30 novembre 2018

"Nella colonia penale” di Franz Kafka



di  Gianni Quilici

   L’impressione finale: trovarmi di fronte ad un racconto perfetto.

Uno scenario desolante: “una piccola valle, profonda, sabbiosa, isolata da ogni parte da piccoli pendii scoscesi e brulli”.
Uno strumento di tortura tanto atroce quanto descritto appassionatamente da uno dei protagonisti.
Tre (quattro) personaggi: realistici e al tempo stesso simbolici.

L’ufficiale: il carnefice, incarnazione zelante  di una (in)giustizia totalitaria, che appare, tuttavia, in crisi nella sua inconsapevole spietatezza.
Il condannato: “ mezzo inebetito come un cane sottomesso, che si poteva lasciar libero e che bastava chiamarlo con un fischio perché accorresse”,  che deve pagare la colpa, senza alcuna possibile difesa.
L’esploratore: il giudice di fatto (senza volerlo assolutamente essere), tuttavia impotente.

Nello sviluppo del racconto non c’è  separazione tra la dinamica psicologica che i personaggi, nella loro interazione, esprimono e il significato emblematico che essi rappresentano, senza che ciò diventi ideologia ossificata.
Kafka riesce, infatti, a creare una sorta di thriller dialettico di notevole spessore simbolico, in cui i ruoli iniziali dei tre protagonisti si capovolgono o comunque mutano, senza che niente cambi.

L’ufficiale è  la spietatezza, che ha profondamente  introiettato dal precedente comandante, di cui magnifica l’invenzione della macchina di tortura, e “l’ordinamento di tutta la colonia praticamente perfetta”. Si sente, infatti, innocentemente giusto nel ruolo di torturatore efferato. Quando intuisce che ormai è sconfitto e con lui quel mondo con il quale si è identificato, rivolge contro se stesso il diabolico strumento.

Il condannato (e con lui il soldato) è la vittima che potrebbe, allo stesso modo, diventare carnefice  o comunque complice, considerando quanto sia privo di sentimento nei confronti di ciò che sta succedendo.

L’esploratore è la coscienza, lo sguardo morale. Quasi sempre silenzioso, apparentemente distante, quando parla le sue sono parole nette di condanna. E inoltre, a differenza del condannato e del soldato, prova compassione per la morte atroce a cui l’ufficiale si sottopone.

La grandezza di Kafka risalta non soltanto nella normalità con cui disegna questa ferocia, ma anche perché non giudica, lascia immaginare.
Il racconto finisce, infatti con l’esploratore che se ne va quasi fuggendo. Fugge da cosa? Da una “colonia penale”, che muterà senza mutare. Mentre se ne va incontra i “lavoratori del porto, uomini forti, gente povera, umiliata”, ‘non un’alternativa si potrebbe pensare, mentre invece incombe l’ombra del vecchio comandante.
E dove va? Non lo sappiamo, sappiamo soltanto che impedisce al soldato e al condannato di saltare dentro la barca,  da dove si sta allontanando, minacciandoli con una pesante gomena piena di nodi. Se ne va via solo senza che sappiamo  cosa ci sia oltre.

Franz Kafka. Tutti i racconti. Traduzione di Rodolfo Paoli. Mondadori

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