24 marzo 2016

"Cosa ha significato crescere tra le macerie del 1989 e quelle del 2001?" di Davide Pugnana




                                      EMILE CIORAN
Penso spesso a cosa abbia significato per la mia generazione esser cresciuta tra le macerie e i calcinacci del 1989 e quelli del 2001, tra i brandelli del grande muro divisorio e l'aereo che taglia la torre con la rapidità e facilità di un coltello nel burro. Non so quali cambiamenti latenti queste due "rovine" della Storia abbiano portato nell'immaginario dei nati, come me, nel torno degli anni Ottanta. Non saprei determinarlo; ma è qualcosa a cui dilettantescamente penso. 

Quelle immagini della morte, ad esempio, che ho e abbiamo avuto negli occhi - morte di un'epoca di divisioni politiche e morte di esseri umani - quanto, oggi, condizionano, o hanno messo in crisi e modificato, la riflessione sull'intreccio di paradigmi della modernità quali caducità/immaginazione/illusione? 

Penso questo spronato da alcuni passaggi di un piccolo libro di Emile Cioran, "La fascinazione della cenere" che raccoglie scritti sparsi, pubblicati tra 1954 e 1991. Lo riapro e scorro titoli che avevo dimenticato; ma che mi permettono di ritrovare alcuni nuclei generatori di interessi, oggi, ancora molto vivi in me: "Intorno a Machiavelli", "Da Vaugelas a Heidegger", "Incontri con Paul Celan", "Nicolas de Stael o la vertigine", fino a "Contro l'immagine". 

Tra questi c'è uno scritto su Leopardi. Sono poche pagine, di grande intensità autobiografica: 
"Mi sono sentito, e mi sento sempre, così vicino a lui nei miei stati di prostrazione, d'abbandono e d'orrore [...] a causa ovviamente della noia, piaga della sua vita e piaga della mia, con questa differenza tuttavia: che essa fu nel suo caso generatrice di poesie immense e non soltanto di qualche frase scucita. Ma, barbaro dei Carpazi, oso comunque paragonarmi al suo 'pastore errante' e non penso di essere stato indegno di lui quando, nella mia giovinezza, colpito dalla vastità e universalità del non senso, mi gettavo a terra tra sospiri e convulsioni, in preda ad uno spasimo estremo, certamente meno elegante in questo del pastore asiatico. "

A volte ho l'impressione che quelle immagini della morte nella Storia - che hanno mescolato lo sgretolamento architettonico alla lacerazione della pelle umana; la durezza incrollabile del cemento e del metallo alla docilità della carne, ponendoli, con un crudele livellamento, sullo stesso piano di 'cose' - abbiano agito, nella mia generazione, come allegorie di fascinazione e repulsione della "cenere"; come se esse avessero mandato in rovina non solo la dignità dell'uomo e la stessa nozione di civiltà; ma una reale facoltà di speculazione e una lotta per le illusioni che, oggi, sembra essere crollata o preclusa, o assente, alla mia generazione.

19 marzo 2016

"19 marzo" di Luciano Luciani

                                    Georges de La Tour
Giuseppe: babbo di Gesù, 
              falegname e friggitore.

Giuseppe, il santo babbo di Gesù, ne era solo il padre putativo, ma con la missione di proteggere e custodire il Verbo incarnato e sua madre. Insomma, un protagonista assoluto, strategico, del progetto divino della Salvezza, esempio di pazienza e mitezza, castità e virtù paterne. Assai apprezzato in oriente prima, in occidente poi, dove in tempi relativamente recenti è stato proclamato protettore della Chiesa universale, Giuseppe risulta molto amato a Roma, probabilmente per l’influenza esercitata nel corso dei secoli sugli orientamenti ideali e religiosi del popolo capitolino dalla Confraternita dell’Arte dei Falegnami, potentissima lobby professionale e non solo, sorta a Roma nel 1540, con san Giuseppe a suo patrono. Santo lavoratore, anzi proletario, il suo nome è stato sempre ben presente nell’onomastica delle famiglie umili della capitale che, povere di beni ma non di figli, non si facevano quasi mai mancare un Peppe, un Peppino o una Pina.

Le frittelle di san Giuseppe
Festa di precetto (19 marzo) istituita da papa Gregorio XV e mantenuta tale fino a non molto tempo fa, ha visto le sue solennità intridersi di remote usanze popolari legate al ciclo della primavera e risalenti, credibilmente, alle Liberalia romane, celebrate negli stessi giorni dell’anno in onore di Libero, antica divinità italica della fecondazione, poi identificata col greco Bacco, inventore del vino: divinità della festa e dell’allegria, della trasgressione e del piacere. Nell’antica Roma, in occasione di questa festività gli adolescenti romani sedicenni indossavano la toga virile, mentre giovani sacerdoti e sacerdotesse, il capo ornato da serti di fiori e fronde, percorrevano le vie della città offrendo al dio il foculus, una pasta dolce molto simile alle frittelle nostrane. Una consuetudine, questa, che si è ripetuta ogni anno sino almeno alla metà del secolo scorso: intorno alla metà di marzo, infatti, il centro di Roma (piazza Barberini, piazza Navona, Campo de’ Fiori) e la sua periferia nord-est, soprattutto il quartiere Trionfale dove sorge  la Basilica minore di san Giuseppe, si popolavano di bancarelle provviste di pantagruelici calderoni d’olio bollente in cui venivano fritti – e consumati, ovviamente - migliaia e migliaia di frittelle e bignè in onore del casto sposo di Maria. Giuseppe, infatti, secondo una originale versione tutta romana della storia sacra frutto della fervida fantasia del popolino romano, per campare la famiglia dopo la fuga in Egitto avrebbe esercitato per qualche tempo e con un certo successo anche il mestiere di friggitore. Così raccontano questa curiosa riconversione professionale del santo più importante di tutti quanti gli altri i versi bonari e affettuosi del poeta romanesco Adolfo Giaquinto (1847-1937):

San Giuseppe faceva er falegname
e benché fusse artista del talento
nun se poteva mai levà la fame
pe cquanto lavorasse e stasse attento:
un giorno fece: “Alò! Ccambiamo vento.
Lassam’annà ‘sto mestieraccio infame!”
Prese ‘na sporta, messe tutto drento,
e ccaricò er somaro de legname.
Poi se n’annò in Egitto co’ Maria,
e doppo un par de giorni ch’arivorno
uprì de botto ‘na friggitoria.
Co’ le frittelle fece gran affari,
apposta in tutta Roma, in de sto ggiorno
sorteno fòra tanti frittellari.


Se per l’antropologia culturale il fuoco e il fumo rimandano a riti antichi di purificazione agraria tra la fine dell’inverno e l’inizio della primavera, a noi, ragazzi di ieri che ci aggiravamo con curiosità e stupore - e un certo appetito proprio dei figli dell’immediato dopoguerra - per le strade e le piazze di Roma, rimane il ricordo, indelebile nella memoria, di un sentore, forte e solleticante, di fritto nel naso e di un sapore, dolce e unto, nel palato.

18 marzo 2016

"Pasolini e la fotografia" di Gianni Quilici





Pasolini aveva la faccia dell’artista.
Perché era una faccia scavata, a volte quasi allucinata, con occhi piccoli e incavati, che esprimevano una concentrazione ed un’energia che strabordava, si imponeva e si impone. Una forza autentica, ma anche forse cercata: l’idea che PPP aveva di sé e voleva trasmettere. Un attore-autore con una parte sola: creare incessantemente creare. Non è un caso che, per interpretare Giotto nel Decameron, abbia scelto se stesso e che il risultato sullo schermo sia esemplare nel delineare la tensione corporea e psichica di chi crea, in questo caso, con colori e pennello.

Proprio per queste ragioni molte delle sue foto sono indimenticabili, perché vanno oltre quei volti “medi” o “piccolo borghesi”, che, la maggior parte degli artisti si porta appresso. Ha detto a questo proposito Moravia:” Quando si svegliava al mattino presto, col sonno, veniva fuori una faccia da uomo delle caverne. Abbastanza paurosa. Da primitivo. Poi si ricomponeva e assumeva la sua faccia dolce”

Questo volto è stato molto ripreso.  Soprattutto da fotografi di scena durante i suoi film: Mario Tursi, Angelo Novi, Mimmo Cattarinich, Maril Parolini, Angelo Pennoni, Deborah Beer, Divo Cavicchioli, Paul Ronald  e altri. Tra le tante foto significative una emblematica di Mario Tursi sul set di Medea: Pasolini su uno sgabello, vicino alla macchina da presa,  il volto chino, poggiato sul braccio, pensoso e scultoreo, ma con leggerezza, e completamente estraniato dalla folla di curiosi “normali”, vicini e lontani sullo sfondo. Sono queste le ragioni probabilmente, per cui sono molti sono i libri usciti, dove l’immagine di PPP e dei suoi film è predominante.

L’ultimo, “Scatti per Pasolini” di Mario Dondero (5 Continents editions), raccoglie diverse immagini di PPP e dei suoi amici, alcuni di questi antologiche come quello di Pasolini ripreso di fianco in piano americano con dietro, ad altezza di spalla, leggermente sfuocata, a formare quasi un prolungamento, la madre Susanna, così straordinariamente simile a lui. Tra gli altri fotografi, straordinari sono gli scatti di Giovanni Giovannetti, perché lo colgono, in primissimo piano,  in un dibattito alla festa nazionale dell’Unità a Firenze, attraverso una successione di immagini, che formano una sequenza cinematografica unica e nello stesso tempo variegata: mentre medita, legge, forse scrive, parla, gesticola.

 Ma gli scatti più interessanti non soltanto in sé, ma per il progetto che sottintendevano sono quelli di Dino Pedriali. Perché, come si desume dalla testimonianza dello stesso fotografo, allora giovanissimo ed alle prime armi, quelle foto iniziavano un reportage, che avrebbe dovuto essere inserito nel romanzo della sua vita “Petrolio”, poi rimasto incompiuto.

Un progetto, ecco la novità, di cui Pasolini stesso era il regista. Infatti senza togliere nulla al talento fotografico di Pedriali, confermatosi anche in seguito, forse per la prima volta, Pasolini sceglie la macchina fotografica con l’idea di utilizzarla ai fini di un lavoro creativo, di cui lui è l’ideatore e il progettista. Pochi giorni dopo sarà ucciso, ma queste prime foto delineano già il progetto: essere “colto” durante lo scorrere della sua vita quotidiana. Così lo vediamo a Sabaudia, mentre passeggia e sullo sfondo ventoso del lago, lo vediamo all’opera sui tasti della macchina da scrivere, lo vediamo infine in piedi in camera e mentre legge, nudo, sdraiato sul
letto …   
Un progetto appena iniziato, che Pasolini non avrebbe mai veduto. Cosa ne sarebbe venuto fuori è impossibile immaginare.










07 marzo 2016

“Potenza espressiva dell'amore non detto: Tolstoj e Pasternak” di Davide Pugnana




Dalla parte dei lettori, spesso non abbiamo coscienza dell'estrema difficoltà nel trattare alcuni temi all'interno del romanzo. Molte soluzioni ci sembrano scaturire da un getto naturale e spontaneo.

Prendiamo, ad esempio, lo stranoto tema dell'amore. Non la meditazione sul sentimento, non la sua resa introspettiva; bensì la sua polarità e frizione nella rappresentazione della coppia, calata nelle maglie di un romanzo.

Come renderlo? Che cosa accogliere e che cosa evitare? Niente di più difficile che narrare l'amore senza incorrere nell'infinito pozzo dei già detto. In molti romanzi, la naturalezza realistica e il taglio di alcuni episodi ci sembrano scontati; arrivati in quella zona minata sentiamo il pericolo della banalità. Temiamo di essere delusi nello svelamento di un mistero.

Fino a quando non ci soffermiamo a riflettere su due scene narrative tra le più belle e perfette nella storia del romanzo occidentale. Entrambe appartengono al romanzo russo ed entrambe condividono un comune denominatore: l'amore mancato.

 L'amore tanto più profondamente sviscerato perché innominato. L'amore che non osa pronunciare il suo nome. L'amore lasciato oscuramente inespresso dentro i personaggi; potenziato perché tenuto sul limitare del "potrebbe essere e non è", nell'interlinea di un istante mancato. L'amore come istanza vacillante e, proprio in virtù di questa condizione, dilatato nella sfera della desiderabilità, mediante il dosaggio evocativo d'un sapiente uso dei dettagli.

Non è un caso che Tolstoj, in "Anna Karenina", decida di calare Levin e Kitty in «una limpida giornata di gelo», su una pista di pattinaggio, alle «quattro del pomeriggio»: Kitty indossa «un sofisticato abito di tulle dalla sottogonna rosa» che oscilla lieve, mentre le lame dei pattini scivolano cadenzate sulla lastra gelata e scandiscono un dialogo in cui la stupenda superficialità dei temi traduce un'inaudita dichiarazione d'amore.

Qualche decennio dopo, neppure Yuri e Lara si parleranno. Quando, nel "Dottor Zivago", Yuri ritrova Lara nella biblioteca di Juriatin, non la saluta; resiste all'impulso di avvicinarsi e resta a guardarla da lontano, su una soglia dove Pasternak spalanca e tesse una distanza attraversata da emozioni, voci notturne, sogni, presagi di ciò che potrà venire: una felicità insieme terribilmente vicina e terribilmente impossibile.


E' in questa abrasione di prossimità e lontananza che Tolstoj e Pasternak ci fanno sentire tutto il passato e tutto il futuro compresenti nello spazio di vuoto pneumatico che, in una stupenda dialettica tra parola e silenzio, separa e unisce per sempre Levin e Ketty, Juri e Lara.

06 marzo 2016

"Cosa resta di noi" di Giampaolo Simi

di Luciano Luciani

Cosa resta di noi (Sellerio 2015), titolo dell'ultimo romanzo di Giampaolo Simi, si sarebbe potuto anche intitolare Scene da un matrimonio, il celebre film di Ingmar Bergman del 1973. Anche qui, infatti, come nel film del regista svedese, una coppia di sposi, Guia ed Edo, il narratore: un ménage apparentemente felice. Meglio, forse, sereno, perché, si sa, la felicità non è di questo mondo: certo affiatato. Ancora giovani, i due coniugi si vogliono bene; si rispettano; tra loro c’è complicità, ironia, una robusta attrazione fisica…

Ma, c’è un ma… manca un figlio che fatica ad arrivare nonostante ogni sforzo. Guia, bella, ricca, colta, elegante, piena di charme, non è creativa. Non riesce a creare: intanto il figlio che i due tanto vorrebbero, poi non riesce nemmeno a scrivere e a pubblicare il romanzo che sente urgere dentro di sé. Una tensione perenne logora la loro relazione, la rende asimmetrica, squilibrata a favore di Guia, più egoista, determinata, prepotente. Una condizione di subalternità che il marito in parte subisce, in parte rifiuta in una lotta tra i due sempre più feroce, scomposta, senza esclusione di colpi. Edo percepisce questa disarmonia, ma è uno che si accontenta: non è un lottatore, ma un contemplativo e, soprattutto, è perdutamente innamorato della sua donna.

Simi racconta bene, direi magistralmente, questa progressiva entropia dei sentimenti:  il loro declinare ora lento, ora tumultuoso e precipite, sino a trasformarsi in qualcosa di acido, di velenoso, contrappuntando la narrazione di un amore al crepuscolo con pagine di flash back  che descrivono, invece, i momenti alti della storia tra Guia ed Edo. In questa relazione che progressivamente si sfilaccia si insinuano il caso e il caos: ne è portatrice Anna, donna piacente ma non bella. Non raffinata, non elegante, né colta come Guia. Di origini popolari, è avviata inesorabilmente verso la mezza età, con un passato tumultuoso alle spalle e un futuro opaco davanti a sé.

Un’incredibile nevicata invernale - quando mai nevica in Versilia? - , un tradimento coniugale - desiderio? Infatuazione? Occasione? Peccato? - che si consuma in maniera tanto convenzionale quanto sordida, una misteriosa sparizione... E quella che sembrava la storia di una coppia ormai avviata verso la crisi si trasforma in un mistero: una vicenda elusiva, sfuggente, indecifrabile. Solo due persone ne conoscono, forse, i lineamenti essenziali: una è probabilmente l’assassino, l’altra non può parlare... Tra spostamenti progressivi del sentimento amoroso e dettagli criminali, una trama tutta collocata sugli scenari desolati di una Versilia invernale, in letargo, in attesa dei fasti e dei riti del divertimento estivo di massa. Un luogo non-luogo: un divertimentificio addormentato in attesa del risveglio in un dilatarsi impalpabile dell' eccitazione fino alla frenesie indiscriminate e omologate proprie della stagione turistica. Su questi luoghi e secondo questi tempi ora lenti, ora veloci e rovinosi, si degrada la passione che lega i nostri due protagonisti e cresce l'enigma che li riguarda con le sue devastanti conseguenze in un crescendo di tensione e di strazio che ogni grande amore sconfitto porta con sé.

Anche per il Lettore consumato, una prova autoriale, questa di Giampaolo Simi, di rara intensità e non fa meraviglia che a Cosa resta di noi sia stata assegnato il prestigioso Premio Scerbanenco - La Stampa 2015 in occasione del recente Noir in Festival di Courmayer.

Giampaolo Simi, Cosa resta di noi, Sellerio editore, Palermo 2015, pp. 300, euro 14,00

24 febbraio 2016

“Terra matta” di Vincenzo Rabito



di Camilla Palandri


La visione casuale di “Terramatta “un bel documentario del 2012 diretto da Costanza Quatriglio, ha suscitato in me la voglia di leggere il libro,partendo così per una volta da un ordine inverso.
Sono rimasta colpita da questa singolare narrazione , dallo sforzo notevole fatto l’autore per mettere in forma scritta la storia della sua lunga e movimentata esistenza.

Vincenzo Rabito è un siciliano di Chiaramonte Gulfi ,un paesino in provincia di Ragusa, bracciante, soldato, carpenterie; è semianalfabeta e solo a 35 anni riesce a prendere la licenza elementare. In età avanzata, si isola nella sua stanza per sette lunghi anni e con una vecchia Olivetti raccoglie in più di mille pagine ad interlinea zero senza alcun margine la sua “ molto maletrata e molto travagliata e molto disprezata vita.”

L’opera è rimasta in un cassetto fino al 1999 quando il figlio Giovanni l’ha inviata all’Archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano che raccoglie diari e memorie di gente comune che narrano, in varie forme, la storia d’Italia.
Nel 2000 il libro ha vinto il “Premio Pieve- Banca Toscana”. Nel 2007 è stata pubblicata la versione ridotta di quello che fu definito da un giurato il “capolavoro impossibile” .

Il testo è stato suddiviso in capitoli per dargli maggiore organicità e facilitarne la lettura che tuttavia risulta abbastanza impegnativa proprio per il linguaggio utilizzato, una forma prevalentemente orale infarcito di parole siciliane continuamente separate da punti e virgole. La versione comunque si attiene fedelmente al testo e allo stile dell’autore ed ha l’unico scopo di rendere fruibile l’opera .

Superato l’impatto iniziale, anche se la velocità di lettura è continuamente rallentata dalla necessità di capire le parole che cambiano continuamente forma pur quando sono le stesse, la narrazione coinvolge sempre di più per il ritmo intenso e le vicende e vicissitudini che si susseguono incessantemente. Mai c’è per il protagonista un momento di tregua, sempre nuove peripezie lo attendono nella sua lotta quotidiana per la sopravvivenza, sempre deve escogitare nuovi stratagemmi ,usando l’astuzia e mille
sotterfugi, cambiando camaleonticamente “casacca” a seconda del periodo storico per adattarsi al nuovo e garantirsi una possibilità di lavoro.

La narrazione attraversa cinquant’anni di storia italiana, dalla prima alla seconda guerra mondiale, al sogno fascista dell’impero coloniale, alla miseria del dopoguerra fino al boom economico degli anni 60 , “la bella ebica”, di cui godranno i figli.

Ne esce un affresco vivo e molto pittoresco, a volte comico, soprattutto quando parla del suo difficile rapporto con la terribile suocera “impriaca di nobiltà. “
Più che in una lettura sembra di essere immersi in un racconto orale , ascoltare la storia dall’altra parte, come l’ha vissuta un uomo umile, un racconto che emoziona e appassiona.
“Se all'uomo in questa vita non ci incontro aventure, non ave niente darracontare” e la vita di Vincenzo Rabito è stata un vero romanzo.

Vincenzo Rabito .Terra matta. Edizioni Einaudi, pag.411.





16 febbraio 2016

“La cacca che ci salvò dalla fame. Strane storie e tipi strani” di Luciano Luciani



di Marisa Cecchetti

Ricevere un libro con tale titolo un po’ sorprende, anche se rapidamente riagganci le lezioni di geografia a proposito delle isole del guano, niente altro che strati spessi di escrementi di uccelli con funzione di ottimo concime naturale, e  ricordi anche la tua infanzia in campagna quando lo sentivi nominare, da spargere nei campi. Tant’è. Ma lo stupore della scelta editoriale rimane.

Senza dubbio deve aver fatto il suo sorrisino contento e un po’ furbetto il Luciani, che ama scrivere storie di ogni tipo. Con il precedente, Le donzelline. Donne d’amore nell’Italia rinascimentale (ETS 2014),  ha indagato e raccontato il mondo delle prostitute di alto bordo nel ‘500, donne colte e rispettate, anche dalla Chiesa che ne aveva i suoi buoni motivi.

Questo libro raccoglie invece le storie più diverse fra loro e strane, come se Luciani si fosse tolto tutte le curiosità che gli passavano per la testa. Le streghe? Le cavallette? Il guano? La Befana? Il caffè? Il dirigibile? Che storia mai ci sarà dietro? Indaghiamo. E personaggi come Edgar Allan Poe, Henry Toulouse Lautrec - e si parla di  nomi universalmente noti- ma anche  tale Domenico Barbaja o tale Pierre Loti. Chi erano costoro? Ricerchiamo!

Perché ha fatto questa scelta atematica, lui che ha insegnato nei licei a sviluppare i lavori di Italiano su tracce coerenti? Forse perché si vuol divertire, ora che ha più tempo libero . In realtà lo spiega lui nella prefazione: “A me mi hanno salvato le storie”. Fin d’ora scopriamo la sua voglia di non prendersi sul serio. Lui dice che dopo gli eroici furori della sua età liceale, quando credeva nella giustizia sociale, dopo un periodo in cui i fatti sembravano dargli ragione, le cose alla fine non sono andate nella direzione della giustizia sociale agognata: “A farmi dolorosamente ricredere ci pensarono la strategia della  tensione e i fatti del Cile, il terrorismo nero e quello rosso, Reagan e il craxismo, la marcia dei quarantamila e l’omologazione galoppante di quella classe operaia che, secondo i voti miei e di quelli come me, avrebbe dovuto “dirigere tutto”. La caduta del muro di Berlino lo trovò “incapace di comprendere il rifiorire degli antichi egoismi nazionalistici e i nuovi fondamentalismi economici e religiosi”.

Deluso dalla grande Storia, Luciani si è salvato con le piccole storie, che gli hanno dato il gusto di dissotterrare fatti dimenticati o mai indagati a fondo. Ecco il perché di questo piccolo libro.

Luciani è perfetto nell’indagine, cerca nelle leggenda, nella letteratura, nella storia, nelle tradizioni popolari. Non gli sfugge niente e racconta con una prosa chiara che si colora di lieve ironia quando è necessario, sa calcare sullo stupore, non nega l’intervento dell’autore qua e là.

Se dapprima la mancanza di un filo conduttore un po’ destabilizza il lettore, poi la originalità e la esaustività dei singoli racconti incuriosisce e coinvolge.

Luciano Luciani, La cacca che ci salvò dalla fame. Strane storie e tipi strani. Edizioni ETS 2015, € 12, pag. 120

12 febbraio 2016

"Storia di David, il dislessico fingitore" di Alex Nile



di Daniela Toschi

Nel titolo dato alla versione italiana di questo libro pare evidente che il traduttore si è ispirato alla nota poesia di Pessoa. Come il poeta, forse anche il dislessico è fingitore: deve nascondersi, portare una maschera per proteggere se stesso e gli altri, come dice a un certo punto David, il protagonista. E’ costretto a dissimulare tante cose, e in primo luogo “a fingere che non è dolore il dolore che davvero sente”…

Un mondo affascinante, quello della dislessia, cui appartengono alcuni dei massimi geni creativi ma anche tante persone comuni.

Parlando di dislessia viene da pensare ai bambini di cui finalmente si occupa la legge 170 del 2010, trascurando il fatto che ci sono altrettanti adulti, mai diagnosticati e mai informati sui motivi per cui ai tempi della scuola avevano difficoltà così strane, a dispetto della loro vivace intelligenza. E questo soprattutto in Italia, vista la peculiare lentezza con cui in questo paese si è giunti ad affrontare il problema.

Adulti che si nascondono, temendo a ragione di non essere compresi e di essere soggetti a perfidi pregiudizi. E che magari, essendo spesso geniali e portati a raggiungere il successo, solo dopo averlo ottenuto osano riaffrontare le terribili cicatrici del periodo scolare per chiedersi: “Ma cosa c’era in me che non andava? Perché per me la scuola è stata un tale inferno?” E così giungono alla diagnosi. Come è accaduto, tra gli altri,  a Steven Spielberg, che ha chiarito di essere dislessico solo pochi anni fa e lo ha dichiarato di recente.

In Italia attualmente sono pochissimi i centri pubblici dove un adulto o un giovane adulto può essere diagnosticato, tramite appositi test.
Ma anche vicino a noi stanno iniziando a sorgere centri dove vengono adeguatamente supportati gli studenti universitari. Giovani talenti da coltivare, se riescono a superare l’impatto tremendo con l’istituzione scolastica, ancora, globalmente, alquanto dislessica nei confronti della la dislessia. Molti, forse, non ci riescono.

L’autore di questo romanzo breve, Alex Nile, ci risulta essere il nome d’arte di un accademico inglese, lui stesso dislessico, che ha scritto e curato diversi trattati sul tema, non da ultimo “Dyslexia and creativity”.

Intendiamoci: la creatività dislessica non va intesa come qualcosa di estroso, stravagante o necessariamente artistico. È piuttosto, secondo la definizione più corretta e concreta del termine ‘creatività’,  la capacità di trovare nuove soluzioni, di risolvere quei problemi complessi che costituiscono una sfida al pensiero comune. Da cosa deriva? Ci sono varie ipotesi: pensiero laterale rispetto al pensiero verticale, possibilità di sfuggire alla “euristica dell’ancoraggio” proprio grazie al deficit negli automatismi e all’incapacità costituzionale di conformarsi, e così via.  Ma l’autore ci fa venire in mente anche il concetto di “crescita post-traumatica”: il trauma (o meglio, in questo caso,  i numerosi traumi subiti sin dal primo contatto con la scuola) oltre ad effetti distruttivi reca anche effetti costruttivi, inducendo una precoce maturità e una spinta a trovare strategie di sopravvivenza e di ricostruzione continua di una immagine positiva di sé e degli altri quotidianamente minacciata.

Il libro è ambientato in Inghilterra, dove l’interesse per la dislessia non è certo recente come da noi. Nonostante ciò il protagonista ignora di essere dislessico, ma è ben consapevole che, per quanto sia riuscito a laurearsi, non sa fare cose che per tutti sono banali, ad esempio scrivere senza fare errori grossolani… Perciò si sente costretto a mantenere un basso profilo nel lavoro e nella vita per non essere giudicato superficialmente e deriso come gli capitava a scuola. La storia è a lieto fine: David scoprirà la ragione dei suoi paradossi, deciderà di osare una disclosure coraggiosa e troverà persone che gli consentiranno di sviluppare le sue capacità creative, avanzando di carriera e portando benefici all’azienda in cui lavora.
La storia di David è scritta in modo apparentemente semplice, ma chi ha letto i libri dell’esperto che si nasconde dietro il nome di Alex Nile si accorge con stupore che contiene tutto ciò che occorre sapere riguardo alle problematiche psicologiche, relazionali e sociali che un dislessico adulto deve affrontare. Il tutto, però, è qui narrato con sobria leggerezza. Non dimentichiamo che il libro è stato scritto da un dislessico, che, in quanto tale, non ama gli sprechi di parole, prediligendo ‘la parola incarnata’.

Viene quasi da chiedersi se tanto interesse recente per la dislessia non scaturisca dalla nausea per gli abusi di parole (declamate o stampate) che abbiamo subito per anni e che ancora stiamo subendo, e dall’urgenza di trovare un nuovo stile, di vita e di scrittura, che restituisca alla parola il suo schietto ruolo comunicativo e che indirizzi il pensiero a trovare soluzioni reali, nuove ed efficaci.

Il traduttore, Valerio Innocenti, è insegnante di lingue straniere presso un liceo viareggino. Ha realizzato la versione italiana di questo libro in occasione del convegno “Una volta non c’era…” Storie vere di dislessia (Montecatini, 27 ottobre 2012).
La versione italiana, come quella originale, sono disponibili come e-book su Amazon.

Alex Nile- Storia di David, il dislessico fingitore. Traduzione italiana di The deceitful dyslexic, di Valerio Innocenti.

09 febbraio 2016

"Il terzo uomo" di Graham Greene



nota di Gianni Quilici

L'ho letto portandomi dietro
qualche immagine del film,
soprattutto di una scena bellissima,
perché imprevedibilmente allucinante:
la figura imponente e inquietante
 del grande Orson Welles...

Siamo nella Vienna del dopoguerra,
 divisa dagli Alleati in quattro zone d'influenza,
ed in questo scenario di miseria e di distruzione
la storia di un'amicizia e di un tradimento.
Un romanzo dell'abbandono e dell'erranza,
 cinico e romantico, ironico e profondo
da leggere con un sospetto di adorabile Kitsch.

                                                Graham Greene: Il terzo uomo. Mondadori

04 febbraio 2016

"Un filo spinato lungo centocinquant'anni" di Luciano Luciani



                                                             



Uno spettro si aggira per l'Europa
                   
                        Uno spettro  torna ad aggirarsi per l'Europa: il filo spinato. Dopo aver tragicamente connotato le trincee e i campi di battaglia del primo conflitto mondiale e i luoghi della detenzione di massa e dello stermino  del secondo, il filo spinato riappare nella civile Europa invocato sia da politici xenofobi, sia da opinioni pubbliche sempre alla ricerca di capri espiatori su cui scaricare le proprie paure. E pensare che era nato come strumento, poco costoso e semplice da impiantare, utile al contenimento del bestiame brado e a protezione delle coltivazioni: un ruolo importante, quello del filo di metallo munito di spine, nel passaggio da un economia fondata sull'allevamento del bestiame a una basata sull'agricoltura.

Dalla pace alla guerra
La sua invenzione, o, per essere più precisi, il brevetto di tale semplicissimo dispositivo, risale agli anni settanta del XIX secolo ed è ascrivibile all'intelligenza pratica, appunto di un agricoltore dell'Illinois, tal Joseph Glidden. La sanguinosa Guerra civile americana (1861-1865) ne aveva, però, già scoperto la convenienza militare, cambiandone radicalmente segno e senso: da protezione di allevamenti e possedimenti ai campi di battaglia e ai luoghi della detenzione coatta. Così, conobbe le gioie del filo spinato la popolazione cubana, imprigionata per volontà del governatore spagnolo Valeriano Wayler negli anni immediatamente precedenti la guerra ispano-americana (1898); anche gli inglesi, in quegli anni al punto più alto della loro espansione imperialistica, non disdegnarono il filo spinato e lo introdussero in Africa nel corso della guerra anglo-boera (1899-1902) intrapresa contro i coloni sudafricani di origine olandese delle repubbliche del Transvaal e dell'Orange che non avevano certo accettato passivamente le pretese britanniche di impadronirsi delle loro ricchezze aurifere e diamantifere e si difendevano con abilità e audacia ottenendo non pochi significativi successi sul campo. Allora, l'esercito di Sua Maestà fece ricorso al filo spinato: prima per proteggere le linee ferroviarie più importanti dagli assalti della guerriglia, poi per creare immensi campi di concentramento in cui  imprigionare i soldati catturati e le famiglie boere.

I "cavalli di Frisia"
Al filo spinato fecero ricorso in maniera massiccia, alcuni decenni più tardi, tutti gli eserciti che si batterono nella Grande Guerra. La lunghissima trincea che per quattro anni spezzò in due l’intero continente europeo fu, infatti, consolidata da sbarramenti di reticolati di filo spinato, detti “cavalli di Frisia”, che contribuirono in maniera decisiva a trasformare il primo conflitto mondiale in una micidiale guerra di posizione con milioni di uomini costretti a vivere in condizioni durissime, esposti non solo ai pericoli bellici, ma anche alle intemperie e alle malattie. L’unico modo per avere ragione dei reticolati di filo spinato consisteva nell’aprirvi dei varchi, sotto il fuoco nemico, ricorrendo a pinze e cesoie oppure a esplosivi deposti manualmente. Solo nella ultima fase del conflitto il ricorso all’arma più nuova, il carro armato, segnò il tramonto della trincea, ma non il declino del filo spinato. Installazioni militari di ogni tipo continuarono, infatti, a farne largo uso nel corso della seconda guerra mondiale, ma fu la Germania nazista a intensificarne l'utilizzo per delimitare campi di concentramento e di lavoro. Spesso elettrificando le recinzioni, così da renderle assolutamente impenetrabili: un'idea già messa in pratica nel 1915, quando le truppe del Kaiser fecero passare energia elettrica lungo il filo spinato che separava il Belgio occupato dall'Olanda, provocando più di 2000 morti.

Pungente e tagliente
Oggi, questo congegno, tanto elementare quanto micidiale, capace sia di dissuadere sia di ferire, simbolo della crudeltà dell'uomo sull'uomo nel XX secolo - come ricorda il logo di Amnesty Internationale, la benemerita associazione che dal 1961 si batte contro prigionia e tortura che riproduce una candela accesa avvolta dal filo spinato - torna prepotentemente alla nostra attenzione. Accade a causa dell'iniziativa del premier ungherese Viktor Orbàn - leader del partito xenofobo e anti-immigrati Jobbik, una sorta di Salvini danubiano - di innalzare una recinzione di razor wire o "nastro spinato": una variante moderna e incattivita del  vecchio filo spinato arricchita di rasoi, alta circa 4 metri e lunga 175 chilometri, la lunghezza del confine tra Ungheria e Serbia. La chiamano anche "concertina" questo tipo di filo spinato perché si può allungare a piacimento come una fisarmonica: bobine di nastro spinato, arrotolate e fissate a pali d'acciaio, che in pochissimo tempo si possono facilmente estendere e posizionare al suolo... Obbiettivo di tale muro irto e tagliente rendere ancora più difficile la vita ai disperati in fuga dalla Siria, dall'Irak, dall'Afghanistan che, per raggiungere la Germania e l'Europa del nord, attraversano le aree meridionali del Paese magiaro.
Colpisce che a ricorrere a simili strumenti di contenimento sia un popolo di antica civiltà, quello ungherese, che, in un passato ancora recente, molto ha dovuto soffrire a causa della cosiddetta "cortina di ferro" fatte in gran parte proprio di filo spinato. Tutto il mondo, lo ricordiamo, accolse con gioia la notizia che nel 1989 il ministro degli esteri ungherese e il suo omologo austriaco, con un gesto a forte densità simbolica, avevano tagliato il reticolato ancora steso  fra Austria e Ungheria.
Consola la notizia che l'azienda tedesca Mutanox, specializzata nella realizzazione di recinzioni, a cui il governo ungherese si era rivolto per la messa in opera di un tale lunghissimo incubo di nastri d'acciaio, spine e lame, abbia rifiutato la commessa. "Non vogliamo", hanno dichiarato i rappresentanti della ditta, "contribuire a ferire uomini, donne e bambini che non rappresentano alcune minaccia e non hanno  nessuna responsabilità nelle cause che hanno determinato questa emergenza".


30 gennaio 2016

"Pescatore" di Henri Cartier Bresson




di Isabella Eugenia Monti

mi butto in un oceano di sogni e speranze
dove le onde non temono i venti
dove le reti fuggono prede
non siamo forse parte di un tutto
sopra e sotto le acque
tra il cielo e la terra
Il mio dolce vagare scuote la luce
cattura la vita
il tuo ampio gesto come un forte danzare
 tu insieme a me
per sempre a navigare

“La ragazza del treno” di Paula Hawkins



di Laura Menesini

Un giallo estremamente avvincente, quasi tutto al femminile, un omicidio,  alcool a profusione e tanti sospetti...
Siamo davanti a un giallo che ti tiene col fiato sospeso pur trattandosi di un romanzo essenzialmente psicologico, con tre donne afflitte da problematiche diverse e uomini violenti.

La ragazza del treno è una persona distrutta da un matrimonio in frantumi che vive sprofondando sempre più nell'alcoolismo e si inventa la vita degli altri, di quelle persone che osserva dal finestrino del treno, a cui attribuisce  anche un nome e una famiglia, sentimenti e rapporti sereni e felici.
La donna osservata che ha avuto una vita difficilissima e che pagherà a carissimo prezzo i suoi errori.
La seconda moglie, apparentemente felice e serena con la sua bambina.

Tutte sono travagliate dalla gelosia e dall'insicurezza e l'unico rifugio, in questa periferia londinese vicina alla linea ferroviaria, è l'alcool, quella bottiglia che al momento ti fa precipitare in una sorta di limbo da cui però riemergi dopo poche ore con la bocca amara, lo stomaco in subbuglio e la testa frastornata. Non riesci a ricordare, non riesci a vedere con gli occhi annebbiati della mente quello che hai visto nella realtà e allora combini un sacco di guai e metti in pericolo la tua stessa incolumità.

L'autrice descrive perfettamente la psiche femminile, il desiderio di verità e chiarezza, la voglia di smetterla con le bugie e i nascondini, ma al tempo stesso la mancanza di fiducia in se stessa, la nessuna autostima che gli uomini e la vita si sono operati per inculcarti nell'intimo e di conseguenza la paura, lo star sempre a scusarsi per le parole di troppo dette o i gesti compiuti.

Gli uomini invece sono padroni della situazione e della vita, sanno sempre cosa dire e fare, lavorano, hanno la loro indipendenza economica e sociale e … sono più forti, hanno muscoli e braccia assai più forti di quelli delle donne.

Paula Hawkins. La ragazza del treno. Piemme editore 


28 gennaio 2016

"Il Dante di Auerbach: una piccola antologia privata”




di Davide Pugnana

Fa bene tornare a leggere gli studi che Erich Auerbach dedica a Dante. E non solo perché sono un capolavoro storiografico e interpretativo. Un "bene" da condividere come patrimonio dell'umanità. C'è anche un fatto minimo, una mania: spesse volte, la rilettura coincide con la scelta di piccoli o lunghi brani: quei campioni di testo ai quali preferibilmente si torna, con fedeltà, due tre dieci volte, accuratamente distillati e trascritti, fino a formare una piccola antologia privata.
 

Negli anni, di quelle bellissime pagine aurbachiane torna sempre a colpirmi il tema dell’assoluta e quasi fisica aderenza della poesia dantesca alla materia del canto, tratto già presente nelle riflessioni degli antichi commentatori. Auerbach fissa mirabilmente questa costante tensione espressiva nella definizione di Dante “poeta del mondo terreno”. Come dire: Aldilà matericamente terreno quello della Commedia dantesca: “immagine del mondo terreno: con tutta la sua ampiezza e la sua profondità […] completo, non falsato e ordinato definitivamente; la confusione del suo corso non è taciuta e nemmeno mitigata, o privata della sua qualità sensibili, ma mantenuta in piena evidenza e fondata su un piano che lo comprende e lo libera da ogni apparenza casuale”. 

Per Auerbach, la rappresentazione dantesca, la sua inaudita mimesis, è realismo risolto in un nodo inestricabile di dottrina e fantasia, storia e mito. Il naturalismo di Dante è nuovo marchio di fabbrica. 
Scrive ancora Auerbach: “l’immediatezza con cui egli solleva nell’aldilà qualsiasi uomo dalla folla dei vivi, per interpretarvi la sua realtà e la sua essenza, come se fosse tanto celebre quanto una figura mitica, o almeno storicamente fissata, di cui tutti sanno cosa significa, questa immediatezza sembra essere stata ignota prima di lui.”

Ed eccoci arrivati alle pagine memorabili sulla funzione della "similitudine" dantesca: dispositivo retorico capace di portarci nel corpo vivo del realismo dantesco. Dante è poeta che tende alla chiarezza; vuole che la limpidità concettuale sia ottenuta dalla massima politezza formale. Fissa episodi, voci, figure con poche linee, di estrema esattezza; ma se ciò non basta allora diventa analitico e compie un giro più largo. L’ampiezza argomentativa non complica il dettato, ma lo solleva a estrema chiarificazione. Su questo ideale di poetica si costruiscono le similitudini dantesche, sulle quali il lettore è portato a riflettere, rallentando la lettura. Tra l’immagine del naufrago che affannato si volge indietro a scrutare il pelago minaccioso e il perdersi nella vista di Dio, si apre l’infinita ricchezza delle similitudini che hanno la funzione di incarnare fatti e sentimenti:

“ animali e uomini, destini e miti, idilli, azioni di guerra, paesaggi, descrizioni naturalistiche tratte dalla strada, il più generico avvenimento periodico che sia legato alla stagione o al mestiere, il ricordo più personale, tutto vi è contenuto; le rane gracidanti alla sera, un ramarro che sfreccia attraverso la via, le pecore che si spingono fuori dal chiuso, una vespa che ritrae il pungiglione, un cane che si gratta, pesci, falchi, colombe, cicogne; un improvviso turbine che sradica gli alberi, il paesaggio di una mattina di primavera, quando è caduta la brina, il cadere della sera al primo giorno di un viaggio per mare, un monaco che ascolta la confessione di un omicida, una madre che salva il figlio dal fuoco, un cavaliere che balza solo avanti agli altri, il contadino sbalordito a Roma”. 
Questa vertiginosa lista di Auerbach rubrica l’apertura a ventaglio delle similitudini presenti nelle tre cantiche e mette l’accento sulla loro cifra espressiva: esse non devono decorare o scorrere parallele alla narrazione in versi; devono chiarire. Le similitudini dantesche sono cavate da concreti lembi di realtà e a questa tessitura devono ricondurre. Il “fatto” deve rivivere, incorporato, nel “dir”: è l’impalcatura portante dell’idea e della funzione poetica in Dante.

“spesso un verso [di Dante] richiede forza e tempo quasi impossibili prima di schiudere qualcosa di quello che vi è contenuto; ma quando si è riusciti ad avere una visione d’insieme, allora i cento canti, nello splendore delle terzine, nel loro sempre rinnovato intrecciarsi e sciogliersi, svelano la leggerezza di sogno e l’inattingibilità della perfezione, che sembra librarsi senza fatica, come una danza di figure ultraterrene ”

(Erich Auerbach, "Dante, poeta del mondo terreno" in "Studi su Dante")

19 gennaio 2016

"Il giovane Holden" di J. D. Salinger



di Angelica Grivel

La prima volta in cui mi imbattei nel "Giovane Holden", come tutti, pensai  parlasse proprio di me! Qualora mi si domandasse quale debba essere, a mio giudizio, il romanzo imprescindibile per un giovane tra i quattordici e i diciotto anni, ebbene, pur nella congerie di titoli amati che mi si affastellano tra cuore e memoria, non avrei alcun dubbio: è il 'Giovane Holden', di J. D. Salinger. 

L'io narrante è sorprendentemente aderente alle strutture logiche ed espressive di un classico adolescente sofferto, ironico e autoironico, lucido, caustico ed affettivo, che sperimenta l'ipocrisia del mondo degli adulti. 

Il flusso di coscienza, ossia lo stile letterario attraverso cui l'autore ci trasferisce il continuo sentire del diciassettenne Holden, dissacrante, disincantato, ma rispettoso, (quindi non un rivoluzionario), ne mette a nudo in maniera intima e diretta la sua anima sdrucita. Per il tempo di lettura, è diventato il mio personale flusso di coscienza: Holden Caufield mi seguiva a scuola, in Chiesa, in famiglia, sotto la doccia, con gli amici, a colazione, un'ossessione. Mi stava accanto mentre cercavo brandelli di serenità e frustoli di risa; mi stava accanto, amico gradito, quando la realtà scolastica si faceva stridente col mio spirito.

Piacevolmente irritante e sarcastico,  scaltra rapidità, voce narrante lesta e sbrigativa
 (pag 41: "Tutto ad un tratto, riecco spuntare fuori Ackley da quella maledetta tenda della doccia...mi faceva uscire dalla testa questa faccenda. Mi restò tra i piedi fin verso l'ora di cena, schiacciandosi quel bel brufolo che aveva sul mento. Non usava nemmeno il fazzoletto. Penso che quel bastardo non ce l'avesse nemmeno, un fazzoletto, se proprio volete saperlo.").

La trama del libro è un susseguirsi di riflessioni di Holden Caufield, che dopo essere stato espulso dal prestigioso college Pencey, prima di annunciare la fatidica notizia ai suscettibili genitori,  vagabonda per le strade della New York degli anni Cinquanta. (Il romanzo è uscito nel 1951, finora ha venduto oltre 60 milioni di copie in tutto il mondo, e tutt'ora se ne stampano e se ne vendono ben 250 mila l'anno).                                               

Holden è il tipico young angry man: detesta la borghesia, il denaro, l’ottusità  e gli effluvi acri e i miasmi tipici dei suoi coetanei (pag 32: "Vi ricordate che vi ho detto che per quanto riguardava le sue abitudini igieniche Ackley era un vero sporcaccione? Beh, anche Stradlater . Quella di Stradlater era una sudiceria più nascosta: pareva sempre a posto, Stradlater, ma avreste dovuto vedere il rasoio con cui si faceva la barba: aveva sempre tanto così di ruggine, ed era pieno di sapone, di capelli e di lerciume. Mai che lui lo pulisse, niente. Lui era sempre tutto in ordine, ma a conoscerlo come lo conoscevo io in segreto era un sudicione. Si lisciava per farsi bello perché si amava alla follia.").
..
Ogni cosa per lui è ‘maledetta’ o ‘dannatissima’, e se nomina la ‘vecchia Phoebe’ non è altri che la sua amata  sorellina.      Eppure il tema esplicito della narrazione non è la rabbia del protagonista. L'apparente sciattezza stilistica (il libro è volutamente trasandato e non chalantico)  era una forma di rifiuto del perbenismo della piccola borghesia americana e della letteratura 'popolare' o la classica accondiscendente 'vulgata lectio'. Holden è un ragazzo confuso che non accetta di buon grado la struttura socio scolastica familiare e culturale in cui si trova fatalmente a crescere. L'ingresso fra gli adulti, la propria parte nel mondo, è un passaggio arduo da apprendere e da reinventarsi. Il suo caro professor Antolini, in finale di romanzo, gli suggerisce saggiamente la seguente massima: "Ciò che caratterizza l'uomo immaturo è che vuole morire nobilmente per una causa, mentre ciò che distingue l'uomo maturo è che vuole umilmente vivere per essa." ️  

J. D. Salinger. Il giovane Holden. Einaudi                      

17 gennaio 2016

"Non è che l'inizio" di Gianni Quilici



Gianni Quilici, nikon a tracolla...
   
lettera di Fortunata Romeo

 Caro Gianni,
                       leggere il tuo libro, è stato sommare immaginazione ad immaginazione.
L’immagine di te, amico virtuale, e l’immagine di te che in qualche modo scaturisce dal tuo testo.
Strani modi di conoscersi anticipando l’altro nella nostra fantasia.

Veniamo al libro… dico che ne ho tratto spunti per costruire un’immagine di te perché, pur non conoscendoti di persona, mi pare che molto materiale sia autobiografico… lo si capisce sia dalle passioni del protagonista, foto, politica e bicicletta, di cui spesso parli nei tuoi post su Facebook, ma ancor di più lo si percepisce dal tono del raccontare , diaristico e legato ad un punto di vista in prima persona dove intuisco vissuti personali, anche se tu avverti di non cadere nell’errore di identificare autore e protagonista…

Il libro mi è piaciuto … è vivo , avvincente proprio perché trasuda passione per la vita.
Prevale un senso eroico, epico dell’esistenza. La ricerca di un orizzonte , di un oltre , di un senso.
Una ricerca ineludibile, sofferta, vissuta prima di tutto fisicamente. Una ricerca che parte dalle sensazioni osservate.

Il corpo è centrale nel libro. La mente osserva e cerca di cogliere,  di fissare attraverso la scrittura e i taccuini d’appunti che d’urgenza sono chiamati a testimoni, ma è il corpo che si impone.
“ Ho una penna ? Sì, ce l’ho! Avrei bisogno di un foglio. Voglio scrivere. Voglio cogliermi ora, qui” in questa frase c’è il sapore del libro, quella necessità di osservare se stessi , cogliersi, non restare evanescenti.

Il senso non può prescindere dalla carnalità, non può essere puramente intellettuale, è la carne che dà corpo alle passioni, che siano erotiche o politiche… La fame del corpo s’intreccia  e riflette quella dell’anima. Una smania di cogliere la pienezza,  ma anche un’ irrequietezza da colmare bulimicamente con sensazioni, sesso, corse, libri, cibo…

Si coglie la difficoltà di vivere la normalità, il lavoro di insegnante, la politica, lo stare nel mondo.
Ti sono grata di aver espresso questa tensione in cui è stato facile rispecchiarmi , di aver avuto il coraggio di proporre un personaggio che non si accontenta delle piccole cose, un personaggio esuberante, acceso, inquieto,  contradditorio, vitale.

Le donne gli fanno da contorno, quasi senza una vita autonoma. Solo Eloisa a tratti acquista contorni suoi propri.

Le vicende erotiche perdono però di interesse, man mano che il libro va avanti, per una certa tendenza che ho notato a giustapporre i fatti, gli incontri in questo caso, senza una dinamica che tenga alta la tensione. Nella vicenda politica, in quella dell’insegnante e nella storia con Eloisa invece, hai saputo creare uno svolgersi dei fatti che mantiene alto l’interesse.

Un’ultima nota sullo stile, asciutto, essenziale, con frasi brevissime che segnano il ritmo incalzante.
Avrei tagliato anche con più incisività, l’avrei fatto ancora più secco tagliando qualche periodo un po’ troppo elaborato, ma nel complesso trovo la tua scrittura viva nelle sue piccole imperfezioni, interessante.

Un uomo vivo che scrive di un uomo vivo.
Mi accorgo che le parole vivo, vita, ricorrono spesso in questo mia lettera, non saprei trovarne altre di più azzeccate per parlare del tuo testo.
E se un testo vive vuol dire che ha un senso averlo scritto.
E…non è che l’inizio..

Grazie
            Fortunata

Gianni Quilici. Non è che l’inizio. Tra le righe libri. Euro 13,00.