30 marzo 2017

"Giuliano Briganti e la “maniera” della critica d’arte italiana" di Davide Pugnana



La storia della critica d’arte del Novecento è punteggiata di formidabili bagliori che segnano, a loro volta e di pari passo con le opere che interrogano, ulteriori scatti di accelerazione espressiva. Ci sono “letture” di singole opere d’arte o di poetiche abbracciate nella loro totalità che hanno, su colui che le attraversa, l’effetto di un’operazione di cataratta. Questi miracoli di coerenza e profondità marcano un prima e un dopo nella storia personale di ogni lettore; essi, al pari della metafora kafkiana del libro rivelatore come ascia scagliata sul mare di ghiaccio, tracciano una linea dalla quale non si può più tornare indietro. 

Nell’ambito della critica d’arte, tocca la questione Giovanni Testori allorché sostiene che vi sono scritture d’arte la cui potenza lascia sull’opera una cifra indelebile, simile ad una pellicola sacra, o ad una seconda pelle depositata per sempre dentro lo sguardo dei posteri come la più sicura garanzia della presenza del genio nell’atto critico. E’come se una resistente cortina di parole avvolgesse l’opera d’arte figurativa, costringendo qualsiasi lettore, a sua volta, a portarne nella memoria la loro indelebile traccia: “Un grande critico, avvicinandosi ad un quadro, subisce come un risucchio, viene aspirato dentro il quadro, fino a lasciare sul quadro, sul pittore, sul momento storico, la sua impronta. Così chi, successivamente avvicina quell’opera, quell’artista, quel periodo o scuola, non può fare a meno di riconoscervi anche quell’impronta. […] Se vai a vedere Caravaggio. a un certo punto senti che su quel quadro si sono impresse le parole di Longhi e solo le sue. Questo è quello che chiamo un grande critico“, scrive Testori ricordando la lezione di Roberto Longhi. 

Nella linea longhiana, marcata da forti chiaroscuri, si sono formati alcuni dei più grandi scrittori d’arte del Novecento italiano: pensiamo alla prosa vertiginosa di Francesco Arcangeli, allo stesso Giovanni Testori; alle pagine trepide e poeticissime di Roberto Tassi sui pittori ‘dei cieli’ tra Otto e Novecento,o a quelle di Cesare Brandi nei suoi diari di viaggiatore. Per oscuri e familiari vincoli genetici e per un segreto accordo dialettico maestro /allievo, per questa compagine di giovani storici dell’arte essere stati allievi di Longhi significò attraversare un’esperienza doppiamente estetica che coinvolgeva, da un lato, la ricerca di un metodo di indagine storico-artistica unita all’educazione prassistica dell’occhio al riconoscimento del fatto figurativo, e, dall’altro, poneva l’accento sull’importanza della resa verbale. Ancora oggi, nessun lettore di Longhi o di Arcangeli può rimanere immune dalla seduzione della loro scrittura, o, meglio, dal loro esser stati scrittori di opere d’arte. Ogni allievo di Longhi, diretto o indiretto, di prima o seconda generazione, ad un certo punto aveva chiaro di fronte a sé lo sforzo di approssimazione verbale all’opera d’arte figurativa che il maestro cercò lungo tutta la sua vita: quell’abito verbale giusto, quella ricerca dell’ “equivalenza” che permettesse di tradurre, spiegare e restituire oggetti che nascevano da un processo eminentemente visivo e in quel linguaggio risolvevano la loro natura espressiva. La questione della spaccatura tra parola e immagine accompagna come una sfida ogni storico dell’arte. 

Lo stesso Heinrich  Wolfflin nell’incipit di una sua celebra conferenza si chiedeva se le opere andassero davvero “spiegate” e se, all’intrusione delle parole, non fosse da preferire l’osservazione silenziosa di quel sistema di segni perfettamente autonomo nella sua grammatica visiva: “Devono davvero essere spiegate le opere d’arte? Non è forse una caratteristica dell’arte figurativa quella di spiegarsi da se stessa, cosicché chiunque possa leggerla? Naturalmente, finché si tratta del contenuto oggettivo, l’esigenza è senz’altro ovvia. Un quadro rappresenta qualche cosa, un edificio serve ad uno scopo, una macchia ha un significato; e tutto ciò deve essere spiegato. Ma la forma, della quale qui ci si deve unicamente occupare, non parla dunque da se stessa? Per comprendere un disegno giapponese, non occorre che io abbia imparato il giapponese. Una figura medievale dice a chiunque immediatamente qualche cosa, nonostante i secoli che ci separano da essa. Una scultura sarà, in generale, sentita come un modo di comunicare molto più definito che non la parola scritta, che conserva sempre il più alto grado di plurivalenza. […] Anche ammettendo che le cose stiano così, il vedere è tuttavia qualcosa che deve essere appreso.” 

Wolfflin va al cuore della figurazione artistica sottolineando la specificità del suo linguaggio: un linguaggio che parola non è. Lo ribadirà Henri Focillon in un passaggio icastico come un’aforisma di Vita delle forme: “Il segno significa, mentre la forma si significa.” Dal canto suo, Roberto Longhi nutriva fiducia nelle possibilità espressive della parola messa di fronte al difficile compito di “tradurre” un sistema di segni ad essa opposto, e, nel 1950, dopo aver sottoposto a verifica il suo stile e conquistate prove importanti di scrittura, condensò il sugo di questa esperienza sul campo nel primo articolo di Paragone, coniando la definizione-sigla di “equivalenza verbale” , una maniera per circoscrivere un tipo di approccio speciale all’opera figurativa,  che, se continuava a nutrire il solco della tradizione ekphrastica, nel contempo vi aggiungeva come una nuova declinazione, non dimenticando che ogni descrizione non è un’isola in sé conchiusa, ma partecipa di un sistema di relazioni: “L’opera d’arte, dal vaso dell’artigiano greco alla Volta Sistina è sempre un capolavoro squisitamente “relativo”. L’opera non sta mai sola, è sempre un rapporto […] È dunque il senso dell’apertura di rapporto che dà necessità alla risposta critica. Risposta che non involge solo il nesso tra opera e opere, ma tra opera e mondo, socialità, economia, religione, politica e quant’altro occorra. .. Tutto perciò si può cercare nell’opera purché sia l’opera ad avvertirci che bisogna ancora trovarlo, perché ancora qualcosa manca al suo pieno intendimento“. 

Questa fondamentale lezione di Longhi lavorerà, come un lievito fecondo, nella ricerca e stesura dei saggi di maggior impegno di Briganti. E Briganti stesso si trovò ad affrontare il problema di ‘come’ scrivere di pittura. Anch’egli non fu indenne da quella violenta e struggente lotta tra immagine e parola sulla quale si articola la linea degli scrittori d’arte del Novecento di scuola longhiana; una linea dove gli stili prosastici dei singoli storici dell’arte finiscono per costituire una koiné di appartenenza, un’aria di famiglia e, nel contempo, una varietà di registri espressivi che, a tutti gli effetti, per qualità e tenuta, possiamo rubricare tra le fila dei testi di storia della letteratura italiana del Novecento. Nell’orbita longhiana prenderà corpo una vera e propria “maniera” della critica d’arte italiana, la cui vicenda può esser seguita e ricostruita nel vario dipanarsi degli stili di scrittura degli allievi di Longhi e, successivamente, di Arcangeli. 

Scrivere l’opera d’arte figurativa malgrado la sua irraggiungibilità e inafferrabilità verbale, nonostante l’imperfezione costitutiva di ogni “equivalenza” – ecco la grande battaglia che ogni scrittore d’arte vive quotidianamente nel suo laboratorio di decifrazione visiva. Una cadenza malinconica, come di chi scrive per narrare un amore lontano, penetra anche nella scrittura foucaultiana, di fronte alla descrizione verbale de Las Meninas: “Ma il rapporto da linguaggio a pittura è un rapporto infinito. Non che la parola sia imperfetta e, di fronte al visibile, in una carenza che si sforzerebbe invano di colmare. Essi sono irriducibili l’una all’altra: vanamente si cercherà di dire ciò che si vede: ciò che si vede non sta mai in ciò che si dice; altrettanto vanamente si cercherà di far vedere, a mezzo di immagini, metafore, paragoni, ciò che si sta dicendo: il luogo in cui queste figure splendono non è quello dispiegato dagli occhi, ma è quello definito dalla successione della sintassi.”

Giuliano Briganti vive la sua formazione in questo contesto. La ricerca di una scrittura aderente al testo figurativo sarà una costante della sua produzione saggistica, alimentata dalla vicinanza e dalla lezione di Longhi, del quale Briganti fu assistente tra il 1941 e il 1943. Dobbiamo, però, aspettare lo scritto in memoria di Federico Zeri, comparso in quell’arioso diario intellettuale che è Affinità, per sorprendere da vicino, e non senza un senso di commozione, un Briganti che si interroga sulla questione della scrittura d’arte: ” Bisogna sempre scusarsi di parlare di pittura’, diceva Paul Valéry. Non era soltanto una regola d’educazione: posso immaginare molto bene cosa voleva dire, io che sono quasi cinquant’anni che faccio questo mestiere. Ma Valéry aggiungeva subito che esistono rilevanti ragioni per non tacerne. Non voglio domandarmi ora quanti intendano ora il senso di questa ‘rilevanza’ (pochi, direi), ma è certo che tutte le arti vivono di parole e che ogni opera, qualunque sia il rango in cui l’ha collocata un malinteso e sempre mutevole concetto di gerarchia o il mio romantico del genio, qualunque sia la cultura che l’ha espressa, esige una sua risposta. Parole, dunque, in risposta ad immagini, in risposta a ‘cose’. Non è forse la prima causa, il primo movente, di ogni opera, il desiderio che se ne parli? E, se non su questa terra, nel regno dei morti, come avrà pensato l’artista egiziano che seppelliva le sue nell’oscurità eterna delle tombe? Non esistono, anzi, le opere solo perché se ne parla?  […] In ogni opera d’arte c’è questo bisogno di parole; questo bisogno che se ne parli anche in solitario scambio ‘ con una sola anima’, come diceva ancora Valéry. […] E quel monologo non è che il primo passo, vorrei anzi dire il primo movente di quel genere letterario che è la critica d’arte, il cui vasto orizzonte spazia da quel primo e solitario moto d’ammirazione, spesso esprimibile soltanto in un’esclamazione o in un gesto di possesso […] , al colloquio, alla lezione, al saggio, al tentativo di armonizzare tutti i discorsi che un’opera ha provocato in chi vuol leggerla, e quindi al desiderio di metterla in relazione con un contesto e con altre manifestazioni del lavoro e del vivere umano.

Se esiste un’opera di Briganti che, più di altre, condensa la lezione longhiana sul versante della scrittura e raccoglie “tutti i discorsi che un’opera ha provocato in chi vuol leggerla”, questa è La maniera italiana del 1961 – al cui titolo fa esplicito riferimento il titolo di questo scritto, in forma di parafrasi metaforica. Questo piccolo saggio portò una ventata d’aria nuova nelle stanze chiuse del dibattito sul “manierismo”. Briganti non camminava per la prima volta su questo terreno accidentato. I nodi problematici proposti dal ‘manierismo’ costituiscono uno dei fili rossi dell’intera produzione brigantiana, fin dai suoi primi passi e la loro persistenza mette in luce il suo disporsi come sistema di vasi comunicanti. 

L’incunabolo della riflessione sul ‘manierismo’ va collocato all’altezza del 1945, anno in cui Briganti dà alle stampe Il Manierismo e Pellegrino Tibaldi (Roma, Cosmopolita) e va seguita, negli anni, sulla scia con alcuni articoli su Paragone (ricordo Barocco. Strana parola, che incrocia, seppur per altre vie, la questione manierista, e, soprattutto, Una Madonna del Rosso, prova attribuzionistica del 1953). Questo decennio di scritti sul manierismo funge da collaudo e da cartone preparatorio per quello che sarà il saggio più organico e compiuto del 1961, La maniera italiana. Letti congiuntamente, questi scritti sul ‘manierismo’ formano un nucleo compatto e presentano un fitto e coerente sistema di rimandi. Sia nello scritto su Pellegrino Tebaldi, che nelle pagine de La maniera italiana, Briganti principia con un moto di fastidio verso quelle definizioni vaghe e imprecise che tracciavano del manierismo un profilo vago se non marcatamente negativo. 

Confrontiamo i due attacchi: “Molto si è scritto e discusso in questi ultimi anni intorno al Manierismo e, a ben considerare, il risultato di quel molto scrivere e discutere mi pare, in complesso, negativo. Dopo essere stato rivestito  di tanti significati diversi e costretto nei più vari sistemi, il concetto di Manierismo s’è ridotto ora a qualcosa di molto elastico, di addirittura informe.  […] Dai molti lambicchi dell’estrazione sono usciti faticosamente pochi astrusi simboli, qualche sterile polemica e numerose definizioni rimaste senz’eco , così che a tutt’oggi si deve ammettere  che Manierismo è una di quelle parole che hanno perso il loro significato orginario , del quale solo testimonio è l’etimo, per acquistarne uno di uso comune: parola di comodo, dunque, e di facile circolazione.” 
Ancora nel 1961, ben sedici anni dopo: “Sempre meno accade di dar credito alle definizioni generali e molti ‘ismi’ hanno mostrato di vivere soltanto in astrazioni, tuttavia si ha la precisa coscienza che il manierismo qualcosa fu, e qualcosa di grande, che esistette una ricerca, un sentimento, una temperatura comune fin dagli inizi di quel periodo.” Il punto di forza di questo saggio di Briganti – ma, forse, sarebbe più corretto estenderlo ai modi generali dell’architettura dei suoi saggi – è il perfetto equilibrio tra slarghi storici sull’epoca, introdotti da incipit narrativi le cui campiture di largo e cadenzato respiro preparano il fondale sul quale si muoveranno gli artisti del tempo, e quelle zone di altissima intensità descrittiva, simili a vere e proprie isole ekphrastiche, nelle quali Briganti, pur mantenendo tutto in relazione, fa emergere la sua ricerca stilistica di prosatore d’arte. 
Prendiamo, a campione, l’attacco lento e solenne che segue alla ricognizione della storiografia precedente sul “manierismo”: “Le cose d’Italia volgevano al peggio e mutavano rapidamente le condizioni degli italiani mentre tramontava il sogno di dominio carezzato dallo Stato pontificio che andava utilizzando ai propri fini le illusioni di un rinnovamento dell’antico splendore romano. Sempre meno la realtà del potere corrispondeva all’ambizione di grandezza e nell’animo degli italiani che più direttamente erano coinvolti nei progetti ambiziosi di adornamento della curia e delle varie corti, voglio dire negli artisti, veniva meno il sentimento di equilibrio e di sereno dominio delle circostanze, frustrato dalle quotidiane esperienza della vita, dalla contraddizione palese tra l’astratta costruzione di un mondo ideale e una diversa realtà“. 
Lo stile è qui quello della saggistica storica tout court che procede a volo d’uccello sull’epoca e sulle sue dinamiche, incrociando fatti politici e sociali, o costanti dell’immaginario; Briganti – che ne La maniera italiana affermerà di voler porre in “relazione fatti della storia e fatti dell’arte” –  non abbandona mai questo sguardo d’insieme e dissemina i suoi saggi di veri e propri affreschi del periodo storico in atto, e dai quali, per lente volùte, l’occhio di falco dello storico dell’arte stringe, via via, sulle personalità degli artisti, come in questo passo: “Non v’è dubbio tuttavia che l’aria di catastrofe che pesava sull’Italia per il venir meno di ogni durevole stabilità costituisse una sorta di sfondo continuo alle nuove tendenze dell’arte, a cominciare ad un dipresso dal secondo decennio del Cinquecento, e possa darci in qualche modo una ragione almeno dell’inquietudine spirituale che la caratterizzano e della difficoltosa unità del mondo che riflettono.E’ infatti in questi anni difficili e inquieti  che nasce e si configura, ad opera di artisti diversi legati d un impulso comune e da comuni convinzioni, quella lucida e inquietante astrattezza , quella parata di invenzioni, di acutezze, di bizzarrie, quella straordinaria vicenda di umori balzani, lunatici, introversi, che nel loro insieme danno vita ad un episodio primario dell’arte italiana che da anni ormai si viene indicando col termine di manierismo.” Il passo da brani di questa tenuta alle vere e proprie ékphrasis è breve. Briganti introduce gli artisti del manierismo passando da una registro ‘da storico’ ad una scrittura ad alto tasso di letterarietà, dove l’uso di un’aggettivazione dai forti chiaroscuri, il ricorso all’enumerazione e ad una tensione metaforica diventano spie stilistiche che preludono alle zone più intensamente descrittive.

Briganti conquista nel tempo la sua personale capacità di traduzione del visivo in verbale. Quella “maniera” della critica d’arte italiana, di matrice longhiana, formerà la base della sua prosa; ma, come i più grandi allievi di Longhi (pensiamo a Francesco Arcangeli), Briganti trova la sua misura, il suo ritmo, la sua appartenenza a quella terra di confine che è il dialogo tra arti figurative e letteratura in totale autonomia rispetto all’egemonia del maestro. Le tappe di formazione della scrittura brigantiana costituiscono un capitolo a sé e meriterebbero di essere seguite passo passo, a partire dai saggi d’esordio e poste in relazione con il sostrato della scrittura d’arte del tempo; ma, ai fini di questa riflessione sullo stile di scrittura de La maniera italiana, possiamo accontentarci di gettare uno sguardo comparativo allo scritto del 1953, Una Madonna del Rosso, due pagine agguerrite di stringente attribuzione. 
Leggiamo come Briganti restituisce a parole questa Madonna senza autore: “Credo che di quei due anni poco noti di chiusa ricerca, gremiti certo di idee spinose ed acerbe, possa dirci qualcosa questa ambigua Madonna-fanciulla, perpendicolarmente calata  in una rigorosa serpentina, creatura di un intelletto disperatamente teso alla costruzione di complesse sigle formali ma toccato  dalla grazia arcana di una sconcertante fantasia. Immagino cosa avrebbe scritto Huysmans sul sorriso inafferrabile di questa Madonna, sulla grazia provocante, sottilmente perversa del fanciullo. […] A considerarla nei termini più concreti della storia del Rosso, questa ‘imago obliqua’ , ove la frontalità sembra annullata dall’ossessiva conquista in profondità dello spazio, questa sottilissima apparizione prospettica di due figure che si sovrappongono lungo un’unica linea che divide longitudinalmente la tavola per tutta la sua lunghezza, emergendo con la profilata maestà di una nave  vista da prua.” Questa intensità metaforica, che fa ricorso ad immagini-metafora di grande intensità poetica (è il caso della “profilata maestà di una nave vista da prua“), sarà cifra costante della prosa brigantiana, che, ancora in queste brevi pagine, trova lo spazio per una folgorante resa della Deposizione di Rosso, la quale – scrive – spicca “nell’interiore contrasto fra l’improvvisa, acerba freschezza del colore e le sagome tormentate e scarnite, quasi un giovane, vivido involucro che rivesta una forma angolosa e consunta.”  Il gusto per la coppia di aggettivi, il ricorso al respiro lungo degli avverbi, l’alternarsi di metafore e similitudini, la resa precisa dei colori, sono alcune delle costanti delle ékphraseis di Briganti. Nel disegno complessivo di un saggio sulle arti figurative, le ékphraseis creano una curva ascendente, un crescendo, una sorta di clou del discorso argomentativo che potenzia, in senso espressivo, la sua densità stilistica ricorrendo a strumenti retorici propri della letteratura, quest’ultima intesa – scrive Mengaldo – come “sfruttamento ‘poetico’ delle risorse della lingua”. Questa cassetta degli attrezzi, secondo quanto ci descrive Mengaldo (in Tra due linguaggi. Arti figurative e critica) comprende l’uso di similitudini e metafore; coppie o terne di aggettivi, spesso accostate con effetto insolito e prezioso oppure divaricante e ossimorico, tese sempre a “definire in modo più sfumato e insieme preciso, più screziato e nuovo un dettaglio, connotandone nello stesso tempo la risonanza nel riguardante”; frasi nominali, brevi o brevissime; accenni di prosa con cadenze e modulazioni da prosodia poetica; e, soprattutto, le “figure stilistiche regine dell’ékphrasis“: l’elencazione/accumulazione e l’analogia. Attraverso questi due dispositivi retorici, lo scrittore d’arte narra l’immagine; ci restituisce lo scorrere dell’occhio sull’opera, il suo movimento percettivo palmo a palmo. In questo processo, la punteggiatura stessa diventa l’equivalente di un solfeggio verbale delle singole registrazioni visive: ogni virgola, ogni punto, ogni inciso tra parentesi, crea un ordito che pone al riparo dal rischio della semplice frantumazione impressionistica; e in questo telaio gli elementi della traduzione per verba si cristallizzano nei loro momenti più alti, evitando la dispersione caotica per affermare il loro valore interpretante. La sottile analisi morfologica di Mengaldo ci aiuta a spingerci più addentro ad alcune punte di diamante della “maniera” della critica italiana ed è attraverso i suoi elementi costitutivi che possiamo apprezzare la specificità del dettato di Briganti.
La maniera italiana è riccamente pervasa da mirabili descrizioni di opere manieriste, introdotte gradualmente da fascinosi elenchi snodati ora su episodi e stranezze biografiche; ora su aggrondate atmosfere psichiche e tic malinconici; ora su bizzarre figure ritratte. Così, senza quasi averne coscienza, presi nelle spirali dell’enumerazione, tra nomi di artisti e mobilissime geografie, ci ritroviamo calati nell’immaginario dei pittori manieristi: “E va da sé che stranezze maggiori , per non dire altro, le sottintende il loro mondo figurativo di ambigui adolescenti, fanciulle androgine, vecchi demoniaci e spiritati che nei promiscui atteggiamenti rivelano un erotismo quanto più represso tanto più esasperato.” Passando per le vicende di Leonardo e Michelangelo, ci avviciniamo alle parti ékphrastiche del saggio. Un primo assaggio è la rapidissima descrizione congiunta delle opere giovanili di Rosso e Pontormo: Una foga improvvisa, popolare e quasi grottesca, articola la folta schiera degli apostoli, che precludono come un muro incombente  l’orizzonte, nell’Assunzione del Rosso; uno spirito acuto e irrequieto, una guizzante fiammella di bizzaria, traluce dagli occhi pungenti dei personaggi che circondano il gruppo della Visitazione del Pontormo.” In poche righe, troviamo raccolti tutti gli elementi primari dell’ékhprasis, come la terna di aggettivi (improvvisa, popolare, grottesca) ; la similitudine (come un muro incombente) e la cadenza da prosa poetica (una guizzante fiammella di bizzarria/ traluce/ dagli occhi pungenti/ dei personaggi). Proprio alle Deposizioni di Rosso e Pontormo sono dedicate alcune delle pagine più alte de La maniera italiana. Le descrizioni delle due pale d’altare mostrano la scrittura brigantiana al suo grado più intenso di letterarietà e confermano definitivamente, pur nell’ originalità di risultati,la sua appartenenza alla “maniera” della scrittura d’arte italiana, e non solo longhiana. Vale, quindi,la pena leggerle per intero, a partire da: “quella sconcertante formidabile Deposizione” del Pontormo in Santa Trinita a Firenze: “Non so qual richiamo non dico allo spirito della Riforma ma ad ogni sorta di sentimento religioso possa recuperarsi in un siffatto dipinto che rivela piuttosto come un doloroso languore per forme di un’estenuata bellezza in quel lento annodarsi di corpi che scivolano insensibilmente sulla spirale della prospettiva nella rarefatta atmosfera contro il cielo di pietra dura. I volti attoniti, sofferenti, in apparenza commento tradizionale del dramma sacro della Deposizione, esprimono una tristezza così disperata e languente che non può dirsi certo cristiano dolore: una tonalità sottile e nuovissima di sentimento, così come nuova e sottile è la tonalità dei colori chiarissimi e acerbi, colori d’erba spremuta e di succhi di fiori primaverili; pervinche, rose, violette, giallo di polline, verde di chiari steli.” Non meno vertiginosa per invenzione metaforica e analogica è la restituzione delle forme e della tavolozza di Rosso: “Ma il passo definitivo verso l’indipendenza più rischiosa ed estrema […] il Rosso lo compie nel ’21, quando dipinge la grande Deposizione per Volterra, senza dubbio il suo capolavoro. […] Difatti il metodo di Andrea del Sarto che col chiaroscuro ‘gradina’  la forma nel progressivo e razionale sfaccettarsi dei piani è ora condotto dal Rosso a una sorta di violentazione cubista, ad una ossessione di angoli, di spigoli, di scheggiature che riducono le figure a sigle essenziali, a disumane parvenze cristalline  rivestendole tuttavia di colori allegri e acerbi , accesi riflessi di rubini, di topazi, di smeraldi sotto un cielo levigato e pesante come un incubo di ardesia azzurra.”

Lo si sente ripetere spesso: questo libro l’avrei voluto scrivere io. Diciamocelo pure: quale lettore non coltiva in silenzio, davanti a se stesso, questa velleità? Inizia e finisce sempre così: a un certo punto si stilano liste ascetiche come il diario di un anacoreta; tre, quattro titoli al massimo, tenuti a distanza sulla scrivania, immersi per metà nell’ombra, venerati, temuti e adorati come idoli. Ognuno ha i suoi. A me è capitato studiando l’opera di  Longhi e Francesco Arcangeli, di Giuliano Briganti e di Carlo Ludovico Ragghianti. Certo, non avrei mai scritto quel centinaio di pagine folgoranti su Morandi né l’ariosa monografia dedicata al calibrato e pausato vedutismo di Gaspar Van Wittel; né l’esuberante affresco a volo di falco sull’opera di Pietro da Cortona; e, forse, nemmeno il saggio sull’inconscio notturno dei cosiddetti “pittori dell’immaginario“, questo territorio lampeggiante di indicibile fascino. Né avrei mai scritto quel manipolo di incredibili pensieri visivi su Tono Zancanaro. Di Briganti, però, avrei voluto scrivere queste sessanta pagine del 1961 sul manierismo. Queste sì. E ogni volta che, come in questo articolo, ne ripercorro palmo a palmo il piccolo spazio, in ogni punto del testo io mi trovi vorrei che fosse la mia penna ad aver disegnato quei giri di frasi nati per essere, da subito, diamanti. Vorrei che l’abilità di saperle raccogliere in unità e in sfumature linguistiche sempre più sottili e profonde fosse la mia. E vorrei anch’io saper sospingere una materia così complessa verso calibrati giudizi sull’epoca storica e sulle personalità, senza gli ingolfi vuoti della retorica, sbrigliando il dettato in righe e righe condotte senza inciampi di punteggiatura. Ma non avrei voluto scrivere La maniera italiana solo per il metodo e la prosa. Quelle sessanta pagine le avrei scritte così, e in nessun altro modo, solo per far “parlare” la “lingua” delle opere come riesce a fare Briganti: senza allontanarsi di un millimetro dal loro centro; dritto al loro cuore geometrico con la finezza e l’acutezza di sguardo di un maestro orologiaio, il quale sa sempre, in ogni punto egli si trovi, dove mettere le mani.

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