06 maggio 2014

“Scenografi e scenografia” di Sara Martin




di Mimmo Mastrangelo

 Uno dei mestieri più affascinanti e importanti  nel cinema è senza alcun dubbio quello dello scenografo al quale spetta il compito di individuare e creare il giusto adattamento ambientale ed atmosferico dell’opera.

Lo scenografo è quello che inventa la sostanza plastica ed architettonica di un film, contribuisce “al risultato estetico, traduce visivamente il tono dell’opera, connota il genere o lo stile e intrattiene uno stretto legame con gli altri elementi della rappresentazione”, il suo lavoro serve, insomma, a costruire i personaggi  e l’azione che li lega.

Come dimostra  Sara Martin nel suo volumetto “Scenografia e scenografi” (Il Castoro Editore) il cinema italiano è stato una grandissima scuola di architetti dell’ambientazione, si pensi ad Alfredo Manzi (“Assunta Spina”), Italo Tomassi che ha lavorato in più trecentocinquanta produzioni (sua è la ricostruzione del Colosseo in “Roma” di Fellini   e la sagoma del transatlantico in “Amarcord”, altro capolavoro felliniano), Virgino Marchi ( “La macchina ammazza cattivi”, “Europa 51” ), Gianni Polidori, Piero Gherardi, Mario Garbuglia, Giulio Bongini, Carlo Simi (inventore degli immaginari degli spaghetti western) Enrico Job, Lino Fiorito, l’hollywoodiano Ferdinando Scarfiotti e, naturalmente, il maestro-dei-maestri Dante Ferretti, celebratissimo in tutto il mondo per il suo genio creativo attento, soprattutto, ad esaltare i  dettagli di un interno o un esterno.

E’ interessante  il libro della Martin, in quanto  permette di sfogliare velocemente pezzi di storia del  cinema, seguendo il lavoro  degli scenografi che oggi,  sempre più, si appoggia alla tecnologia digitale. Ma,  sicuramente, le  pagine che  più appassionano sono quelle in cui vengono esaminati scenograficamente i film  “Cabiria” (1914) di Giovanni Pastrone, “Germania anno zero” (1948) di Roberto Rossellini, il peplum “Ulisse” (1954) di Mario Camerini, “La dolce vita (1960) di Fellini, “Il gattopardo” (1963), ma ancora più avvincente è la lettura  in parallelo dal lato scenografico di due capolavori del cinema italiano, entrambi girati cinquant’anni fa: “Il deserto rosso”  di Michelangelo Antonioni e il pasoliniano  “Il vangelo secondo Matteo”.

Nel primo film lo scenografo Piero Poletti  esplora “soluzioni inedite e sperimentali” e, in particolare, punta ad una manipolazione del colore e degli esterni tale da rendere  visibile  una certa “volontà di interiorizzare lo spazio”. Nel “Vangelo” Luigi Scaccianoce e Dante Ferretti, nell’assecondare la volontà di Pasolini, costruiscono le scene per intercettare riferimenti cinematografici (Dreyer, Mizoguchi, Godard) ed evocare  temi pittorici e musicali a tutti i livelli: si pensi da una parte a  Piero della Francesca, Masaccio, Giotto e dall’altra a Bach, Weber,  Mozart, alla messa Massonica.

Nel Vangelo  “il potenziale  dello spazio è rappresentato  dalla contaminazione magmatica tra la sacralità dell’oggetto narrato e la quotidianità dei luoghi resi sacri  dell’autore. I collaboratori di Pasolini manipolano lo spazio , l’ambiente, il colore in funzione dei personaggi,  potenziati ed addirittura sacralizzati dello spazio in cui si muovono .

Scrive ancora  Sara Martin: “Pasolini si allontana dalla rappresentazione canonica del Vangelo e si serve di spazi architettonici (i Sassi di Matera) che hanno un’eccedenza di significato autonomo rispetto  all’universo narrativo  che l’autore intende  rappresentare. I Sassi sono riconoscibili e mantengono residui di significati propri,  nel caso del Vangelo , non solo costituiscono un’eccedenza ingombrante in senso negativo , ma al contrario  producono un arricchimento reciproco tra il film  e l’oggetto architettonico , coinvolgendo la forma  e il senso di entrambi”.

Sara Martin. “Scenografi e scenografia”. Il Castoro. Pag.155 Euro 15,50.



                                   

05 maggio 2014

“Chercher le point de veu”: il fotografo come scultore




di Davide Pugnana


Il fortunato incontro tra Giuseppe Bergomi scultore e Roberto Cortese fotografo ci richiama, oggi, al celebre “paragone” tra scultura e fotografia: un binomio che il secolo scorso ha lavorato a declinare almeno in due direzioni. Da un lato, ci viene incontro lo scultore-fotografo, colui che, dopo aver risolto l’opera danzandovi attorno, torna, talvolta per un inspiegabile impulso, a rileggere lo stesso dettato figurale in tre dimensioni nel fuoco di un unico punto di vista, quello dell’obiettivo della macchina fotografica; dall’altro, c’è il fotografo di sculture, colui che, viceversa, sperimenta la possibilità di leggere l’opera d’arte liberata nello spazio disarticolandone e ricollocandone le parti in una nuova struttura visiva. D’acchito pensiamo agli scatti di Medardo Rosso, Brancusi e Man Ray; mentre per la seconda tipologia, la memoria corre al bianco e nero degli Alinari, ai drammatici rilievi di Giovanni Pisano e ai corpi di Michelangelo nell’obiettivo di Aurelio Amendola, all’esplorazione di San Pietro da parte di Antonia Mulas.

La visione di Roberto Cortese si situa al confine tra questi due approcci. Egli è il fotografo che, forte delle risorse del suo medium, vuole ripercorrere il processo creativo dello scultore per capire come sono fatti i suoi corpi, spinto dal desiderio di scomporre e ricomporre il risultato finale di bellezza; ma è anche, e soprattutto, l’interprete curioso che orienta il suo sforzo di immedesimazione nell’oggetto plastico verso un itinerario di riscoperta dell’opera attraverso la narrazione delle immagini. Questo statuto bifronte permette a Cortese di evitare l’insidioso pericolo dell’antologia fotografica a fini documentaristici, sulla falsariga delle riprese “da catalogo” e di virare la sua onestà ottica verso i punti essenziali dell’esperienza visiva.

Così, delle figure bergomiane di Cronografia di un corpo, Cortese fissa la luce che scorre e si frantuma sui piani cubitali delle ginocchia; insegue il guizzo luminoso che si inarca sui piani tesi delle tibie da atleta, o scende inseguendo il pulviscolo luminoso lungo la schiena come goccia in corsa su un arco. D’improvviso, scopriamo le meraviglie del modellato e, in esse, la consistenza e il peso di queste bronzee presenze prossime a farsi carne: le minute e scabre rugosità dei capelli; l’enucleazione delle spalle, aperte con la dolcezza di un cammeo; le clavicole spiccate in rilievo che sembrano bacchette d’ebano e alle quali rispondono, all’opposto, quelle scapole appena disegnate sottopelle, ora affossate ora rilevate nell’allacciarsi di un braccio con l’altro. Con gioia feroce contempliamo il lieve riporto di pelle sotto le natiche, e, ancora più a fondo, ficchiamo l’occhio nella scabra grana epidermica del collo, crivellata di graffiature e di tagli. Quando Cortese isola tre corpi della serie e ce li mostra nelle loro rispondenze ritmiche, scopriamo la varietà delle finezze anatomiche trovate da Bergomi nella sua infaticabile esplorazione del nudo: le mani allungate e guizzanti che spiccano dai polsi con moto serpentinato; le dita dei piedi puntellate al suolo e i polpacci vibranti nell’anelito elastico della figura tesa verso l’alto; il collo in sforzata torsione; le punte satinate dei seni; la sciabolata d’ombra scavata sotto il mento a sottolinearne la spaziatura.

In questo splendido dialogo tattile con l’opera di Bergomi, così prossimo al possesso, l’intelligenza e l’acume dell’occhio di Cortese sanno restituirci ciò che, per quanto visibile alla superficie, si ostina ad annidarsi sotto l’organismo plastico. L’obiettivo fotografico, tagliando di sguincio l’infilata dei corpi o stringendoli da vicino, aderisce, partecipa, dà battaglia all’oggetto che gli sta davanti. Fruga a denudare quei depositi inespressi sfuggiti persino al controllo dello scultore, il quale, così richiamato, torna sui suoi passi e coglie, con lo stupore della prima volta, il di più di espressività latente che già era racchiuso nel suo lavoro. Per Cortese fotografare la scultura non significa tanto trarne fuori lo charme pittoresque, quel mettervi addosso un filtro o una cipria che funga da maschera di bellezza. È semmai il contrario: pur dovendo tradurre un “testo” (fatto di creta e bronzo patinato), in lingua diversa egli riesce a mantenere la guaina plastica della rappresentazione originale. E non c’è retorica fotografica neppure nel fissare dettagli non immediatamente visibili. Isolati nel campo visivo dello scatto, la loro apparizione dichiara sempre l’appartenenza al corpo sculturale senza mai cadere nel particolare anodino o spettacolare. In questo senso, Cortese gioca a trasformare i dettagli in punti unici di intensità, non in frammenti di un discorso visivo. Con questo colpo d’ala, egli ci ricorda che siamo davanti ad elementi di un tessuto formale concepito dall’artista per funzionare nella relazione di tutte le parti.

Forte di questa qualità della focalizzazione Cortese riesce a farci toccare con l’obiettivo la scattante vivacità e asciuttezza degli undici corpi femminili dislocati in alto, come su di un irraggiungibile altopiano. Ecco spiovere verso di noi quelle mani liberate nell’aria o strette al corpo; quelle schiene e spalle saettate di increspature muscolari; il flettersi delle gambe e la luce che scivola via; e su tutto quella balenante rapidità di modellato liscio, rilevato o modulato senza interruzioni che permea tutti i passaggi plastici; e ancora, il susseguirsi di quelle linee sinuose o acutamente spezzate che registrano l’alternarsi, nel processo esecutivo di Bergomi, di cura lenticolare e di incalzante corsività. Ma la sfida del fotografo non si arresta qui. Ad accrescere questo stupore sensoriale concorre il tentativo di restituirci, attraverso l’inquadratura fotografica, la fattura dei corpi potenziata dall’agire su di essa dell’ambiente: è il precipitare carezzevole o lancinante della luce sui volumi; sono gli affossamenti dei coni d’ombra che costruiscono sacche di resistenza e di tensione lungo i piani; è il serrarsi o disserrarsi delle pose larghe o depresse; sono le abbreviature plastiche che i bagliori dell’attimo luminoso bene esprimono nel meccanismo dei tendini, dei lacerti, delle giunture cucite tra gamba ventre.

Cortese ci racconta Cronografia di un corpo girando col suo occhio attorno all’alto piedistallo incurvato; spia dal basso lo scalare, in diminuendo e in crescendo, delle figure sull’asse, il loro brusio alfabetico di pose ricomposte in perfetta materia anatomica che oscilla, si blocca, si distende, si allunga, si piega, si erge, si geometrizza. Sa cogliere, quando serve, una parentesi narrativa nella testa che accenna a voltarsi al di là della spalla, fissando quell’istante in cui l’idolo nero pare infastidito o distratto dallo sguardo impertinente di un passante. Ma questi ventisette scatti non ci restituiscono solo la sciolta modulazione dei nudi e la maestria di Bergomi nella resa dei corpi accuratamente patinati con quello smalto nero che, a contatto col bronzo, ne accresce l’energia frusteggiante e nervosa del colore-materia. C’è qualcosa di più nell’assalto di questo fotografo alla scultura. L’esempio di Roberto Cortese a noi sembra quello di chi si prova nel difficile compito di carpire, assieme alla configurazione stilistica e tattile del tutto tondo, anche la complessità simbolica dell’opera. Occorre allora soffermarsi sul titolo scelto da Bergomi, la cui densità semantica è tutta raccolta nell’alveo della parola “cronografia”, prelevata dalla disciplina che presiede alla registrazione lineare degli eventi storici sull’asse cronologico. Ma qui il senso è sottoposto a smagliatura. Il tempo - il Cronos - non ha più nulla a che fare con gli eventi della storia. Il tempo gioca con i corpi; letteralmente ne sostiene il peso della condizione umana. Nelle intenzioni di Bergomi, quindi, “cronografia” diviene parola profondamente “implicata” con la vita. La linea cronografica si materializza nel basamento orizzontale ed è su questo asse che l’obiettivo di Cortese si fa affondo maieutico e anello di congiunzione tra fatto plastico ed esperienza visiva del pubblico. Particolari invisibili dei corpi; increspature epidermiche; scorci di sottinsù; spettacolari inquadrature di piedi e mani che interagiscono con il precipizio della lastra curvata in acciaio: l’intero corpus degli scatti lavora a ricostruirci il disegno concettuale di Bergomi. Un disegno teso a concepire ogni singola posa come un dettato ritmico d’insieme e, allo stesso tempo, mostrato nella valenza del suo attimo irripetibile ed eterno. Così, anche nei ventisette scatti della mostra, ogni corpo è impresso dentro-il-Cronos come “grafia”: segno inciso che desidera rimanere, attraverso un “punto di vista” come luogo da abitare e heimat verso cui tornare.

In ultima istanza, non ci rimane che domandarci quale fessura ci sia riservata in questa generosa schermaglia di sguardi incrociati. Forse noi arriviamo per ultimi, certo; ma ci ritroviamo tra i primi in virtù di quel “punto di vista” privilegiato che ci situa tra l’occhio di primo grado di Giuseppe Bergomi che modella sul vero naturale e appone sul corpo vivente il suo inconfondibile “sigillo” figurale e lo sguardo interpretante di secondo grado di Roberto Cortese. Il quale non tradisce l’originale, ma ci guida alla scoperta di quello che Heinrich Wolfflin definiva “la legge formale interna” che domina ogni scultura e “si dischiude allo sguardo, solo quando questo vede l’opera non altrimenti che come questa vuole essere vista”. 


Mostra: Scultura&Fotografia. Giuseppe Bergomi e Roberto Cortese.
Cronografia di un corpo - bronzo, acciaio inox, smalto (2012)

Prospettive difformi - punto di vista fotografico dell’opera di Giuseppe Bergomi

9-30 maggio 2014, Palazzo Civico, Torino

Inaugurazione: venerdì, 9 maggio, ore 16:15, Palazzo Civico, Torino


Su youtube: L’arte in Comune - Cronografia di un corpo 



30 aprile 2014

"Il prato di Bez" da “Memorie di un cacciatore” di Ivan Turgenev




di Maddalena Ferrari

Memorie di un cacciatore sono venticinque racconti che Turgenev pubblicò, per vari anni, a partire dal 1847, sulla rivista “Il contemporaneo” e che poi uscirono riuniti , con il suddetto titolo, nel 1852.

Più che di veri e propri racconti si tratta di quadri, scene, situazioni, dove non sono importanti gli eventi, ma lo scorrere delle ore nella vita quotidiana.

Forte è in queste pagine il sentimento della natura, come anche lo sguardo realistico sulla realtà sociale e sulla materialità delle figure che vi compaiono, per lo più contadini, segnati dall’appartenenza alla terra ed al padrone ( siamo negli anni antecedenti la soppressione della servitù della gleba, attuata da Alessandro II nel 1861 ) e soggetti ad ogni genere di angherie; all’interno di questa umanità le donne appaiono ancora di più costrette ad un’esistenza di repressione e anonimato.

“Il prato di Bez” , un racconto particolarmente intenso, affascinante e poetico, si immerge in una natura solitaria e misteriosa. Si articola in due momenti.
Nel primo il narratore-cacciatore si perde in una vastità di paesaggio suggestiva e vertiginosa: ha perso ogni punto di riferimento e a più riprese si chiede: “Dove sono?” Intanto cala la notte e si passa al secondo momento, in cui il protagonista s’imbatte in un gruppo di ragazzi pastori, intorno ad un fuoco. La descrizione dell’aspetto e dell’abbigliamento li individua socialmente e psicologicamente e il narratore ha anche il modo di esprimere una sua preferenza riguardo alle loro personalità. Ha poi inizio una conversazione fra i ragazzi, che prendono a raccontare storie incentrate su ciò che è spaventoso e sulla morte.         

Non c’è quasi rapporto tra le battute dei personaggi e la loro precedente caratterizzazione, ma la conversazione fluisce realisticamente. Soprattutto i suoi contenuti danno corpo ad un fantastico popolare, che affascina il cacciatore, ma che non può essere suo, tant’è che egli rimane sempre estraneo, in silenzio ad ascoltare; ed è un fantastico che era presagito dallo smarrimento del narratore, sull’imbrunire e che scompare con il ritorno della luce del sole, quando tutto si risolve, non senza però qualche eco di ciò che è trascorso.

Il tempo notturno è passato, segnato dal grande fuoco, dalle ombre, dai corpi, parte illuminati, parte oscuri, dalle parole evocatrici, che si sono come smaterializzate in un mondo al di là del reale, per lasciare poi spazio al silenzio e al sonno. 

Ivan Sergeevic Turgenev. Memorie di un cacciatore. Istituto De Agostini. Traduz. Di Gianlorenzo Pacini.

29 aprile 2014

"Marianela Garcia Vilas, l’Antigone dei poveri" di Luciano Luciani





Un continente in 
rapida trasformazione

Le vicende recenti e recentissime del continente latino–americano appaiono contrassegnate dallo sviluppo, talora impetuoso a volte più lento, di importanti processi democratici che investono sia la dimensione del rinnovamento istituzionale, sia quella di significativi cambiamenti sul terreno dei rapporti sociali. Sviluppo e processi che non avrebbero avuto l’attuale forza e larghezza e, forse, non si sarebbero neppure sviluppati se nei decenni precedenti alcune straordinarie figure femminili, in grande solitudine, non avessero testimoniato in maniera coerente e senza tentennamenti una fortissima esigenza di legalità e rispetto dei diritti umani. Pensiamo, per esempio a Rigoberta Menchu, l’india maya guatemalteca emblema della sofferenza e della lotta del suo popolo, premio Nobel per la pace nel 1992 o alle madri argentine di Plaza de Mayo, imperterrite e implacabili nella loro ricerca di verità e giustizia in nome dei figli scomparsi senza lasciare traccia nelle carceri dei macellai in divisa argentini. Senza trascurare l’immensa moltitudine di donne destinate a rimanere senza nome, duramente impegnate nel privato di durissime esistenze quotidiane e nella politica, a trasformare la realtà per sé e per i propri figli in qualcosa degna di essere vissuta a partire proprio da condizioni minimali di vita come la salute, l’istruzione, il lavoro: dignità e giustizia sociale, per capirci. Dobbiamo anche alla loro tenace e intelligente resistenza, l’affermazione alle massime cariche rappresentative di donne che con coraggio hanno saputo reagire alla maledizione latinoamericana dei governi corrotti, dello strapotere delle multinazionali, delle oligarchie finanziarie e degli interessi geopolitici nordamericani: stiamo parlando della presidentessa brasiliana Dilma Roussef, considerata una delle donne più potenti del mondo, dell’argentina Cristina Fernandez de Kirchner dalla fine del 2007 alla guida del suo Paese, della socialista Michelle Bachelet da poco insediatasi alla presidenza del Cile. Una vera e propria rivoluzione in un continente dove milioni di mujeres continuano a soffrire per le discriminazioni e la violenza e un a diffusa cultura machista

Si chiamava Marianella Garcia Vilas

Di una, però, soprattutto non intendiamo smemorare e, ricordando lei, vogliamo fare ancora una volta memoria di tutte le donne che con il loro sacrificio hanno illuminato, e dato senso, nonostante tutto, agli anni difficili e complicati che ci siamo trovati e ci troviamo a vivere: intendiamo parlare della salvadoregna Marianella Garcia Vilas, l’Antigone latinoamericana, la sorella dei morti, l’avvocato dei poveri e degli oppressi, l’antagonista del tiranno che ha fatto della sua breve vita e della sua atroce morte avvenuta il 13 marzo 1983 un esempio e una testimonianza per l’America latina e per il mondo intero. Una scelta portata fino in fondo con le sole armi della parola, della denuncia coraggiosa e instancabile, della condivisione.
Marianella era nata nel 1948 da una famiglia dell’alta borghesia del Salvador, il più piccolo e il più tormentato tra i tormentati paesi dell’America centrale. Formatasi in un ricco e prestigioso collegio religioso spagnolo, passa dalla militanza nelle file della Democrazia cristiana salvadoregna agli arresti e alle persecuzioni ad opera delle forze di sicurezza del democristiano Napoleon Duarte. La sua presa di coscienza assume caratteri sempre più radicali in risposta alla situazione di violenza e terrore scatenata nel paese dagli ‘squadroni della morte’ strumento di un’oligarchia latifondista e militare che fa tacere con l’assassinio anche la voce del vescovo Romero, cui Marianella è legata da un intenso rapporto spirituale fatto di profonda amicizia e collaborazione.
“Io non so se avrei la forza di sparare e di uccidere qualcuno per difendere la mia vita o quella di altre persone; penso che mi farei ammazzare”: non violenta per scelta in un paese dominato dalla violenza, per tutta la durata della sua breve vita, Marianella si batte con le armi della ragione e dell’amore contro la logica della violenza e della sopraffazione esercitate a spese dei più deboli, degli emarginati, dei ‘senza voce’.

Accusata di terrorismo, armata solo di macchina fotografica

Forte del suo coraggio e armata solo di una macchina fotografica, cerca testardamente di dare un nome ai poveri resti di uomini e donne, contadini e intellettuali, operai e preti, suore e guerriglieri, abbandonati per le strade, denunciando con determinata fermezza in tutte le sedi nazionali e internazionali – quale presidente della commissione per i diritti umani del Salvador sarà spesso in Europa e in Italia tra il 1981 e il 1982 – le atrocità di cui è testimone, documentando con paziente minuziosità gli orrori dell’ esercito salvadoregno che aveva cominciato a fare ricorso all’uso delle armi chimiche contro la popolazione civile.
“Presto sentirete parlare di me, perché mi ammazzeranno” aveva detto ai suoi amici italiani. Nonostante questa profonda consapevolezza, Marianella sentiva di non poter, non voler fuggire il suo destino e sceglieva di rientrare clandestinamente in Salvador per portare sino alle estreme conseguenze la sua scelta dei poveri e degli oppressi, la sua lotta per i diritti umani. “La mia storia”, affermava Marianella  “è parte della storia di tutto un popolo; posso essere un testimone, ma non un personaggio; il mio non è un caso unico, singolare fuori dal comune; quello che è successo a me è successo a migliaia e migliaia di uomini e donne in tutto il Paese. Il mio è un caso comune. Certo, ci sono le particolarità e di ogni vita, incidentalmente si possono aver vissuto momenti peculiari e diversi, ma la sostanza è quella di un cammino che si confonde con quello di tutti…”
Il 13 marzo 1983, Marianella viene catturata dall’esercito, brutalmente torturata, uccisa. Due giorni più tardi un comunicato stampa delle forze armate informava che presso il villaggio di La Bermuda, nel Cuscatlan, in uno scontro a fuoco assieme ad altri guerriglieri era caduta la terrorista Marianella Garcia, ovvero  la ‘comandante Lucia’ che guidava il gruppo: secondo uno stile e una prassi già tristemente collaudata in Salvador si cercava di far apparire l’ennesima esecuzione extragiudiziale come conseguenza di uno scontro armato. D’altra parte, l’unica arma trovata in possesso della ‘pericolosa terrorista’ era una macchina fotografica, la stessa che l’aveva fedelmente accompagnata nel suo lavoro di ricerca della verità. Marianella è il numero 43.337 nell’elenco delle vittime civili di El Salvador, un Paese un po’ più piccolo della Sicilia, el Pulgarcito de América, “il Pollicino d’America” con sei milioni di abitanti.

Un libro per ricordarla

La vicenda e la testimonianza estrema di questa donna straordinaria sono state recentemente riproposte in un libro intenso e commosso scritto da un saggista italiano, Anselmo Palini per favorirne il ricordo e la riflessione. Nel titolo, Marianella Garcia Vilas “Avvocata dei poveri, difensore degli oppressi, voce dei perseguitati e degli scomparsi” è racchiuso il senso di un’esistenza e l’alto valore simbolico di questa Antigone dei nostri tempi che entra a pieno titolo nella storia dolorosa dell’emancipazione dell’America latina e di tutto il Terzo mondo: a oltre trent’anni da quella tragica fine, la storia di amore e morte per i poveri di Marianella Garcia Vilas ancora ci appartiene, ancora chiede ragione a tutti quanti noi che, figli dell’Europa affluente e dell’Italia satolla siamo stati – e per molti versi siamo a tutt’oggi – spettatori muti, distratti ma non incolpevoli.

Anselmo Palini, Marianella Garcia Vilas “Avvocata dei poveri, difensore degli oppressi, voce dei perseguitati e degli scomparsi, Editrice AVE, prefazione di Raniero La Valle, postfazione di Linda Bimbi, pp. 266, Euro 12,00

09 aprile 2014

"Fire Hydrant" foto di Leonard Freed



di Gianni Quilici

E’ una foto, questa di Leonard Freed, senza mediazioni intellettuali.
Colpisce immediatamente per il piacere sfrenato che i due giovani assaporano nell’abbraccio serrato, nell’abbandono della testa, nel sorriso irrefrenabile, negli occhi semichiusi.

Ma colpisce anche per la composizione in cui il ragazzo e la ragazza  sono collocati.
Per quel getto d’acqua che schizza in fili che si spandono, simili a un ventaglio che ricopre quasi tutta l’immagine, con al centro loro: i due corpi seminudi, che esprimono quell’attimo di piacere fisico smodato.
Leonard Freed. Harlem, 1963

01 aprile 2014

“Viaggio in Mediavalle: Rocca” di Gianni Quilici



In un viaggio, sia pure brevissimo, bisogna liberarsi, alleggerire preoccupazioni e/o ossessioni. Guardare ciò che si vede e si intravede, dimenticarsi, senza sfuggirsi. Così penso, mentre

foto gianni quilici
12.40 Ponte del Diavolo. (Borgo a Mozzano)
“Il ponte del Diavolo non ha eguali. Quanti ponti in Italia, in Europa e oltre hanno questa snellezza, eleganza, questa singolare bellezza?” Lo guardo dall’alto, dalla strada che da Borgo a Mozzano sale, lo vedo tra rami e foglie nella sua inconfondibile, sorprendente forma. E le persone come formichine, che ci passeggiano sopra sono, in questo preciso momento, il presente di una storia che affonda nel tempo.

foto gianni quilici
13.00 Pieve di Cerreto.
Un gruppo di case. Quante? Due, tre? E la Pieve.
Dalla strada appare l’abside luminosa nella pietra bianca toccata dalla luce di questa mattina primaverile con  le eleganti finestrine decorate e, a lato, il cartello che informa “costruita nel secolo XI dalla contessa Matilde”.
Mi colpisce nel campanile merlato  l’arcata che consente il passaggio verso la facciata. Una facciata semplice, una porta di legno, mi viene da pensare, invecchiato, la cornice di pietra arenaria, una lunetta che si intravede appena e sulla destra uno di quei cipressi “alti e svettanti” di carducciana memoria. Il venticello porta l’odore dei fumi e dei pranzi e suggerisce il desiderio di una tavola imbandita.

foto gianni quilici
13.30 Rocca.
Questo paese sarà una sorpresa. Mai visto finora. Un cartello sulla destra lo indica, la strada si fa più stretta ed eccolo il paese piccolo e raccolto su una collina, 320 metri di altezza per soli 31 abitanti, così almeno ho letto.
Si posa la macchina prima dell’ingresso. Ecco la chiesa modesta. Si sale tra erba e fiori di campo. Sulla porta d'ingresso una scultura con Dio che sostiene appena Gesù  crocifisso, a loro volta sorretti da due angeli. Una lapide laica, di fianco, recita: “Qui dal dolce luogo natìo partirono in guerra per la patria e nella guerra caddero da prodi. Pierini Giorgio, Dinelli Umberto, Poli Vitali. !915-18”. I caduti dovettero essere molti. Prima del paese, infatti, una cappella è diventata un sacrario in memoria dei caduti di guerra dell’intero comune di Borgo a Mozzano. Giusto e bello che i nomi di quei caduti siano scolpiti all’interno della stessa cappella uno per uno. Peccato che ci siano soltanto gli stemmi scolpiti su pietre, lì fuori, delle armate di cui i caduti facevano parte e non ci sia, invece, una lapide che sottolinei oggi questo sacrificio non in nome di una guerra che ci fu e di cui oggi conosciamo le cause, ma di una pace da perseguire come valore universale.
A fianco della chiesa, nella parte più alta del paese, i ruderi della vecchia fortezza e di una torre circolare, di cui rimane soltanto la struttura di base, su cui è stata eretta, chissà perché, una croce.
Sedersi tra i ruderi, che lasciano trapelare il tempo passato. Sentire il venticello pungente che spira sul volto e avvertire nell’erba fresca e morbida il tempo presente, il tempo che passa, dà un senso a quel tempo, lo inchioda, lo fissa nel tempo. 

domenica 30 marzo 2014    


"Sisima: la città profondata" di Emilio Michelotti

In fondo a una frana immemorabile, nella confluenza di tre antichi letti fluviali, sta la città dai dodici ponti. Nessun fiume scorre sotto di essi; vi sono solo massi e greti giallognolo-rossastri.
Da laggiù si alzano arcate che, a semicerchio, sostengono scalcinati palazzi, vicoli perennemente in ombra, erte scalinate che non conducono da nessuna parte.
Sisina è il suo nome. L'ho visto io stesso scritto, in un cirillico quasi indecifrabile, sopra una pietra – forse di marmo – ricoperta di muschio.

La città possiede un tratto unico, perché la lingua che si parlerebbe (se  qualche straniero vi fosse ad ascoltarla) non esiste. Antiche persecuzioni concentrarono fra le montagne che circondano Sisina, dando loro rifugio nei numerosi anfratti, pastori bruzi refrattari all'impero, fuoriusciti svevi e normanni – esiliati da castellerie imponenti, skanderiani filocastrioti, attico-peleponnesiaci in fuga dai turcomanni, elvezio-piemontesi, valdesi dalle teste mozzate.

Da quelle diaspore frantumate dal tempo Sisina, ovvero i pochi abitanti che vi resistono, s'avvale di un idioma inventato di volta in volta, cangiante come una coltivazione di batteri in vitro.

Ma c'è un carattere ancora più esemplare, a Sisina: tutto ciò che altrove è brutto, lì diventa bello. Quel che al primo impatto fa rabbrividire il forestiero, i mucchi di detriti, il tanfo della stradine che s'inerpicano a serpentina, l'umidità appiccicosa di certi cortiletti esclusi da sempre dal raggio del sole, le insegne di botteghe chiuse da secoli – stinte e penzolanti di vetusti fasti - a un tratto si rovescia nel suo contrario.

Tutto appare allora perfettamente adeguato, come se non potesse che essere così: questa è la migliore delle Sisine possibili, anzi l'unica. T'accorgi infatti che nemmeno una pietra potrebbe essere aggiunta né pennellata sovrapposta o chiodo conficcato o buco rattoppato senza scalfire il prodigio di una soavità decrepita, che sa di bellezza deturpata e decaduta nobilità.

Così la guardano i suoi disabitanti dall'alto delle nuove residenze: alcuni la vedono come un imbuto o inghiottitore, altri, al contrario, come sorgente del passato. Tutti però si riconoscono impossibilitati a scalfire l'orrida suggestione che, ignota al mondo, a suo modo prosegue immutabile.


Cosenza, 20 marzo 2014  (d'après "Le città invisibili" di Calvino)  

30 marzo 2014

“Le Antigoni” di George Steiner



appunti di Emilio Michelotti

Questo magistrale studio si apre con la constatazione dell’esistenza, nel testo tragico, di imbarazzi atavici legati all’organizzazione familiare incestuosa (la comunità mostruosa delle origini umane – Caino e Abele sposati alle sorelle). Le figlie-sorelle di Edipo (Antigone e Ismene) sono un essere solo, “comune”, figlie e nipoti di Giocasta. Vi è un legame di sangue iperbolico, assimilazione-ingerimento dell’una nell’altra.

Anche la casa di Laio ha una coesione genealogica, ma ben diversa: Polinice-Etèocle –i due fratelli rivali rappresentano una fusione di dualità. La sintassi della separazione individuale (la nostra), va contro i misteri e i diritti di sangue. Il coro, nell’ottica di Steiner, è vestigia della collettività tribale che rendeva possibili e necessarie le fusioni di sensibilità, intenti e azioni. Antigone è“ innamorata, appassionata, dell’impossibile”(V.90).
Nel V stasimo il coro è “ditirambicamente” teso all’arrivo di Dioniso, mentre nel I stasimo, ”l’Ode all’Uomo”, (gli stasima sono le odi corali) è insita una dialettica insolubile fra un ritorno al focolare totemico e il nuovo focolare, un’istituzione privata garantita dalla legge.

Solo in un ritorno alle tenebre, alla “notte della tomba di roccia”, Antigone potrebbe ritrovare la collettività primitiva e ricongiungersi alla triade Edipo-Polinice-Etèocle. Ma non è sicura che la morte non si rivelerà una solitudine ancora più acuta di quella che deve sopportare in vita (il destino è falso e ironico).
Le sovranità dell’individuo proclamate dal metodo cartesiano hanno lasciato l’uomo nudo. Per Steiner è convincente l’interpretazione junghiana della natura corale dell’arte e del mito. Le voci della consanguineità emergono dalle incertezze consolatrici dell’ombra e, allo stesso tempo, cercano di ritornarvi.

L’autore paventa un rischio e individua un’antinomia: il proliferare delle interpretazioni rischia di seppellire il poema, eppure la sua sopravvivenza è anche assicurata dal processo ermeneutico
Versi 198-206 – Creonte lancia a Polinice una triplice accusa: vuole ridurre in schiavitù i tebani; vuol mettere a ferro e fuoco la città; è venuto per “per bere il sangue, per cibarsi dei suoi congiunti”. (Lo stile di questo passo è, dice Steiner, “primitivo”, con influenze omeriche e dei Sette contro Tebe di Eschilo).

L’editto di Creonte che condanna all’insepoltura i resti di Polinice non è solo furbizia per far aderire il coro e i cittadini a una causa dispotica. Anche se fosse questo il pensiero di Sofocle, oggi, dopo l’affermarsi della critica ermeneutica, non possiamo accettare, dice Steiner, il potere assoluto dell’autore nel determinare i significati. Inoltre, per Steiner, il decostruttivismo ermeneutico era già inerente alla pratica drammatica greca, era già presente e in azione nel coro, in modo “autosovversivo”.

La tragedia, ma tutta la cultura greca, riflette e comunica l’esperienza umana in termini conflittuali e polemici, agonistici, come nessun altro pensiero prima di Hegel.

 Antigone, rifiutando la “verità di guerra”, manifesta un’etica femminile e antieraclitea (nella visione di Eraclito la guerra è totale, coinvolge dèi, mortali, animali e natura). Per lei la guerra è calamità che stravolge il sistema stabile di fedeltà “parental-trascendente”.

Eric Dodds, ricorda Steiner, ha studiato magistralmente gli atteggiamenti dei Greci nei confronti dell’irrazionale. Pochissimo sappiamo però delle “sospensioni di incredulità” che la tragedia dionisiaca implicava (conoscenze mitologiche, accettazione del divino e del demoniaco, grado di ironia letteraria nel corpo della tradizione mitica). In che misura il miracoloso si trasformava in metaforico? Nelle Baccanti di Euripide, ad esempio, persiste una forza primordiale di nudo terrore.

 Nei miti è incisa la possibilità del soprannaturale, sia in quelli erosi, sia nei miti-ombra che formano le metafore e la stessa sintassi umana, dove affiora, specie nei poeti, il misterioso, l’extrasensoriale, l’allucinatorio, l’ipnotico. Conrad (Cuore di tenebre) è profondamente sofocleo. –Solo la musica può compiere questa estrinsecazione in modo più tenebroso ancora del linguaggio. Per questo i versi 417-425 sono “intraducibili”.

Versi 422-423- Che cosa evoca il discorso della guardia? Terrore imminente, possibilità di un intervento soprannaturale: la colonna di polvere vorticosa nasce dalla terra e s’innalza verso il cielo. Il primordiale santuario dei morti, la terra, è trasformata in un vortice di polvere: quella che Antigone sparge sul cadavere di Polinice sale verso gli stessi dèi che l’hanno suscitata. C’è una contiguità fra la sepoltura che Antigone dà a Polinice e il vortice sollevato dagli dèi, le cui polveri si uniscono indissolubilmente.
Il nido-letto di Antigone sarà vuoto, non diventerà mai sposa e madre, la sua progenie è annientata in nuce (Freud e Sofocle coincidono sull’identificazione del nido-grembo-letto). Il lamento e gli strilli da uccello di Antigone sono più antichi, meno razionali dell’uomo e del suo discorso.

 Il coro è sensibile alle manifestazioni fenomeniche del divino ed è timoroso che tali manifestazioni siano pericolose per la città: solo nel V stasimo, fuori-di-sé, valicherà il limes della razionalità e della Tebe civica, con l’invocazione estatica a Dioniso.
 L’astensione, l’esclusione dei fatti della fisicità violenta dalla scena dà al “mondo della parola” un’urgenza di intensità paradossale, che acquista energie e forze: la parola diventa attore, si libera dall’asservimento alla (simulata) azione.

“Su ciò di cui non si può parlare non si può tacere”, Heidegger (e Steiner con lui) rovescia Wittgenstein: egli scorge anche in Sofocle, come in Holderlin, una presenza residuale, gli ultimi fuochi dell’Essere stesso, del nucleo ontologico che precede il linguaggio e da cui il linguaggio attinge le sue capacità di significare molto di più di ciò che può essere detto.

19)- Nei versi 441-581 Sofocle realizza la totalità delle categorie dei conflitti attraverso i quali l’uomo definisce se stesso –avvenimento unico, per Steiner, nell’intero quadro universale dei testi letterari: dialettica dei sessi, delle generazioni, della coscienza privata e del bene pubblico, della vita e della morte, del mortale e e del divino. Sono le componenti radicali dell’umanità, che va sempre provata e delineata daccapo nel confrontarsi con l’altro. Esaminiamole.

1- Se di tutta la letteratura ci restasse solo questa scena centrale dell’Antigone, i lineamenti fondamentali della nostra identità e della nostra storia, certamente per quel che riguarda l’Occidente, sarebbero visibili. Il primo assoluto in conflitto è fra uomo e donna, essi sono una sola cosa eppure sono inalienabilmente diversi: è il paradosso del fac-simile, fonte originaria dell’incomprensione e forse della stessa tragedia dionisiaca. Ogni scambio verbale è drammatizzato da una dualità psicosomatica, perché mostra l’unità dell’amore e dell’odio.

2- La centralità dell’erotico è un fenomeno cristiano. Qui al centro è posto l’ordine naturale (cosmico) e la sua gerarchia fondamentale: la forza “maschile” (politica) di Antigone nega la virilità di Creonte. “Nessuna donna mi governerà”, afferma il re: meglio andare in rovina per mano di un uomo che soccombere, anche di poco, a una donna (questo dirà Penteo nelle Baccanti).

3- Eppure, una volta vittima, evolve la femminilità di Antigone: ella piange dentro di sé le altre vite future che solo una donna può generare. Anche il suo suicidio ha un’aura femminile, perché è risposta primordiale alla insensibilità maschile; e la morte illibata –come il parto illibato presente nei miti di tutte le culture- conduce al centro ctonio di quello che è la donna.

4- Nemmeno i conflitti fra generazioni sono negoziabili: tema antropologico ma anche poetico (le radici dell’Ellade si trovano forse nel XXIV dell’Iliade, dove il vecchio Priamo e il giovane Achille si incontrano per discutere la restituzione al padre del corpo di Ettore). La vecchiaia è degna di onore perché sinonimo di saggezza, eppure significa rischiare la derisione per le proprie infermità e per il declino della sessualità. Nella morte dell’eroe giovane in Sofocle c’è la stessa simmetria fra spreco e gloria che in Omero: è meglio non esser mai nati, o altrimenti morire giovani. La vecchiaia è quel che di peggio possa capitare (Sofocle-Edipo a Colono)

5- Qual è il peso della giovinezza di Antigone quando s’appresta a morire? Ella indica la mostruosa singolarità della procreazione incestuosa –è sorella e figlia di Edipo- e, al tempo stesso è “la più filiale delle figlie” (Edipo a Colono). E’ selvaggia e rozza come suo padre e come i cani mangiatori di carne umana dai quali bisogna preservare i resti di Polinice. La forza oscura dei versi corali, dice Steiner, lascia intravedere nel testo un rapporto inquietante fra l’istinto primitivo dell’uomo e quello delle bestie predatrici e divoratrici di carogne.

6- E’ nella natura dell’uomo (Creonte assassino di figli, gli grida Euridice) provocare la morte violenta della sua progenie. Sofocle indica una norma prescrittiva: si deve sacrificare anche la vita delle persone più care agli ideali più nobili di difesa della città e della civiltà. (E’ la motivazione con cui statisti e generali spediscono i giovani alla tomba).

7- Il conflitto fra coscienza e stato, com’è “inventato” da Sofocle (v.450seg), rappresenta il testo canonico della percezione occidentale dell’individuo e della società: è un dialogo fra sordi. Dove si situa l’abisso fra le domande di Creonte e le risposte di Antigone? Creonte è la temporalità (diritto, giustizia, legge –una violenza contro la physis?-), Antigone è l’eternità (forze soprannaturali e arcaiche non scritte ma ancora vive, non soggette a revoca,  armonia originaria del cielo con la terra). Ma questo ritorno all’assoluto può verificarsi nell’ordine temporale dell’esistenza o solo con la morte? Se le “leggi non sovvertibili” invocate da Antigone hanno un’universalità e un’eternità manifeste perché non sono incise anche in Creonte e nel coro?

8- Non c’è risposta: il tempo non è in comunicazione con l’eternità, Antigone sceglie coscientemente una morte che Creonte non può capire, perché essa ha una legittimità tutta anarchica, precedente alla ragione civica. Sofocle, come gli Eleatici prima di lui, vede nell’invenzione della parola un passo immediato verso l’organizzazione statale. Ma, come dirà Freud, egli sa che la stessa civiltà produce i propri malesseri mortali, generando costrizioni e autodistruzioni.

9- Non si può sfuggire al paradosso della colpa innocente (il parricidio e l’incesto involontari di Edipo), eppure deve avvenire la transizione da un codice di relazioni solipsistico-familiare a un codice di storicità e ragione civica: sul filo di intuizioni contraddittorie, l’azione maledetta di Antigone sembra incarnare le aspirazioni etiche dell’umanità, mentre invece il legalismo civico di Creonte provoca la devastazione.
L’intelligenza misteriosa dell’uomo ha dominato il cosmo, ma Eros, padre della pazzia e della discordia, dominando l’uomo, ha dominato tutto, compreso gli immortali. La pienezza dell’essere si collega a un potenziale minaccioso di distruzione essendo al di là del bene e del male, al di là della sfera etica: Eros è collocato a fianco delle leggi eterne. Antigone sfida anche queste leggi, rinunciando, con le sue nozze con la morte, all’iniziazione e alla consumazione sessuale: è una strada velleitaria, che disegna una dialettica inconciliabile fra legge morale e vitalità.

George Steiner
10- Versi 1115-1152. Ogni elemento di questi versi contribuisce a dare il senso della possessione ditirambica (un pensiero dalla profondità straordinaria, suppone Steiner, veniva danzato, mettendo il linguaggio “fuori di sé”, in un’illuminazione violenta di musica e gesti). Dioniso ha potere di vita e di morte, di rinnovamento e di distruzione, sia nella trance che nella lucidità –l’epifania di Dioniso è anche rovina. L’intera città è contaminata (verso 1141) dall’animalità dell’uomo, ma è anche minacciata dalle visitazioni del divino. Sofocle è ossessionato da presentimenti in merito a una fragilità radicale che incombe sulla città dell’uomo, dalla consapevolezza della terribile facilità con cui l’uomo può essere abbassato al di sotto o elevato al di sopra della sua condizione –due movimenti ugualmente fatali per la sua identità e il suo progresso.

11- Molti, oltre a Kierkegaard, hanno osservato che Antigone è pervasa di morte: soprattutto la seconda metà della tragedia è costituita da una serie di variazioni su questo tema, caratterizzata com’è da una forte intensità e complessità, a partire dal canto di morte di Antigone fino alla visione apocalittica di Tiresia. Sofocle porta in scena la marcia inarrestabile dei morti sulla società in dissoluzione dei vivi. Persefone, dal profondo dell’Ade, attrae a sé Antigone, Emone, Euridice e Megareo: il Messaggero, nel verso 1173, afferma che appartenere ai vivi significa essere assassini di morti. Le barriere della città secolare si rivelano fragili e inadeguate: “cadavere abbraccia cadavere” (v.1240), è la morte ora ad essere “nuova” e “giovane” (v.1288).

12- Solo il coro, composto da vecchi, è radicato alla vita. Alle origini del pensiero metafisico, Anassimandro poneva una simmetria del soffrire col vivere e il mistero di un’ingiustizia ineluttabile implicita nelle azioni umane: Sofocle spinge quest’idea di compensazione fino al commercio, all’equiparazione, tra vita e morte.

13- Il quinto grande asse riguarda l’incontro tra uomini e divinità. Tutta la tragedia ha una dimensione esplicitamente religiosa, come la mitologia che ne è la materia di riferimento. E’ una singolarità della cultura attica, che spiega anche la brevità di questa esperienza creativa, data la sua tensione interrogativa e sovversiva, tra epifania del dio e metaforizzazione  -umanizzazione-  dei suoi poteri. Fra i riti enfatici, mimetici e catartico-terapeutici della tragedia e il contesto del dibattito politico-metafisico c’è un evidente iato: dalla collettività al singolo individuo, da Solone a Socrate, da una possibilità immediata di dispiegamento simbolico teso e conciso, alla ragione civica predominante.

Se in Eschilo c’è un sentimento di vicinanza con gli dèi, funzionale allo stadio titanico e precivico dell’evoluzione, se la duplicità di Euripide rende gli dèi irrazionali –più arcaici delle loro vittime mortali-, la sensibilità di Sofocle, dice Steiner, coglie sia la minaccia della pressione anarchica dell’irrazionale sulla civiltà, sia la hybris presente nelle energie del progresso e della volontà di potenza.

Le intimità primitive tra uomini e dèi sono ormai raggiungibili solo in modo eccentrico o “scandaloso”: l’incesto di Edipo è come il ricordo dell’incesto più grande, quello fra uomini e dèi. “Un umanesimo visitato dalla trascendenza” è la definizione di Steiner della pietas sofoclea.

Creonte vede il suo rapporto con Zeus come una relazione blasfema di utilità reciproca: un do ut des. L’Antigone  è  dunque antitheos? Sofocle è, per Steiner, per ben distante dall’accento omerico ed eschileo sulla sostanzialità imminente del soprannaturale: per lui gli dèi si accalcano vicino alla negazione, da qui l’ambiguità della prossimità umana col divino, che è tenuto a “distanza di sicurezza”.

La contiguità fra dèi e mortali è foriera di catastrofi: nelle Baccanti di Euripide l’ibrido Dioniso –misteriosa progenie di un incontro estatico di Zeus con la mortale Semele- supera la barriera del limes  per vendicarsi.
             Nell’esaltazione di una percezione invasata il coro nomina e danza i tre miti del terrore che si collegano all’incontro erotico e fatale degli dèi con gli uomini, perché il dio è lì, è presente sull’altare dell’anfiteatro: gli uccelli gridano barbaramente, Efesto rifiuta la sua presenza, la fiamma sacrificale non si accende e il grasso e le viscere non bruciano, perché la città è infettata dalla carne putrefatta strappata dagli uccelli al corpo insepolto di Polinice (vv.1039-1044). Creonte scaglia una bestemmia che con rozza impudicizia assale lo stesso trono di Zeus: mai farò seppellire Polinice, nemmeno se le aquile di Zeus portassero il suo cadavere fin lassù.

           Alla fine gli dèi arrivano e la civiltà e la struttura della ragione soccombono: il conflitto uomo- divinità, com’è messo in atto nella tragedia greca, ha carattere atemporale: non è negoziabile ed è necessario quanto insolubile. Da qui la condizione tragica dell’uomo: la ragione, che è la sua essenza, lo allontana irreparabilmente dalla physis, dal suo rapporto con l’unità del tutto
                                                                                                   
George Steiner. Le Antigoni. Garzanti.

28 marzo 2014

"Col cuore come un temporale" di Giacomo Bini



 di Luciano Luciani



Continua anche ai nostri giorni il dibattito sulla natura della poesia. Eugenio Montale, uno che se ne intendeva, in un articolo apparso intorno alla metà del Novecento sulle pagine del “Corriere della sera” in proposito così si interrogava e si rispondeva: “Che cos’è la poesia? Per conto mio non saprei definire quest’araba fenice, questo oggetto determinatissimo, concreto eppure impalpabile, questa strana convivenza della musica e della metafisica, del ragionamento e dello sragionamento, del sogno e della veglia…”

In tempi più recenti, un bravo poeta originario della collina lucchese e nostro contemporaneo, Lio Attilio Gemignani, autore di una raccolta poetica, Mia Toscana, insieme intensa e delicata, tra memoria e bilancio esistenziale, si muove sulla stessa lunghezza d’onda e giudica la “poesia come mistero di ogni uomo. Quella zona segreta che ognuno di noi custodisce ed è fatta di dolore e di piacere, di commozione e di spiritualità, Noi  misuriamo sulla strofa la nostra interiorità”.

“Ragione cantata” (Lamartine”, “malattia” (Kafka), “un modo di prendere la vita alla gola” (Frost), la poesia continua a mantenere ignoti, impenetrabili, inconoscibili i suoi caratteri e moventi, origine e forza: a tutt’oggi non siamo riusciti a trovare risposte. Procediamo per approssimazioni circa i suoi modi di essere e manifestarsi, sempre elusivi, diversi,  sorprendenti…

Riflessioni, le mie, per niente originali, ma autentiche e sollecitate dalla lettura dell’ultima silloge poetica di Giacomo Bini, da tempo abituato a praticare questa particolarissima forma espressiva, per parteciparci sentimenti ed emozioni, rabbie e desideri, convinzioni e indignazioni: una pluralità, anche eccessiva, di toni e accenti che vanno dall’effusione lirica al recupero memoriale, dai versi d’amore alla retorica civile per raccontare il difficile mestiere di vivere hic et nunc, qui e ora: in un tempo spigoloso e tagliente quant’altri mai, in un luogo di antica civiltà, ma, certo, non esente dai problemi complessi di un faticosa e contraddittoria modernità.

“Poeta di pianura”, Giacomo appare intimamente legato alla sua terra, la Lucchesia, e alle sue genti di ieri e di oggi, ancora sospese tra un secolare mondo contadino e gli ultimi decenni segnati dall’irrompere di una contemporaneità globalizzata che, insieme alle prospettiva di formidabili - e sino a oggi aleatorie - possibilità, ci ha regalato anche nuove, inedite ingiustizie che sono andate a sommarsi alle antiche.

Contro le recenti e le vecchie povertà, materiali e soprattutto morali, s’impenna la voce del Poeta, talora troppo stentorea e non sempre capace di evitare il rischio di un’oratoria certo franca, schietta, ma, almeno a mio parere, troppo gridata. Più convincenti, invece, da rimanere in maniera duratura alla coscienza dei Lettori i versi intrisi di ricordi familiari; la riscoperta, con gli occhi di allora e la nostalgia dell’oggi, del tempo e dei giochi incantati dell’infanzia e della primissima adolescenza; e poi, forse, la novità più significativa di questa raccolta, i testi, ricorrenti, che richiamano un amore coniugale vissuto con pienezza di affetti, sensualità e gratitudine per la propria compagna di vita.

Sempre sincera l’ispirazione di questo Poeta “col cuore come un temporale”, vera, plausibile la sua commozione che s’impasta col piacere di una parola poetica densa ed evocativa, capace di suscitare in chi legge i continui cerchi concentrici di una suggestione mai fine a se stessa.

Con l’intenzione, invece, di ricordare agli uomini l’inesauribile ricchezza dell’esistenza e le sue straordinarie diversità e affermare le fondamentali verità umane che, giorno dopo giorno, devono servire da pietra di paragone al nostro vivere.


Giacomo Bini, Col cuore come un temporale, Comune di Capannori, 2014, pp.50, sip

26 marzo 2014

“Vado a Venezia” nota di Gianni Quilici




foto gianni quilici
Vado a Venezia con due propositi: dimenticare ciò che ho già visto in altri viaggi, cercando invece quello sguardo primigenio, che solo attraverso il silenzio della contemplazione può trovare l’incanto di ciò che prima non era e che ora, invece, esiste  ai miei occhi; e poi eliminare (per quanto sia possibile) i percorsi turistici, perché il turismo (la folla e i negozi-negozietti) si interpone alla possibilità di trovare quel silenzio e quella contemplazione in se stessi.

A Venezia vorrei innanzitutto abbandonarmi. Per abbandonarmi non devo avere una meta precisa. Voglio, però, avere degli obiettivi. Non mi basta perdermi, stupirmi contemplare. Voglio rappresentare. Soltanto con gli occhi non riesco a rappresentare. I miei occhi, purtroppo, vedono con molta fatica. Più che cogliere l’oggetto per come è fatto, colgono, a volte, il sentimento che questo oggetto può trasmettere. In altri termini sono occhi più da poeta (senza che necessariamente lo sia) che da scrittore. In questo senso la macchina fotografica diventa uno dei miei linguaggi. Un linguaggio che può descrivere come un romanzo (un palazzo, un paesaggio, un oggetto), ma che soprattutto può cogliere quel movimento in cui si incontrano l’elemento statico con l’elemento o gli elementi dinamici. Cogliere, cioè, quell’attimo fuggente, irripetibile, poetico che tanti fotoreporter cercano o hanno cercato, creando piccoli o grandi capolavori nella storia della fotografia e che nasce da un colpo d’occhio immediato oppure anche da una pazienza infinita in un luogo.

Però non mi basta. Lo scatto fotografico, nel mio caso libero da commissioni, realizzato per puro, semplice piacere, mi pare troppo facile, anche se poi difficile è  scattare quella foto, in cui vive il tocco della poesia o di un reportage. Non mi basta, perché la foto racconta soltanto attraverso un’immagine.

Ho bisogno, cioè, anche di parole. Forse perché nelle parole c’è ancora più “io”. Le parole del racconto, o meglio ancora del taccuino di viaggio. Le parole dell’emozione e della musica, cioè della poesia.   
E infine le parole del pensiero, le parole del capire ciò che si ha davanti, che richiama la storia, l’estetica, la scienza, compresi i linguaggi.

Ecco che la foto e la scrittura diventano bisogni complementari nel mio essere in viaggio, anche se sempre difficilissimi da realizzare all’unisono.

Questi sono i propositi. I miei. I risultati sono –come è ovvio- “quelli che sono” e comunque sempre impari ai desideri. Imparare, quindi, dalle frustrazioni ad affinare scelte e strumenti, linguaggi e sguardi.