria e un complesso di inferiorità che pesarono per oltre mezzo secolo sulla produzione americana: lo conferma la scrittrice americana Anna Katharine Green (1846 – 1935) con il suo decoroso The Leavenworth Case: A Lawyer’s story, 1878, conosciuto in Italia, dove venne pubblicato agli esordi della mondadoriana collana dei “gialli” con il titolo Il mistero delle due cugine, 1929. Diligente ma prolissa descrittrice della psicologia dei personaggi, attenta ma convenzionale osservatrice degli ambienti e del costume della borghesia puritana, la Green ottenne negli Stati Uniti un grande successo di pubblico. Oggi, ce lo spieghiamo solo con la novità rappresentata dal suo poliziesco plasmato sui modelli dickensiani di moda in quegli anni in Gran Bretagna grazie ai lavori di Wilkie Collins, più “serio” e formalmente più curato, rispetto al melting pot costituito dalla letteratura popolare dei dime novel: opuscoli scritti in maniera sciatta, che contenevano una storia compiuta, a metà strada tra il racconto lungo e il romanzo breve, in vendita al contenutissimo prezzo di dieci centesimi, un dime, appunto e che proponevano tanto avventure western che celebravano i miti fondativi degli States banalizzando i temi della tradizione cooperiana, quanto racconti giudiziari e storie criminali. A Mistery Novel è il sottotitolo che la Green assegna a questo suo romanzo d’esordio, il cui successo sarà replicato cinque anni più tardi da un altro romanzo X.Y.Z. A detective story, 1883: due dizioni che saranno adottate d’ora in poi nei paesi di lingua inglese per definire un genere che sembra aver acquisito ormai una sempre più sicura coscienza della propria esistenza in quanto tale.

Pochi anni più tardi, fu tutta americana la fortuna di Arthur Conan Doyle: infatti, nel 1887 apparve sul “Beeton’s Christmas Annual for 1887” A study in scarlet, Uno studio in rosso, che l’anno dopo fu pubblicato in un volume autonomo. Scarsa l’attenzione del pubblico inglese, contraddetta di lì a un paio d’anni dai meno esigenti lettori americani che sancirono entusiasticamente il successo di The Sign of the Four, (Il segno dei quattro): una popolarità che tornò di nuovo in Inghilterra per poi dilagare nel resto d’Europa, in tutto il mondo e durare fino ai nostri giorni…

E dall’una all’altra sponda dell’Atlantico continuava a rimbalzare, acquisendo via via sempre nuove sfaccettature, particolari, tonalità la figura di un nuovo protagonista aristocratico per sangue o per denaro, snob, esteta e nietzschiano. Intorno all’ultimo prodotto di questa convenzione letteraria dura a morire, leggiamo quanto scrive Corrado Augias, lettore, scrittore e buon divulgatore delle problematiche relative al genere poliziesco:
“Nel 1923, quando aveva 35 anni Willard Huntington Wright (1888 – 1939) si ammalò di tubercolosi. Fino a quel momento era stato un brillante intellettuale nuovaiorchese, nativo di Charlottesville in Virginia e quindi ingentilito da un’aristocratica vena meridionale. Noto giornalista e critico d’arte, il giovane Wright aveva scritto per le migliori testate dell’Est e pubblicato, a 28 anni, un romanzo sperimentale (The man of promise) giudicato, almeno dalla critica, con grande favore.
Poi venne la Tbc e con la malattia la lettura, su ordine dei medici, solo romanzi “ameni”, vale a dire polizieschi. L’argomento lo appassionò al punto che Wright decise di scrivere una “storia” del giallo. Fortunatamente invece di un saggio scrisse un romanzo, La strana morte del signor Benson, che pubblicato nel 1926, segnò la prima uscita del detective Philo Vance e dello pseudonimo di S.S. Van Dine”.

Se Philo Vance non è il più originale dei protagonisti del genere - né il più simpatico, Raymond Chandler, non senza qualche ragione, lo definì “il personaggio più pomposo e balordo dell’intera narrativa poliziesca” - certo è il più colto: è un’autorità in materia di stampe cinesi e giapponesi, esperto di arazzi e ceramiche; collezionista di quadri e objets d’art che vanno da oriente a occidente, dall’antico al moderno, dai primitivi italiani a Cezanne e Matisse… Le sue raccolte avrebbero suscitato l’invidia di un eroe dannunziano. E’ anche straordinariamente colto: i corsi da lui frequentati comprendevano la storia delle religioni, la letteratura greca classica, biologia, educazione civica, e ancora economia politica, filosofia, antropologia, letteratura, psicologia teorica e sperimentale e lingue antiche e moderne… Scrive giustamente Augias che, al confronto della cultura di Vance, il mitico Sherlock Holmes fa la figura di uno studente di provincia. Elegante, insolitamente attraente, alto un metro e ottanta, aggraziato, capitano della squadra universitaria di scherma, eccellente giocatore di golf, nazionale di polo, gran viaggiatore, è il primo detective completamente americano nella storia del genere, anche se si ricollega alla ormai consolidata tradizione del detective-superuomo inaugurato da Poe con Dupin, riproposto da Matthew Shiel con il principe Zalesky e ribadito dallo scrittore Henry Cristopher Bailey con il suo Reggie Fortune, erudito, raffinato gourmet e gran conoscitore di vini francesi. Insomma, Philo Vance sembra tutto interno alle convenzioni ormai ben definite del genere: forse, però, come nota con grande acutezza Giuseppe Petronio nel suo fondamentale Sulle tracce del giallo, “dentro quella impalcatura da secondo Ottocento si muovono tante cose nuove e moderne, da Novecento”.

Lasciamo ancora la parola al grande critico italiano: “Il più innovatore, un rivoluzionario addirittura, è proprio quel Van Dine che in apparenza è il più legato al modello. Il suo Philo Vance è, se fosse possibile, più dandy di Sherlock Holmes; la sua spalla è più Watson dello stesso Watson; i suoi omicidi hanno luogo tutti in ambienti aristocratici o del bel mondo, i suoi assassini sono tutti colti e intelligenti; la sua concezione del delitto è ancora ottocentesca: intorno a lui infuria già il gangsterismo, a Chicago imperversa Al Capone, e lui sentenzia, sprezzante e nicciano che ‘il crimine non è un istinto di massa se non in tempo di guerra, quando diventa uno sport osceno. Il crimine… è un fatto personale, individuale’ ”.
Contrariamente all’apparenza, dunque, per Petronio i romanzi di Van Dine non rappresentano un’esperienza statica nella storia del poliziesco, un consolidamento un po’ ripetitivo di situazioni e personaggi, ma dinamica. I suoi libri costituiscono “una specie di manifesto… di una poetica e di una epistemologia antipositivistiche, di un rifiuto ragionato e sprezzante della detection fondata sulle certezze scientiste”. Il dandy newiorchese non ha nessuna fiducia, infatti, nella criminologia o nell’antropologia criminale; per lui le prove indiziarie - impronte digitali, informazioni sulle ceneri di tabacco lasciate sul luogo del delitto, conoscenza delle diverse qualità di fango rimaste attacate sulla suola delle scarpe, i materiali consueti di ogni buon detective da Sherlock Holmes in poi - sono del tutto inadeguate ed inaffidabili e ad esse vanno di gran lunga preferite le teorie psicologiche e le ipotesi, per così dire, estetiche. La natura umana non può essere ridotta ad una formula e “la verità è che l’uomo, come la vita, è infinitamente complesso. E’ astuto e ingannatore, allenato da secoli ai tiri più diabolici. E’ una creatura scaltra e meschina che, perfino nel normale corso della sua vana e idiota lotta per l’esistenza, mente istintivamente e deliberatamente novantanove volte su cento”. Per Philo Vance, in perenne polemica con il procuratore distrettuale John Markham e con tutti i poliziotti che lavorano diligentemente sulle prove indiziarie, “nessun criminale intelligente lascerà le sue impronte per i vostri compassi e nastri misuratori”. Il disprezzo per il valore conoscitivo dei fatti non potrebbe essere più totale: ad esso va sostituito la conoscenza dell’uomo perché ribadisce Vance “… ogni atto umano, grande o piccolo, è l’espressione diretta della personalità dell’uomo e porta l’inevitabile impronta della sua natura”: la stessa svalutazione del dato di fatto che proprio in quegli anni si poteva ritrovare in tutta la produzione del decadente Pirandello e che un quarto di secolo più tardi, all’indomani del secondo conflitto mondiale, diventerà la cifra dei polizieschi di Friedrich Durrenmatt.

Philo Vance avrebbe risolto casi misteriosi fino al 1939, anno della scomparsa del suo creatore: oggi, lo scrittore americano è ancora letto e ripubblicato, anche se nessuno scrittore di romanzi polizieschi si attiene più al suo doppio decalogo, ovvero Le 20 regole per il delitto d’autore (Twenty Rules for Writing Detective Stories) spiritosamente suggerite da S.S. Van Dine in un articolo apparso nel settembre 1928 su “American Magazine”. Ne riportiamo le prime sette in quanto hanno costituito e costituiscono ancora i confini e i criteri a cui si attengono i cultori - scrittori e lettori, ancora peraltro molto numerosi - del cosiddetto “poliziesco classico” :

1.Il lettore deve avere le stesse possibilità di risolvere il mistero che ha l’investigatore. Ogni indizio e ogni traccia debbono essere accuratamente descritti ed annotati.
2.Il lettore non deve essere oggetto di trucchi e raggiri diversi da quelli che il criminale usa legittimamente nei riguardi dell’investigatore.
3.Le storie d’amore non devono essere troppo appassionanti: lo scopo è quello di condurre un criminale davanti ai giudici, non due innamorati davanti a un prete.
4.Il colpevole non deve mai essere né l’investigatore né uno dei poliziotti ufficiali…
5.Bisogna arrivare a smascherare il colpevole attraverso deduzioni logiche, non per coincidenze o per caso, o per una confessione non motivata…
6.In ogni romanzo poliziesco deve esserci un poliziotto e un poliziotto è tale in quanto indaga e deduce. Suo compito è di raccogliere indizi che permettano la cattura del criminale colpevole…
7.In ogni romanzo poliziesco deve esserci almeno un morto che più è morto, meglio è…

E così via… investigando.

10 agosto 2009

"Vite di corsa" di Zygmunt Bauman


di Gianni Quilici

Ho scoperto tardi e casualmente in un dibattito pubblico la “società liquida” di Bauman.
Merito di Rina Gagliardi, allora senatrice di Rifondazione Comunista, che lo citò.
Mi colpì, perchè “società liquida” è una metafora che si adatta bene ai tempi che corriamo.
Così ho iniziato a comprare e a leggiucchiare i libri e gli articoli (su Repubblica delle donne) di Bauman.

Il primo libro che ho letto interamente è questo, Vite di corsa, una lezione magistrale tenuta, da Bauman, a Bologna.

La prima impressione: difficoltà ad appassionarmi, nonostante il tono discorsivo, per un linguaggio specialista, da studioso, in questo caso, sociologico. Non sarà sempre e con tutti così. Ma le esemplificazioni, le citazioni, quel particolare tipo di citazioni con definizioni o statistiche, allentano forse la tensione speculativa, la consequenzialità del ragionamento, a volte forse la perdono, facilitano la ripetizione dei concetti.

Quindi: se per un verso ho trovato osservazioni giuste, condivisibili, penetranti; per un altro la lettura non mi ha appassionato, tendeva ad annoiarmi. Diversamente da un altro studioso come Hillman [mi sono trovato, più o meno, contemporaneamente a leggere “Cent'anni di psicoanalisi”, lettere e incontri del filosofo-psicoanalista con lo scrittore e giornalista Michael Ventura], in cui, pur nella vastità di riferimenti culturali, si avverte che le argomentazioni puntano dritte “all'anima”. C'è quello, per fare un'associazione ardita, che Roland Barthes chiama “punctum”.

Detto questo, la più profonda impressione è che Bauman sia un sociologo assolutamente da leggere, per chi, oggi, voglia capire e, eventualmente, trasformare questa società agonizzante che ci ospita.

Tuttavia non è facile, anzi impossibile, raccogliere in sintesi il suo ragionamento.
Il tema centrale di questa lezione è forse la velocità non a caso presente nel titolo stesso del libro.

La velocità in un processo produttivo, che sforna continuamente nuovi oggetti, li rende desiderabili, richiedendo quindi al consumatore, se vuole “essere” all'altezza dei tempi, un continuo adeguatamento al loro mutare.
La velocità altrettanto rapida nel consumo (comprare-consumare-gettare).
Una strumentazione pubblicitaria che mira al consenso (approvazione ed inclusione come status symbol, ogni volta da rinnovare), agendo sui processi più intimi dell'identità.

Le conseguenze sulle strutture psicologiche sono “sottilmente” devastanti: cultura del presente-tirannia dell'istante, cancellazione del passato. Il tempo non è più né ciclico, né lineare, come accadeva nella società contadina e industriale, ma diventa puntillistico, frammentato, cioè, in una moltitudine di particelle separate con la facile conseguenza che i frammenti prendano il sopravvento e che diventi sempre più difficile creare narrazioni, ordini, gerarchie e sequenze evolutive.

E' questo il punto più interessante: il rapporto tra consumo, desideri e psicologie, perché è questo che ha prodotto e produce un mutamento radicale delle classi sociali, anche delle più povere.
Perché è mutata e muta la disposizione psicologica ( percezione, concentrazione), l'utilizzo del pensiero (assimilazione, elaborazione, sistemazione) in una struttura complessiva dell'esistenza, in cui compiti, responsabilità, ritmi per la loro frammentazione, forza, pesantezza, precarietà, seduzione si fanno sempre più difficili da seguire, controllare, scegliere.
Bauman, e non è il solo, ci avverte con un'analisi puntigliosa: la nostra identità di persone è pesantemente a rischio, perchè può essere, dall'alto, “assembleata e disassembleata in modo intermittente e sempre nuovo”.

Per questo, conclude Bauman “abbiamo bisogno dell'educazione permanente per avere la possibilità di scegliere. Ma ne abbiamo ancora più bisogno per salvaguardare le condizioni che rendono le scelte accessibili e alla nostra portata”.

Ma quale educazione permanente oggi è possibile che non sia anche lotta politica? E quale lotta politica oggi può avere successo se non recupera creativamente le analisi che Bauman ed altri (la scuola di Francoforte, Eriksen, Jameson, Lyotard, Sartre, Hillman, il Pasolini luterano, nonché scrittori e registi) dedicano alla società postmoderna e al mutamento corpo-anima dell'essere contemporaneo?

Zygmunt Bauman. Vite di corsa. Traduzione di Daniele Francesconi. Il Mulino. Pag. 102. Euro 10.

09 agosto 2009

"Finalmente ti scrivo" di Carmen Llera Moravia


di Gianni Quilici

C'è una ragione “forte” per leggere questa esile “testimonianza”. La ragione è Alberto Moravia: per le sue lettere, ma anche per il modo con cui Carmen Llera Moravia le ha inserito nel libro.

Finalmente ti scrivo è un colloquio tra Carmen Llera, la giovane moglie, e il romanziere, che prende spunto da un centinaio di lettere che Moravia le ha scritto “lettere d'amore tenere o disperate lucide intelligenti vitali generose comiche” che lei distruggerà, perché sono solo per lei, “il pubblico ne farà a meno”. Con parti di queste lettere Carmen Llera dialoga nel corso del libro; sette, autografe, che inserisce una all'inizio, le altre alla fine.

Prendiamo la prima:
“Cara Carmen
Tutto sarebbe semplice se
io non ti amassi. Siccome
ti amo e l'amore è già
di per se stesso complicato,
tutto è invece orribilmente
complesso e angoscioso.”

Queste lettere hanno insieme la lucidità “estrema” di Moravia e il dolore, spesso, di non “raggiungerla”, di non trovare non dico amore, ma “incontro” con la determinazione di lasciarla comunque libera, di non ricattarla in ogni modo con stati d'animo. C'è qui la grandezza dell'intellettuale ed anche dell'uomo, che si mette accanto, né davanti, né dietro.

L'altro aspetto di interesse del libro è la figura di Carmen Llera, che sembra vivere in un vuoto continuo di noia, di disperazione, di inutile fuga da risultare infine misteriosa e indecifrabile, più coatta forse che libera.
Memorabile la lettera in cui Moravia, un po', la tratteggia.

“Cara Carmen
non so quello che ti succede né voglio saperlo tanto più che tu stessa non sembri saperlo.
Ma da qualche tempo hai preso la strada del nulla, come ti ho detto oggi per telefono. Da un nulla crei un nulla che però purtroppo ha effetti tutt'altro che inconsistenti.
Sono convinto che in questo nulla che vai creando, io non c'entro, è il caso proprio di dirlo, proprio nulla. Non sarebbe la prima volta che fatti a me estranei e soltanto tuoi intervengono nella nostra vita e nei nostri rapporti (....)”
In un'altra lettera scrive:
“Purtroppo tu continuerai a fare quello che hai sempre fatto: distruggere quello che c'è per correre dietro a quello che non c'è...”

Ed anche nel suo raccontare-raccontarsi Carmen Llera tale rimane. La sua scrittura asciutta a mo' di poesia in prosa è orizzontale e lapidaria. La differenza con Moravia è netta. In Alberto Moravia il fatto diventa subito “perché” e la risposta spesso un altro “perché” ancora, come una trivella, che ad ogni scavo trova nuove profondità. In Carmen Llera i fatti si susseguono ad altri fatti a rappresentare non sviluppo, interazione, sorprese, ma immobilità, noia, non senso, assurdo, perché non c'è altro, così è.

Carmen Llera Moravia. Finalmente ti scrivo. Romanzo Bompiani. Pag. 88. Euro 10.33.

07 agosto 2009

"Grigio" poesia di Michela Ladu


di Gianni Quilici

Grigio
Seguo con gli occhi voltati
i rintocchi d'un pendolo morto.
Sbottono la scarlatta vestaglia
floreale, ma il seno s'è diradato
aprendo alla luce d'un eden tagliente,
alla massima saturazione.
La testa mi cade come da burattino
e rotola e morta
si rifugia nella penombra che all'angolo freddo
regala il fantasma del pendolo grigio.
Michela Ladu


E' una poesia narrativa.
Leggiamola senza bisogno di comprenderla subito.
Colpisce la sua inusuale narratività: una donna e i rintocchi di un pendolo; una vestaglia che si apre e il seno che si dirada in una luce limpidissima; la testa che cade, rotola e si rifugia in un angolo freddo.

Poesia non realistica. Una sorta di incubo ad occhi aperti. Visionaria. Onirica. Allucinata. Edgar Allan Poe?

Ri-leggiamola. Tre attimi. Il tempo percepito come morto. La luce e la disintegrazione del corpo. La testa che si separa dal resto in una sorta di schizofrenia: muoio, ma mi vedo, contemplo la mia morte.

La domanda più radicale potrebbe essere. Dolore vero o dolore falso, cioè estetico?
La risposta la dà la poesia stessa.

Primo: nella sua “fattura”. “Grigio” è percorsa infatti da continui contrasti, da (improvvisi) ossimori: eden e tagliente, vestaglia scarlatta e floreale e seno diradato, massima saturazione della luce e angolo freddo in penombra.

Secondo: ha un montaggio musicale. Seguo (con gli occhi), sbottono (la scarlatta vestaglia) e poi bellissimo come stacco per la sua naturalezza radicale “La testa mi cade ...” con una similitudine visionaria molto efficace (“ come da burattino”)....

Infine e soprattutto questa poesia di disperazione e solitudine è scritta senza compiacimenti, in una specie di distaccato dolore come se la protagonista fosse al tempo stesso attrice e spettatrice. Non c'è quel compiacimento di chi vuole suggerirti “quanto soffro, come sono brava!”

Ma chi è Michela Ladu?
Michela Ladu non è lucchese, è sarda, è nata a Oristano e lì risiede. Non ha mai pubblicato poesie. Questa è una delle tante inedite. Le ho chiesto: “Presentati”. Ecco la sua risposta.

“Vorrei cominciare con una citazione, ma evito.
Ho 28 anni e non ho ancora un lavoro che mi permetta di mantenermi.
Sono laureata come la maggior parte degli ignoranti del Paese.
Amo la pittura ed Egon Schiele in particolare.
Sono lunatica, intransigente e vanitosa, ma i complessi di inferiorità complicano i miei tratti caratteriali.
Sono innamorata.
La poesia? E' soltanto una terapia.
Non vedo il mio futuro e odio tutto ciò che ha a che fare col consumismo.
Mi piace la lattuga dell'orto della mia migliore amica.
Amo viaggiare ma non me lo posso permettere.
Vorrei essere Tim Burton.
E questo è quanto.
Michela”

da "Arcipelago" n. 44

03 agosto 2009

"La lentezza" di Milan Kundera


di Emilio Michelotti

Vincent si porta le dita al naso, l’odore di femmina dopo l’amplesso gli fa scordare per un attimo la sua insaziabile sete di velocità.
Fermarsi, rimandare, ritardare, tenere sospesa più a lungo possibile l’eccitazione. C’è un ineffabile alone di sensualità che le donne custodiscono e riescono a calibrare con astuzia. Oltre questo nelle nostre vite non c’è che banalità, se le si guarda da un punto appena eccentrico; tale angolo prospettico ci può consentire di irridere loro e trattarle con i più esilaranti degli sberleffi. In fondo non meritano altro.

Alle due storie, lontanissime nel tempo ma non nello spazio, che Kundera sa intrecciare con il solito sarcasmo, al lettore salta subito agli occhi che se ne può aggiungere una terza. E’ quella che l’autore sperimenta con la moglie Vera, autentico campione di perspicace lentezza, accomunata alle altre donne del racconto da un’incrollabile fiducia nella necessità di assaporare con calma l’esistenza. Non così Immacolata, avida telecronista d’assalto, che ha più fretta e più palle di un uomo.

Accadde che, oltre duecento anni fa, uno scrittore noto come Vivant Denon dette vita al personaggio di Madame de T: gli intrighi di questa maschera di fine Settecento sembrano essere il modello, o forse meglio l’archetipo, dell’universale permanenza della capacità avvolgente della seduzione e dei tranelli femminili.

Come macchiette, marionette, pupi, ci affolliamo sul palcoscenico di una grottesca rappresentazione, ognuno occupato a scalzare l’altro, a ridicolizzarlo, a creare intorno a se stesso un’aura di esecranda sacralità. Si finisce così per prendere sul serio perfino i più buffoni di noi, coloro che riescono a vendere come intrigante e poetica l’immagine di una luna “buco di culo spalancato sull’universo”. Il disprezzo per gli altri è vissuto soggettivamente con la convinzione teologica di appartenere a una classe di eletti.

Nel tratto autoironico che sta dietro la caricatura di un intellettuale ceko, eroizzato senza meriti dalla stupidità del vecchio regime, Kundera cela il sospetto che tale tipologia sia da estendere erga omnes. Nel teatro dell’assurdo nel quale ci accalchiamo non c’è posto che per la corsa frenetica dell’esibizione. Eppure un odore ci può rimandare in modo del tutto involontario ad una inconsapevole appartenenza alla natura selvaggia, e quindi a una remota libertà. Può, come le nuvole in un famoso corto di Pasolini, riconnettere le tracce di umano che sono in noi al fluire impalpabile del respiro cosmico.

Milan Kundera – La lentezza – traduzione di Ena Marchi - Adelphi edizioni, 1999 e 2002