18 marzo 2016

"Pasolini e la fotografia" di Gianni Quilici





Pasolini aveva la faccia dell’artista.
Perché era una faccia scavata, a volte quasi allucinata, con occhi piccoli e incavati, che esprimevano una concentrazione ed un’energia che strabordava, si imponeva e si impone. Una forza autentica, ma anche forse cercata: l’idea che PPP aveva di sé e voleva trasmettere. Un attore-autore con una parte sola: creare incessantemente creare. Non è un caso che, per interpretare Giotto nel Decameron, abbia scelto se stesso e che il risultato sullo schermo sia esemplare nel delineare la tensione corporea e psichica di chi crea, in questo caso, con colori e pennello.

Proprio per queste ragioni molte delle sue foto sono indimenticabili, perché vanno oltre quei volti “medi” o “piccolo borghesi”, che, la maggior parte degli artisti si porta appresso. Ha detto a questo proposito Moravia:” Quando si svegliava al mattino presto, col sonno, veniva fuori una faccia da uomo delle caverne. Abbastanza paurosa. Da primitivo. Poi si ricomponeva e assumeva la sua faccia dolce”

Questo volto è stato molto ripreso.  Soprattutto da fotografi di scena durante i suoi film: Mario Tursi, Angelo Novi, Mimmo Cattarinich, Maril Parolini, Angelo Pennoni, Deborah Beer, Divo Cavicchioli, Paul Ronald  e altri. Tra le tante foto significative una emblematica di Mario Tursi sul set di Medea: Pasolini su uno sgabello, vicino alla macchina da presa,  il volto chino, poggiato sul braccio, pensoso e scultoreo, ma con leggerezza, e completamente estraniato dalla folla di curiosi “normali”, vicini e lontani sullo sfondo. Sono queste le ragioni probabilmente, per cui sono molti sono i libri usciti, dove l’immagine di PPP e dei suoi film è predominante.

L’ultimo, “Scatti per Pasolini” di Mario Dondero (5 Continents editions), raccoglie diverse immagini di PPP e dei suoi amici, alcuni di questi antologiche come quello di Pasolini ripreso di fianco in piano americano con dietro, ad altezza di spalla, leggermente sfuocata, a formare quasi un prolungamento, la madre Susanna, così straordinariamente simile a lui. Tra gli altri fotografi, straordinari sono gli scatti di Giovanni Giovannetti, perché lo colgono, in primissimo piano,  in un dibattito alla festa nazionale dell’Unità a Firenze, attraverso una successione di immagini, che formano una sequenza cinematografica unica e nello stesso tempo variegata: mentre medita, legge, forse scrive, parla, gesticola.

 Ma gli scatti più interessanti non soltanto in sé, ma per il progetto che sottintendevano sono quelli di Dino Pedriali. Perché, come si desume dalla testimonianza dello stesso fotografo, allora giovanissimo ed alle prime armi, quelle foto iniziavano un reportage, che avrebbe dovuto essere inserito nel romanzo della sua vita “Petrolio”, poi rimasto incompiuto.

Un progetto, ecco la novità, di cui Pasolini stesso era il regista. Infatti senza togliere nulla al talento fotografico di Pedriali, confermatosi anche in seguito, forse per la prima volta, Pasolini sceglie la macchina fotografica con l’idea di utilizzarla ai fini di un lavoro creativo, di cui lui è l’ideatore e il progettista. Pochi giorni dopo sarà ucciso, ma queste prime foto delineano già il progetto: essere “colto” durante lo scorrere della sua vita quotidiana. Così lo vediamo a Sabaudia, mentre passeggia e sullo sfondo ventoso del lago, lo vediamo all’opera sui tasti della macchina da scrivere, lo vediamo infine in piedi in camera e mentre legge, nudo, sdraiato sul
letto …   
Un progetto appena iniziato, che Pasolini non avrebbe mai veduto. Cosa ne sarebbe venuto fuori è impossibile immaginare.










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