09 maggio 2020

“Lettere di giovinezza ad un’amica inventata” di Antoine De Saint-Exupery


di Gianni Quilici

Primo: sono lettere di Antoine De Saint-Exupery ( pilota-scrittore, autore de Il piccolo principe”) e sono inviate ad un’amica ipotetica, Rinette, inventata, a cui si rivolge con disilluso affetto,  mai idealizzandola. Anzi.

Secondo: sono lettere di giovinezza, non tanto anagraficamente, quanto psicologicamente, di chi fa vivere  la giovinezza. Ed è appunto la giovinezza che queste lettere suggeriscono nella loro candida e audace, solitaria e angosciosa, disarmante e sognante e utopica vitalità. 

Ad una lettura superficiale, infatti, possono sembrare un banale sfogo adolescenziale.
C’è al contrario un ininterrotto flusso: frammentario, sconnesso, contraddittorio, che si fa sovente racconto visivo, riflessione amara e pungente, critica e autocritica .

C’è l’intellettuale sottile quando sul trionfo del Bell’Eusebio scrive:
Non si deve imparare a scrivere ma a vedere. Scrivere è una conseguenza. Lui invece prende un oggetto e cerca di abbellirlo. Le parole diventano strati di pittura. Anziché liberare l’essenza, lui aggiunge ornamenti arbitrari
O ancora quando parla della differenza tra Pirandello e Ibsen.
Ibsen, scrive “ha cercato di fornirci un nutrimento e non un nuovo gioco della tombole” Pirandello “che è forse un grande uomo di teatro, ma che è stato creato e inviato sulla terra per distrarre la buona società, per permetterle  di giocare con la metafisica come giocava già con la politica, le idee generali e di drammi dell’adulterio”.  Condivisibile o meno, lo motiva  successivamente,  è comunque questo un giudizio interessante e ricorda ciò che scrisse Gramsci, quando considerava l’importanza di Pirandello più sul piano della sprovincializzazione della società che della creazione artistica.

C’è lo sguardo su se stesso, quando, dopo una lunga tirata,  osserva, quasi sorpreso:
Ho l’impressione di essere ridicolo. Mi fermo
E ancora più feroce un’autocritica:
Scrivo una lettera piano piano, per risvegliare, senza crederci troppo. Forse scrivo a me stesso”.
Sono monologhi, senza risposte, se non finte. Si percepisce, però, nello scrittore sempre la presenza immaginativa di lei.

C’è amarezza e stanchezza fino alla dissociazione e un briciolo di ironia come in questa splendida chiusa:
“Rinette, sono ubriaco di sonno, muoio di sonno, cado dal sonno. Ogni frase che dico sfuma in sonno e a lei non arriva che una faccia. E mi dispero di non ricondurre alla superficie niente di ciò che credo di dirle. Non sono più sicuro di essere a Casablanca. Non sono più sicuro della sua esistenza. Mi lasci andare a coricarmi o mi addormento davanti a lei e non sarebbe educato.
Rinette non ne posso più. Sono stato eroico a scriverle.

Ci sono infine  pagine narrative esemplari. La più penetrante è forse questa.
Ho avuto la certezza di morire come mai prima, neanche il giorno della caduta. Ridiscendevo di tre miglia quando ho sentito un colpo – ho pensato a un’avaria – e l’aereo ha cominciato progressivamente a non rispondere. Verso le due miglia avevo tutti i comandi spinti al massimo, più nessuna latitudine. Ho giudicato l’avvitamento talmente certo che con la stilo ho scritto sul quadrante in modo visibile “Avaria. Cercare.  Impossibile evitare caduta”. Non volevo essere accusato di aver perduto la vita per imprudenza, l’idea mi irritava. Ho guardato con una specie di stupore i campi sui quali stavo per abbattermi. Era qualcosa di nuovo per me. Mi sentivo sbiancare, irrigidire per la paura. Una paura senza fondo ma non ripugnante. Una co gnizione nuova, indefinibile.
Non si trattava di lesioni e ho potuto tenere fino a terra. Ma non l’ho creduto per un solo secondo. Quando sono saltato giù dall’aereo non ho detto niente. Ero sprezzante di tutto e pensavo che nessuno mi avrebbe mai capito. Almeno nell’essenziale. In quale mondo ero entrato con la frode. Un mondo dal quale non capita spesso di ritornare e descriverlo. E poi l’impotenza delle parole, come raccontare quei campi, quel sole calmo. Come dire “io ho capito i campi, il sole…”. Eppure è così. Per qualche secondo ho sentito nella sua pienezza la calma sfolgorante di quella giornata. Una giornata solidamente costruita come una casa nella quale mi sentivo a mio agio, dove stavo bene e dalla quale stavo per essere espulso. Una giornata con il suo sole mattutino, il suo cielo alto e questa terra dove si tessevano tranquillamente dei solchi sottili. Che dolce mestiere
Un flusso veloce di fatti e di pensieri: il guasto dell’aereo, l’irritazione e la necessità di lasciare un messaggio ‘non è stata imprudenza’, lo stupore della vita sotto di lui, la paura della morte, indefinibile,  la vita e l’impossibilità di raccontare questa giornata nel suo presente, come miracolo. In sintesi: la vita che viene assaporata nella sua bellezza stupefacente dopo una velocissima quanto profonda percezione della morte.   
Il finale della lettera  è forse ancora più poetico: la gratitudine verso gli spazzini e i vigili che incontra per strada, il desiderio di essere capito da lei, la solitudine di questo pensiero,  e inoltre più nulla: ne’ piacere, ne’ noia, ne’ pensiero se non il desiderio di stendersi e leggere Nietzsche “il mio cuore dove si consuma la mia estate, quest’estate corta, calda, malinconica e felice…” finendo con  Vorrei che condividesse questa passione con me ma lei non condivide granché”, un desiderio e la sua disillusione.

Antoine De Saint-Exupéry. Lettere di giovinezza all’amica inventata. Lettres de jeunesse  à l’amie inventée. Traduzione di Maria Cristina Marinelli. Il sole. Pag. 77.

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