19 settembre 2011

"Le parole ferite" di, Mario Del Plato

di Luciano Luciani

Veniva da Eboli, Mario Del Plato: quella terra di frontiera in cui anche Cristo si fermò, mentre Carlo Levi doveva spingersi appena poco più a sud per elaborare la cronaca, liricamente trasfigurata, dei costumi millenari di un meridione interno e interiore.

Semplice il mondo delle sue origini, duro, faticoso il suo apprendistato alla vita. Poi, alle soglie dell’età adulta, giovane uomo, fornito di un diploma magistrale, poco prima degli anni del boom economico, come tanti altri figli del mezzogiorno, anche Mario aveva cercato fortuna lontano dalla propria terra, nell’emigrazione, nella diaspora in Italia e nel mondo. Lui si era fermato in Toscana, a Lucca, dove aveva costruito un proprio progetto di vita e trovato il suo punto d’equilibrio umano, familiare, professionale. Un’esistenza semplice, la sua, serena, appagata: la famiglia, il lavoro, gli amici e tanti, tanti interessi. La fotografia, che gli regalava belle soddisfazioni, i viaggi, le lingue, la montagna…

Poi, l’infermità: una malattia terribile, devastante, di tipo degenerativo che, invalidando progressivamente il corpo lasciava inalterati lucidità e raziocinio per una sempre più dolorosa consapevolezza della propria condizione. Esemplare la sua reazione di fronte all’avanzare del male: non abdicare alla vita di sempre, non arretrare se non assolutamente costretto, ma continuare, con tenace testardaggine, a coltivare il giardino di un’esistenza normale anche se quel perimetro si andava inesorabilmente restringendo un giorno dopo l’altro.

Il suo coraggio e la sua passione di vita nonostante tutto sono ben testimoniati da un libro straordinario, L’ultimo treno per Kyoto, cronaca puntuale e dettagliata, tutta intrisa di ironia e autoironia, del viaggio compiuto da Mario, già costretto dalla malattia sulla sedia a rotelle, nientemeno che in Giappone, una meta lontana e per questo da sempre desiderata: l’ultimo tour della sua esistenza di uomo che tanto amava conoscere altri luoghi, altre genti, modi di vita differenti a partire dall’espressività linguistica. Un’ultima parentesi di serenità, mentre incalzano i giorni, sempre più difficili e dolorosi, di una malattia che, implacabile, non concede sconti: il corpo che non risponde più, Mario che, a poco a poco, non è più in grado di parlare, di interloquire. Gli viene a mancare la voce, perde la parola che da quel momento è appunto “ferita”, progressivamente sfigurata, sfregiata, costretta solo in forma di e mail e poi quando anche l’uso del pc diviene problematico ridotta a sms, l’ultima, l’unica, possibilità rimastagli per comunicare con gli altri. Ma dentro gli si agitava ancora un mondo: innanzi tutto di sentimenti, poi di ricordi, riflessioni, considerazioni sulla propria condizione che si andava facendo sempre più fragile e dipendente. E la tensione continua tra l’attaccamento alla vita e i pensieri, a volte il desiderio, della morte.

Morire, però, per chi è vivo, e sente e soffre, non è un fatto naturale. “Ogni morte” ha scritto Gesualdo Bufalino “è un assassinio. E se non si urla, vuol dire che si acconsente”. E Mario non acconsente.

Di questa lunga resistenza tratta questo suo ultimo, definitivo libro: un lungo, intenso, struggente, a tratti straziante, monologo interiore. Un inarrestabile flusso di coscienza che racconta non solo la malattia e le vita demidiata dal male, ma anche il coraggio per non arrendersi; la disperazione, spesso ma non sempre, lenita dalla “carità feroce del ricordo” di bei momenti vissuti, delle belle esperienze fatte, e il dolore allo stato puro, senza mediazioni possibili, di chi si percepisce unicamente come un peso per se stesso e per gli altri.

E poi il conforto della scrittura che aiuta a chiarirsi con se stesso e a entrare in un’estrema relazione con gli altri e consolazione della memoria che permette di continuare a viaggiare a ritroso negli anni. Per recuperare i tempi e i luoghi della famiglia d’origine, i nonni, i genitori, il mondo delle cose semplici di Eboli negli anni cinquanta e, ancora, ricordi di scuola, del servizio militare, della vita professionale nelle Ferrovie dello Stato. La moglie Daniela, la figlia Gioia, amici e parenti, uomini e animali entrano ed escono in queste pagine senza un ordine apparente se quello del procedere analogico del cuore e si mescolano col racconto, sbalzato in punta di penna con felice abilità narrativa, dei piccoli e piccolissimi atti di una vita forzatamente angusta e disadorna: l’arrivo di una nuova badante; i difficili rapporti con i medici; la condotta di Tobi, il cane di casa, quasi una persona di famiglia, mordace e perennemente impegnato ad abbaiare a tutto e tutti; le medicine e le terapie che poco possono fare per uno stato di salute che non migliora, non può migliorare.

Pagine che si fanno sempre più lancinanti, dense, precipiti a mano a mano che si procede verso la fine, quando sempre meno nascosta si fa la presenza della “dolce fanciulla / che dice all’orecchio: Più Più”. Un incontro che Mario sembra attendere da tempo: Solo alla morte non c’è soluzione perché essa stessa è la soluzione per eccellenza.

Sono le sue ultime parole ferite.


Mario Del Plato, Le parole ferite, Maria Pacini Fazzi editore, Lucca 2011, pp. 142, Euro 10,00

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