16 agosto 2013

"La Grande Guerra e i suoi interpreti" di Luciano Luciani






Una letteratura sterminata.

Sterminata la letteratura intorno alle origini della Grande Guerra. Non erano ancora stati sparati i primi colpi di cannone che già ciascuno dei Paesi belligeranti si adoperava per attribuire ai propri avversari le responsabilità dello scoppio della conflagrazione mondiale. Soprattutto negli anni del conflitto e in quelli immediatamente successivi, la storiografia risentì del calore delle polemiche nazionalistiche e della imponente produzione di documenti e memorie di uomini di Stato e militari tendenti a spiegare all’opinione pubblica, spesso da punti di vista settoriali se non addirittura personali, decisioni e scelte politiche, iniziative strategiche e operazioni tattiche. Si trattava di lavori in genere tendenziosi e propagandistici che ruotavano prevalentemente attorno al tema delle responsabilità degli Imperi Centrali e del loro personale politico e militare: questi, oltre a “premeditare” la guerra, avrebbero approfittato dell’assassinio dell’arciduca austriaco a Sarajevo come di un avvenimento favorevole che aveva offerto loro il pretesto, tanto insperato quanto desiderato, per scatenare una guerra che avrebbe imposto l’egemonia germanica sul mondo. Una letteratura comunque importante perché legata alla questioni, che avrebbero avvelenato l’Europa nei decenni successivi: i trattati di pace e le riparazioni di guerra.

Un fronte compatto.
Un fronte storiografico compatto che, però, già a partire dagli anni venti iniziò a mostrare le prime crepe. Questo avvenne quando la giovane Unione Sovietica cominciò a far uscire materiali documentari che illustravano le responsabilità del governo zarista e dei suoi alleati, Francia e Inghilterra, parimenti coinvolti nella conduzione, già orientata in senso bellicista, della diplomazia di quei Paesi e nella preparazione di un clima d’odio nei confronti della Germania. Un’ondata di pensiero storico “revisionista” che segnò profondamente soprattutto l’opinione pubblica francese e quella americana sino a quel momento tenacemente attaccate alla tesi dell’unica responsabilità degli Imperi Centrali: una tendenza storiografica che conobbe anche posizioni estreme che attribuivano in particolare alla Francia e alla Russia, che avrebbero scientemente precipitato il mondo nell’immane catastrofe di una guerra mondiale, tutte le colpe, prossime e remote, del conflitto
Così, a dieci anni dallo scoppio di una guerra che aveva radicalmente ridisegnato gli assetti politici e sociali del continente europeo, il giornalista e scrittore francese Alfred Fabre-Luce riassumeva la tormentata questione delle colpe e responsabilità: “La Germania e l’Austria hanno compiuto i gesti che hanno reso il conflitto possibile; la Triplice Intesa ha fatto quelli che l’hanno resa certa”. Una formula, questa, che non arrestò negli anni successivi, fino almeno alla seconda guerra mondiale, il confronto tra storiografia antitedesca e storiografia revisionista: anni in cui si facevano strada, però, anche impostazioni diverse per interpretare avvenimenti così decisivi nella storia europea e mondiale. Lo scrittore pacifista francese Victor Margueritte, per esempio, elevava un fiero atto d’accusa nei confronti di tutti i governanti europei, formulando al tempo stesso un’assoluzione piena per tutti i popoli, mentre nel 1927 lo storico sovietico Eugenij Viktorovic Tarle in una sua celebre Storia d’Europa 1871 – 1919 proponeva un’interpretazione di quella tragica vicenda bellica come “preparata dal giuoco complesso dei contrastanti interessi economici generali del capitalismo in Europa”.

Eugenij Viktorovic Tarle.  Le responsabilità del capitalismo.
Storico russo già affermato nel suo Paese e apprezzato all’estero quando i bolscevichi assaltarono il Palazzo d’Inverno, Eugenij Viktorovic Tarle (1874 - 1955) non era marxista e non partecipò alla rivoluzione. Un decennio più tardi, nel 1927, il suo libro Storia d’Europa, 1871-1919, gli valse l’ingresso nella prestigiosa Accademia sovietica delle Scienze, ma gli attirò anche gli strali polemici degli storici di regime più ortodossi che l’accusarono di essere uno pseudo marxista, un interventista e uno storico favorevole ai Paesi dell’Intesa. Accuse che gli comportarono un esilio durato quattro anni.
La Storia d’Europa 1871-1919 ridimensionò radicalmente la questione, agitata in chiave soprattutto nazionalistica, delle maggiori o minori “responsabilità” nel conflitto di questo o quel governo europeo, per concentrare invece l’attenzione sulle dinamiche economiche e finanziarie del periodo 1871-1914,
Secondo lo storico sovietico, “mai, prima d’allora, in tutta la storia del capitalismo moderno, l’industria, il commercio, la borsa, l’agricoltura, i trasporti avevano avuto a propria disposizione capitali liberi così ingenti”. La formazione e l’espansione di formidabili capitali che finanziavano e organizzavano tutta la vita commerciale e industriale dei moderni Paesi capitalistici avevano favorito il formarsi di un’ “economia mondiale” che non determinava affatto però il quadro idilliaco dell’emulazione pacifica sognato sin dalla metà del secolo XIX  da studiosi e utopisti politici come Buckle o Cobden. Ne era derivato un conflitto tra potenze imperialistiche: in ogni Paese gli industriali si erano adoperati per spingere i loro Stati a intervenire in armi per conquistare nuove risorse di materie prime e vantaggiosi mercati di sbocco per le merci. Un comportamento simile fu tenuto dalle banche e dalle borse che, soprattutto negli anni prima del 1914, chiedevano un attivo appoggio diplomatico e militare dovunque si proponessero di investire i capitali disponibili. Una condotta che unificava gli industriali tedeschi ai capitalisti inglesi, i capi della Borsa parigini ai grandi commercianti russi. A tutto ciò, secondo Tarle, non corrispose, poi, un’adeguata presa di coscienza dei rischi insiti in quella particolare fase della politica e dell’economia europee da parte della classe operaia del continente e delle sue organizzazioni politiche e sindacali che, soddisfatte delle conquiste economiche e sociali ottenute negli ultimi decenni in termini di mantenimento dei posti di lavoro e di aumenti salariali, avevano abbandonato le parole d’ordine rivoluzionarie e della solidarietà internazionalista di classe.

Il dibattito storiografia dopo il 1945.
Se nel dibattito storiografico fece, dunque, allora il suo ingresso il tema della Grande Guerra come conflitto tra potenze imperialistiche, non per questo si esaurì il confronto sulla questione delle colpe e responsabilità, riacceso inevitabilmente dal secondo conflitto mondiale, dai suoi tragici esiti, dalla nuova sconfitta della Germania. Nel clima ancora caldo della lotta antinazista, ripercorrendo la sterminata documentazione già nota, ripropose l’argomento della colpevolezza tedesca, lo storico inglese di convinzioni laburiste A. P. J. Taylor con il suo libro L’Europa delle grandi potenze da Metternich a Lenin 1848-1918, 1961 (titolo originale The struggle for mastery of Europe 1848-1918, apparso nel 1954). Un orientamento ripreso con vigore e la forza di nuovi materiali d’archivio dallo storico tedesco Frantz Fischer, con un lavoro rimasto famoso perché letto ben oltre la cerchia ristretta degli storici di professione, Assalto al potere mondiale, 1965, che mise inconfutabilmente in luce i piani aggressivi elaborati dal governo e dai militari tedeschi prima e durante il conflitto voluto a tutti i costi dalle forze economiche dell’impero germanico.

Wolfgang J. Momsenn. Il deficit di democrazia della Germania.
Wolfgang J. Momsenn (1930 – 2004), appartiene alla generazione di storici tedeschi indotta dalle tragiche vicende del secondo conflitto mondiale a indagare sulla continuità tra la Germania dell’età guglielmina e quella nazionalsocialista. Studioso della storia tedesca e inglese nei secoli XIX e XX, Momsenn nel suo L’età dell’imperialismo 1885-1918 sostenne che alla modernizzazione economica della Germania non avrebbe corrisposto un’adeguata modernizzazione sul piano politico e civile come invece era avvenuto per la Gran Bretagna. Una fragilità del tessuto politico e un deficit di democrazia che, intrecciati con un poderoso sviluppo industriale, con le tradizionali aspirazioni tedesche all’espansione territoriale, col nazionalismo e il militarismo prussiano, fecero ricadere sulla Germania il peso delle maggiori responsabilità nello scoppio del primo conflitto mondiale. Infatti, mentre nei dieci anni che precedettero il conflitto si assisté in Inghilterra a un’ampia diffusione dei principi politici del liberalismo riformista e radicale, in Germania, negli stessi anni, l’idea dello Stato democratico ristagna o arretra. Così, in Inghilterra le elezioni del 1906 portarono ben 54 rappresentanti laburisti alla Camera dei Comuni e il governo liberale fu sollecitato ad “andare oltre gli obiettivi del Labour Party tramite una generosa politica di riforme sociali”; in Francia, nello stesso anno, Clemenceau, su mandato degli elettori, formò un governo fondato su una larga maggioranza radicalsocialista con l’appoggio dei socialisti, che, tra divisioni e contraddizioni, entrarono stabilmente e da protagonisti nella vita politica del Paese e contribuirono al progressivo ordinamento democratico dello Stato; in Germania, invece, nonostante le speranze di una nuova stagione di progresso democratico all’interno del Paese, il sistema politico e sociale rimase prigioniero degli interessi dei gruppi più conservatori. Si mantenne il potere di comando del Kaiser sottratto a ogni controllo, i politici non riuscirono a ridimensionare il ruolo sino ad allora tenuto dai militari nelle scelte governative e la Germania continuò a essere governata con metodi autoritari mentre la politica estera di Guglielmo II era guidata da preoccupazioni nazionalistiche e la classe dirigente tedesca la usava per tenere a bada le richieste di democrazia che provenivano dall’interno del Paese. Politici, militari, grandi industriale costituivano per Momsenn un blocco di potere destinato a rimanere sostanzialmente intatto anche negli anni tumultuosi della repubblica di Weimar per approdare, con reciproca soddisfazione, al Terzo Reich.
Pesantissimi, per il vecchio continente, gli esiti politici, materiali e morali del conflitto che ne seguì.

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