09 marzo 2020

"Anche i Pisani sono esseri umani" di Luciano Luciani (Nona puntata)




nono appuntamento con la memoria autobiografica
di un Autore sconosciuto ai più

Pisa. La Casa del Popolo “Antonio Gramsci” - La Cella.
Dal Centro di Formazione Professionale Enaip di Pontedera, dunque, mai una gioia, anzi non pochi i motivi di insoddisfazione e frustrazione. Dai quali mi rifacevo con la sempre più intensa frequentazione del Circolo Arci “Antonio Gramsci” - La Cella e della sezione del Partito comunista ospitata nei suoi locali. Una Casa del Popolo come ce n'erano tante nella civile Toscana del secolo scorso, serrata tra il bacino dell'Arno e la Tosco-Romagnola, segmento breve e più alto di un lungo filare di casette basse e scialbate in giallino. Nel buiore di una strada stretta e tutte curve che portava a Riglione, Cascina, Fornacette e Pontedera, ne indicava l'esistenza un grande neon luminoso, dove accanto alle lettere dell'insegna spiccava il simbolo del Pci: una bandierina tricolore e una rossa appaiate, con un più ampio spazio concesso alla rossa, naturalmente, e tanto di falce e martello. Tre gradini da salire, una porta a vetri cigolante e si entrava nel più importante spazio di aggregazione civile, politica, culturale e umana di quell'area a sud-est di Pisa, dimenticata da Dio e anche dagli uomini che pure, con non poca fatica, si adoperavano per amministrare la città della Torre pendente. Alcuni tavolini, quasi tutti claudicanti, accerchiati da sedie da bar e in fondo a sinistra il bancone del ”dispensiere”: termine diffuso in tutto il Pisano per indicare colui che amministrava la dispensa, preparava e distribuiva - dispensava - caffè e soprattutto ponci, plurale di ponce, adattamento pisano-livornese dall'inglese punch (bevanda). Ovvero caffè corretti al rum con scorza di limone, alla livornese; oppure al sassolino, o anche al mandarino, senza dimenticare il cognac o la sambuca... A lui. al dispensiere, non si chiedevano cocktail particolarmente elaborati o raffinatezze alcoliche, ma correzioni robuste a un prezzo contenuto, oggetto di solito di aspre discussioni in sede di Comitato Direttivo della Casa del Popolo. Era lui a gestire la macchina per il caffè sistemata a destra del piano d'appoggio, i cui vapori, durante la stagione invernale, contribuivano anche ad alzare un po' la temperatura piuttosto rigida di un ambiente mal riscaldato. Dietro un grande specchio appannato rimandava a fatica le immagini dei frequentatori, complicate da un articolato sistema di scaffali di vetro su cui erano ben esposte le bottiglie del tesoretto alcolico del Circolo: amari e grappe, cognac e brandy, sambuche e, per i più cosmopoliti, una sola marca di vodka e un paio di tipi di whisky. Qui, per tutto il tempo della mia frequentazione del Circolo, stazionarono  bottiglie di strane sopravvivenze spiritose; liquidi desueti come il Marsala, liscio o all'uovo, e il Vov, un ignobile intruglio di zabajone liquoroso, che ricordavo di aver annusato, spacciato come “corroborante”, nelle non rare occasioni in cui ero apparso deperito agli occhi dei miei sempre ansiosi genitori. E per non bere a sciacquabudella venivano in soccorso piccole confezioni di noccioline americane, di “seme” (i romanissimi bruscolini), di nocciole, di caramelle, liquerizie, gomme da masticare, tavolette di cioccolato, qualche polveroso pacchetto di biscotti dall'aria vetusta. In un angolo un grande surgelatore, in funzione solo durante l'estate, prometteva di contribuire a stemperare la calura dei giorni d'estate con i suoi prodotti  rigorosamente “Sammontana gelati all'italiana”: cremini e ghiaccioli, coppette e semifreddi.

“Noi, 'un ci si 'apisce nulla”
Una scala collegava il piano terra col primo e un ambiente più vasto deputato alle assemblee dell'Arci  o del Pci, ai congressi di sezione, alle (rare) proiezioni. Certo, non era la Sala Nervi: trenta/quaranta sedie di plastica, un tavolo in fondo per la presidenza, sul lato opposto collocato su un trespolo aggettante un televisore. In un andito nascosto una stanzetta arredata con armadi di metallo con i registri dell'amministrazione e i cedolini delle tessere, croce e delizia di ogni serio dirigente comunista con l'assillo perenne del 100 per 100 nel tesseramento. Appoggiate a un angolo le bandiere da sventolare durante le manifestazioni: quella del Pci, dell'Arci e su alcuni scaffali le raccolte degli ultimi anni di “Rinascita”, a cui Circolo e Sezione erano abbonati, ma che nessuno leggeva perché reputate rivista di difficile lettura. Malinconicamente si ammucchiavano settimana dopo settimana. “Vedi tu” mi esortava il compagno Romano Mussi del Direttivo “se c'è qualcosa che t'interessa prendila pure. Noi” concludeva tra il frustrato e il compiaciuto “' 'un ci si 'apisce nulla”. Andava meglio con “Giorni-Vie Nuove”, che trattava anche temi sportivi e non disdegnava ogni tanto qualche fotografia di belle ragazze. Qualche copia ne circolava sui tavoli del bar e non pochi compagni la sfogliavano e qualcuno ne commentava anche ad alta voce gli argomenti. Era il  modesto, ma non banale, tentativo dei comunisti per confrontarsi con una cultura di massa in larga espansione: inadeguato, certo, ma interessante per per i temi trattati (il femminismo, la condizione giovanile e il '68, il cinema, la televisione, il dissenso nei Paesi socialisti, il mondo della canzone, lo sport, la moda...) con i quali “Giorni - Vie Nuove”, diretto da Davide Lajolo, giornalista di razza e vigoroso scrittore, si adoperava per mettere in relazione i comunisti, gli elettori del Pci e i simpatizzanti con un paese reale in ribollente trasformazione nei comportamenti e nella mentalità. Agli abbonati, poi, venivano dati in regalo libri di qualche pregio per i contenuti e come prodotto editoriale. Uno di questi, La storia degli italiani di Giuliano Procacci, ottenuto con la solita procedura di delegarne la lettura agli “intellettuali”, onora ancora oggi gli scaffali della mia libreria.

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