10 marzo 2013

“Il saluto. Mini-antropologia del quotidiano” di Gianni Quilici e Patrizia Manganaro



FOTO di GIANNI QUILICI
Vivere individualmente dentro compartimenti chiusi ti rinchiude oggettivamente e crea una corazza che progressivamente diventa naturale, diventa parte del tuo volto o, detto in altri termini, della tua maschera.

 Tu non saluti, non perché non vuoi o non puoi salutare, ma per una coazione a ripetere, che nasce da una catena sociale che consolida quell’individualismo, quel volto, quella corazza. E questa catena nasce e si consolida nel sistema in cui la società si è organizzata: l’anonimato della città e delle strade, l’individualismo delle abitazioni, la crescita di quei “non luoghi”, che ha analizzato l’antropologo francese Marc Auge’ (autostrade, treni, stazioni, supermercati, multisale, grandi catene alberghiere ecc), che si allargano a macchia di leopardo nei piccoli centri e nei paesi. I bar da luogo di incontro stanno diventando luoghi di passaggio, molti piccoli negozi stanno scomparendo inghiottiti da centri commerciali e supermercati.

     Rivoluzionare l’individuo che diventi soggetto sociale presuppone quindi un rivoluzionamento dei (non) luoghi, rivoluzionare i (non) luoghi presuppone infine un rivoluzionamento della strutturazione sociale.

     La questione, tempo fa di moda, se si debba rivoluzionare prima se stessi o la società è un falso problema. Nel momento in cui si rivoluziona l’individuo, anche ciò che gli sta intorno si rivoluziona. Insomma, non un movimento meccanico, ma un incessante andirivieni.

     In questo contesto il saluto è soltanto un micro comportamento, ma non per questo insignificante, perché succede, può succedere molte volte in un giorno.

     Salutare una persona significa ri-conoscerla. Salutarla con piacere vuol dire trasmettere il piacere di salutarla. La mia esperienza mi dice che, quando si vive a lungo in “non luoghi”, diventa difficile salutare, anche una persona che conosciamo.

     I non luoghi portano, infatti, ad una spersonalizzazione, che nasce dal rapporto individuo-folla. La folla ti spersonalizza e tu spersonalizzato tendi a spersonalizzare gli individui nella folla.

Da qui sorge un imperativo banale da assumere come codice civile: salutare oltre le convenzioni. Come? Guardando negli occhi.   


di Patrizia Manganaro

Questo per me che lavoro in un bar di una cittadina di provincia è pane quotidiano. Da diversi anni studio, attraverso il lavoro, le manie comportamentali dell'individuo e dalla mia piccola esperienza posso attestare che il saluto, da me acquisito come segno di riconoscimento per eccellenza, nella stragrande maggioranza dei casi è un disturbo alla più comoda spersonalizzazione dell'essere. 

Sì, ripeto, comoda...perché vedo svogliatezza nel saluto, gli individui sono restii a rispondere al saluto squillante di chi non vuole farsi inghiottire dalla voragine dei non luoghi, preferiscono precipitarvi dentro pur di non essere coinvolti nel lavorio del desiderio dell'essere, come a trovarsi a passare lì per caso catapultati da chissà quale altra galassia.

 Ancora peggio quando gli individui si trovano al mio cospetto più volte al giorno (per il caffè,una bibita,uno spuntino), e al mio saluto personalizzato ( buongiorno Mario! buongiorno Anna! ),ripetuto con diverso tono di cordialità ogni volta, guardando Mario e Anna diritto negli occhi, senza equivoci, senza ombre, con trasparenza totale e sorriso gentile anche se stanco, si sentono frastornati ,non più avvezzi alla cortesia e alla buona creanza. Si vede che si sentono spaesati, perché i non luoghi ormai per paradosso sono diventati i piccoli negozi e negozietti,dove ancora si usa riconoscere e riconoscersi ,dove ancora i gestori si ostinano a salutare tutti quelli che di passaggio o per caso o per altro, varcano l'uscio del proprio esercizio commerciale, dove ancora si prova ad esercitare una discreta, ma accogliente intimità quasi familiare. 

A molti piace il saluto, pur avendo da tempo perduto la bella abitudine mi corrispondono con visibile piacere; altri assumono l'espressione infastidita di chi viene richiamato come a scuola all'appello e si sentono in obbligo di rispondere al mio saluto; altri ancora vorrebbero rispondere, ma è come se si trovassero in imbarazzo,rispondono a mezza bocca guardando altrove per non incrociare il mio sguardo aperto che li invita. 

Difficilmente gli individui salutano per primi all'ingresso nel bar, il saluto rappresenta per i più una faccenda faticosa e inutile, alcuni mi guardano straniti e con una certa sufficienza rispondono un ......orno smozzicato e infelice per il sacrificio speso, e questi individui sono quelli già inghiottiti dai centri commerciali, dove il barista non si guarda nemmeno se c'è. Sono i casi più gravi e irrecuperabili ormai, sono quei soggetti che entrano magari parlando con l'auricolare, facendo strani gesti per ordinare un caffè, indicando la macchina dell'espresso, pagando mentre ancora parlano per i fatti loro ed escono dal bar senza guardarmi in faccia e senza, credo, ricordare che sapore avesse il caffè bevuto. Quelli sono la maggioranza purtroppo ,già assorbiti dai sistemi societari formicai degli ultimi decenni.

 A salutare guardando dritto negli occhi brandendo nello spazio un sorriso e la propria voce come fossero spade estratte dall'elsa con vigore e personalità, siamo rimasti veramente in pochi. E a chiamare per nome salutandomi ce ne sono ancora meno. Tutti proiettati nell'immagine di vasti spazi, dove i volti sono tutti uguali e nessuno riconoscibile. 









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