26 luglio 2012

“Commedia nell’italia contemporanea” di Ilaria A. De Pascalis


di Mimmo Mastrangelo
COMMEDIA

Non è che in tempi precedenti le cose stessero diversamente, tuttavia secondo studi è accertato che negli ultimi vent’anni la commedia è il genere cinematografico che in Italia – nel conciliarsi con il desiderio di intrattenimento del pubblico – ha visto assicurarsi il primato delle produzioni e al box-office.

Nel suo piccolo saggio “Commedia nell’Italia contemporanea”, di recente uscita per l’editrice Il Castoro, Ilaria A. De Pascalis spiega che il genere, oltre a mantenere una connotazione nazional-popolare  per eccellenza, “ibrida tutti gli altri”  e riesce ad essere largamente rappresentativo degli stili di vita della contemporaneità.

Nel delineare un  profilo della commedia italiana,  De Pascalis più volte ritorna sulle sue molteplici articolazioni e sulla vocazione di molte commedie  ad investigare e cogliere  i tratti dell’ identità nazionale. E proprio sul tema dell’ identità (della nuova commedia italiana) che scorre la prima parte del libro, mentre le pagine della seconda si rivolgono all’  analisi di otto film.

Oltre alla lettura di Mediterraneo (1991) di Gabriele Salvatores, “Tano da Morire” (1997) di Roberta Torre e “Chiedimi se sono felice” di Aldo, Giovanni e Giacomo ci sembra  di particolare interesse  quella  dedicata  dalla De Pascalis a “Basilicata coast to coast” (2009). Sul film di Rocco Papaleo è stato scritto e detto di tutto, ma bisogna soffermarsi sull’opera della De Pascalis, in particolare   quando si afferma che  il paesaggio  costituisce il baricentro,  la centralità della pellicola.

Infatti  le sequenze “giocano molto sul rapporto  tra lo scenario paesaggistico, legato ad una serie di rimandi pittorici, e la collocazione dei protagonisti in uno spazio con cui hanno un rapporto conflittuale, fra appartenenza e rifiuto”. Inoltre i toni leggeri della storia, l’uso della parodia, i tratti pittoreschi agevolano il compito del regista ed attore lucano nel portare sul set elementi della tradizione locale che vogliono “la Basilicata terra di briganti, miseria e natura incontaminata”.

Infine, ci appare pertinente    l’intuito della docente dell’Università di Cassino di collegare “Basilicata coast to coast” alla tesi  di Martin Lefebre, secondo il quale in un certo cinema si deve fare la  distinzione   fra setting, paesaggio e territorio. Il setting inteso  come il posto in cui si svolge la trama; il paesaggio riguarda la rappresentazione estetica di un ambiente a cui vien data una particolare rilevanza filmica, mentre nel territorio si può cogliere  “uno spazio visto dall’interno” attinente ad un precipuo “rapporto di appartenenza”. Dunque setting, paesaggio e territorio sono i tre  registri, che più degli altri,  possono aiutarci a leggere la dialettica tra sguardo e natura, cultura e ambiente  su cui  Rocco Papaleo ha incentrato la sua opera prima.

ILARIA A. DE PASCALIS. “COMMEDIA NELL’ITALIA CONTEMPORANEA”  . EDITRICE IL CASTORO  EURO 15,50  PAG 171.

21 luglio 2012

"Amori" di Alina Reyes



di Gianni Quilici

 Alina Reyes è una scrittrice dichiaratamente erotica. Questo, a volte, è il suo pregio; questo soprattutto è il suo limite. In questo smilzo libro di poco più di 50 pagine, caratterizzato da 69 sequenze numerate una per una, la Reyes non racconta una storia, descrive delle situazioni, collegate dal piacere erotico-sessuale.

In lei l’erotismo diventa una filosofia assoluta, che assorbe ogni altra dimensione; una filosofia idealizzata che sembra nascere spesso più che da una necessità espressiva dal desiderio di stupire e, forse, in ultima analisi, di vendere.

Non che non ci siano sequenze, che, oltre ad andare al di là della banalità, comunichino, a volte, una verità poetica.

 Ne trascrivo una:
“Dopo che lui mi ebbe baciata e palpeggiata per due giorni, gli dissi “voglio fare l’amore”. E lui mi diede appuntamento nel bosco, lontano da tutto. C’era soltanto un pezzo di stoffa tra il suolo e noi. Ci spogliammo e io partii alla scoperta di tutto il suo corpo, lo toccai dappertutto e sentii contemporaneamente il cielo dove picchiava il sole di mezzogiorno, gli alberi stillanti resina, la terra sabbiosa coperta di aghi di pino caldi e crepitanti.
Nessuno era mai entrato nel mio corpo. Avevo scelto lui come coltello sacrificale. Persi sangue, sentii dolore, lui godette. Sono stata terribilmente felice, ma non ci sono parole per descrivere una simile gioia, quella della nuova libertà”

Ma più sovente la sua scrittura diventa meccanica, “adorante” e l’istantanea che lei coglie non ha ne’ un presente vivo, ne’ un passato che ci comunichi condizioni o pensieri che ci permettano di partecipare intimamente. Diventano parole che si perdono.  

Alina Reyes. Amori. Diario di Rrosa. Le carnet de Rrose, traduzione di Francesco Bruno. TEA.



18 luglio 2012

"Ausmerzen. Vite indegne di essere vissute" di Marco Paolini


di Cosima Di Tommaso
Ho appena finito di leggere l’ultimo libro di Marco Paolini, Ausmerzen, (Vite indegne di essere vissute), Einaudi, 2012, tutto d’un fiato, non si può non farlo e, nell’ultimo respiro con il libro in mano, ho pianto, Dio mio se ho pianto. 
Marco Paolini, qui narratore, porge al lettore la storia di uno sterminio di massa, ignoto ai più, di cui si parla solo – in certi convegni di psichiatria. Si tratta di Aktion T4, ovvero, ben trecentomila esseri umani, sistematicamente uccisi, ritenuti geneticamente inaccettabili, sposando i principi dell’eugenetica. Si tratta di zingari, disabili mentali e non. Il libro apre uno squarcio imprescindibile e angosciante, su eugenetica, scienza ed etica, e sulle politiche del potere che le usano in modo bieco. Marco Paolini è un narratore appassionato e indignato, che incontra o dovrebbe incontrare, la coscienza di ognuno di noi.
E’ sconvolgente apprendere che la scienza, o certa ricerca scientifica, possa usare e prestare il fianco a quello che io chiamo, ‘’lato oscuro’’ nell’uomo (paura, ignoranza), al punto che diventa quasi un fatto normale, in nome di una non ben specificata, salute degli altri individui.
Ciò che fa ancora più male è che ‘’ci stiamo abituando’’, eppure è passato tanto tempo da allora. Ma non è solo questo il punto: ad aver paura del ‘’diverso’’, che sia immigrato o disabile e, in nome di una crisi imperante, che taglia tutti i costi a tutti i costi, si è disposti a giustificare che essi siano, dopotutto, ‘’vite indegne di essere vissute’’, tutt’altro che portatrici di diritti.
Il racconto di Marco Paolini, s’incontra con quello di Mario e diventa un urlo di civiltà, alla civiltà dell’uomo contemporaneo. E’ fin troppo facile condannare il passato, ma qui c’è da salvaguardare prima di tutto un presente e un futuro. Tanto importanti sono il mestiere dell’insegnante di sostegno, del professore, dell’operatore di strada che, come giustamente ritiene Luigi Ciotti, apra a ‘’…l’idea che il futuro sia una cultura dell’integrazione che si fa cultura dell’interazione.’’ Quanto è fondamentale oggi, più che mai, l’azione educativa!
Quanto è fondamentale oggi, ribellarsi alla subdola comunicazione strisciante, propinata dai ‘’persuasori occulti’’ e manipolano il sentire comune. Davvero un ottimo libro, d’impegno etico e civile che ìncita l’uomo di oggi, a svegliarsi, alzare la testa e ad agire, per ‘’…rendere normale domani quel che ieri era impossibile’’. Limpida, scorrevole, scattante la prosa, tipica di un linguaggio ‘’parlato’’, meglio, ‘’sentito’’ in sé, prima di essere portato in scena.


Marco Paolini. Ausmerzen. Vite indegne di essere vissute. Einaudi, 2012.

 

17 luglio 2012

"Intervista a Luca Gaddini" di Mira Giromini






A Pietrasanta nella Sala Grasce, accanto alla Chiesa di Sant’Agostino, dal 6 al 18 luglio 2012, è stata allestita, grazie al patrocinio del Comune di Pietrasanta, il Centro Culturale "Luigi Russo" (www.museodeibozzetti.it) e del Centro Arti Visive(www.cavpietrasanta.it)  una mostra contemporanea di videoarte. 
L'artista è Luca Gaddini e fa parte di una cerchia di giovani talenti della gallerianumero38 di Lucca.

Entrando nella mostra il primo effetto è quello di vedere un insieme di quadri monocromi; solo successivamente ci si accorge, nella penombra della sala, che le tele svelano alcuni volti, in particolare femminili, che non sono proiettati né tanto meno dipinti; i volti si muovono attraverso una nuova tecnologia che unisce la tradizionale tela con i montaggi-video e la fotografia (fotogrammi) e ha come risultato un’espressione virtuale e pittorica insieme, che Luca Gaddini definisce Sindonext .

Cosa significa Sindonext e quando nasce?
Sindonex è l’insieme di due parole: la prima è Sindone, sinonimo di Sacra Sindone, indica quel tessuto in cui l’ immagine di Gesù (in particolare il volto) viene, attraverso la luce, impressa sul telo di lino in modo molto tenue; la seconda parola è next che sta a significare nuovo e prende in considerazione non solo i miei lavori su tela ma anche quelli su nylon nero da spazzatura. L’effetto che voglio creare con le mie opere è lo stesso di quello creato dalla Sindone; non si tratta di un vero e proprio video quanto di una “traccia cristallizzata”di volti sulle tele.
Il progetto nasce anni fa ma è stato messo in pratica circa tre anni fa; grazie ai progressi della tecnologia; avevo infatti già fatto delle prove con delle tele, dei veli e i video ma l’uso dei cristalli liquidi al LED, molto fini e la tecnologia sono stati determinati ed hanno permesso di mettere in pratica la mia forma artistica e creativa.
Una lettura che ho fatto successivamente a Sindonext ma che si inserisce nelle mie ricerche contemporanee è stata Punto Omega di Don DeLillo (2010). Il romanzo si apre con un installazione di Gordon Douglas, famoso videoartista, che ha allungato e dilatato con il sistema dello slow-motion la proiezione del celebre thriller di Hitchcock, Psycho. La proiezione è talmente rallentata che dura un’intera giornata (24 ore) e il nuovo film si intitola appunto 24 Hours Psycho (1993). Pochi istanti durano minuti interi: vi sono infatti dei pezzi del film che inevitabilmente perdi; piccole espressioni che normalmente perdi (battito di ciglia, muscoli facciali che si muovono) e che rallentati diventano una cosa altra, un altro film, un’altra storia, “una rivelazione”.

Sindone è il lenzuolo di lino con cui si avvolgono i morti; la sua operazione artistica ha un che di funereo e nostalgico mentre altre volte è inquietante; ci può spiegare meglio?
Si, immagini inquietanti quasi fantasmi; ogni persona ha una parte inquietante e una parte dolcissima dentro di sé, specialmente i volti femminili hanno cambiamenti di umore e diversi sguardi. Considera che per certi collezionisti le mie opere si rivelano delle vere e proprie presenze in casa; a volte fanno persino paura. Non posso dirti cosa voglio fare, non conosco l’esito finale del video che riprendo: vedo un soggetto interessate che può trasmettere qualcosa ma il risultato è assolutamente casuale; quando dopo un’ora di video del volto vado a rallentare emergono delle immagini che io percepisco e scelgo; il mezzo è oggettivo mentre la scelta rimane personale. Io devo farmi prendere dalle immagini, devo innamorarmi delle immagini che vedo e poi penso che devono trasmettere qualche cosa a chi le vedrà, anche se principalmente trasmettono a me, voglio creare una magia finale che si chiude con lo spettatore.
Dopo la ripresa di un’ora o mezz’ora sul viso del soggetto; prendo il video e lo allungo, lo stiro e dalla mezz’ora che era, il video diventa di quattro ore; prendo le parti che più mi piacciono, lo monto, rallento mentre alcune volte faccio uno stacco; è’ come se riuscissi a “dilatare il tempo” e cogliere espressioni nascoste e non visibili a occhio nudo.
Come fanno i registi, mi piace stare al di là della telecamera, faccio il film, la regia e non mi confondo mai con gli attori. La mia deve essere una ricerca oggettiva. Ho cercato delle espressioni costruite che potessero suscitare interesse (donna truccate vistosamente, donna che lecca il vetro, espressioni sataniche) ma quelle che hanno maggior risultato sono i filmati spontanei e naturali, dal quale emergono espressioni straordinarie; è come se attraverso una macchina del tempo potessi scavare un inconscio e farlo emergere.

Quando ho visto i volti ho pensato alle recenti ricerche dell’antropologo Ekman che afferma che le espressioni facciali e le emozioni umane non sono determinate dalla cultura di un posto o dalle tradizioni ma sono universali e uguali per tutti in tutto il mondo. Sofferenza, rabbia, gioia e paura sono emozioni universali che attraverso le espressioni facciali comunichiamo come tali.
E tante volte comunichiamo inconsciamente. Attraverso le microespressioni facciali che tu fai ci sono macchine che riescono a rivelare se dici la verità o una bugia.
I miei sono ritratti, filtrati attraverso la mia scelta e la mia mente; ho creato un nuovo media per poter comunicare; non parlo assolutamente di me, ma faccio parlare Sindonext; io voglio rimanere esterno, manipolo le immagini in maniera quasi scientifica, sono un manipolatore di immagini, mi sento più un ricercatore che un artista che vuole esprimere qualcosa; la mia è una ricerca fine a se stessa.
La percezione è quello che deve venire fuori da Sindonext voglio che si intraveda che sia un viso, perché dietro a un viso c’è una testa, un pensiero, uno sguardo, un’espressione e un’emozione.

Questa sua affascinante forma artistica si basa su una tecnica, ci rivela il segreto?
Il concetto da cui si deve partire è “l’elaborazione mentale” del video; il mio lavoro parte dal disturbo e dalla visione attraverso la telecamera in movimento, i miei quadri sono video anche di 40 minuti l’uno che dovrebbero essere proiettati. Io comincio con delle immagini riprese su sfondo nero, poi isolo completamente il viso del soggetto o della modella dal contesto. Da tale video ci lavoro anche un mese: distorgo, rallento i movimenti, allargo il video o lo ristringo; faccio una serie di montaggi in successione che possono durare anche molto tempo. Da una ripresa di un’ora, ma potrebbe essere anche di dieci minuti io riesco a prendere alcune parti che mi interessano, alcune “smorfie” che sono quelle che non si vedono normalmente.
Bisogna pensare che ogni persona quando parla fa dei movimenti strani con degli sguardi strani: in una mezz’ora la persona fa delle espressione inconsapevoli, di cui non si rende neppure conto. Rallentando il video, attraverso il sistema dello slow-motion, la mezz’ora di video diventa tre ore, la lentezza arriva al fotogramma; il video è rallentatissimo. In quel momento lì vado a dividere il video in vari fotogrammi e scelgo i pezzi più espressivi. E’cose se scavassi nell’inconscio del soggetto ripreso. Rallentare il video significa che un video di un’ora viene allungato e dilatato. Quando ti riprendo, ti vedi in un contesto diverso, con uno sfondo nero, ti concentri su te stesso sui tuoi movimenti, è come in una ripresa teatrale con una luce bassa;la ripresa è curata in studio con delle facce o pose studiate; in altri casi si parla in maniera spontanea. Da questa ripresa io vado a estrapolare quello che più mi interessa. Viene fuori un video al limite del visibile; in alcuni punti velocizzo, in altri rallento o do degli stop-motional: dono nuova vita al video; gli creo una nuova identità; ci sono persone che ho ripreso e non si riconoscono in Sindonext.

Quale è il ruolo dello spettatore di fronte alle sue tele?
Attivo. Lo spettatore deve partecipare. Si tratta di un’istallazione non solo di un video, si tratta di un’installazione che comprende vari media: mix-media-installation. Tale tipo di installazione comprende anche la complicità dello spettatore che deve essere partecipe. Le reazioni degli spettatori sono le più svariate, alcuni rifiutano di vedere a lungo: vengono e vanno via. La luce bassa è un effetto di disturbo visivo, per cui l’immagine risulta rarefatta, si deve vedere male, l’immagine deve essere solo una “traccia” per il resto deve lavorare lo spettatore con l’immaginazione. La percezione deve lavorare al massimo.

Quanto siamo sicuri di percepire quello che vediamo? quanto tempo dedichiamo veramente ad una mostra di videoarte?
Ognuno scopre e percepisce qualcosa di diverso, ognuno vede se stesso; si mette di fronte ai propri limiti. Nelle mostre che faccio, a parte pochi interessati, la maggior parte di chi guarda, guarda l’insieme, che ha un effetto pittorico, sembrano quasi velature su tela; la mostra viene però fruita all’1X1000 delle potenzialità che ci sono davvero.

Si può dire che c’è un significato altro dietro i suoi video nelle sue mostre?
La mia arte mostra l’invisibile: il video utilizza una accumulazione di segni e comprende una molteplicità di informazioni e comunicazioni. Oltre alle forme rappresentate, si tratta di osservare ciò che è sotto agli occhi ma che è difficile riconoscere.
Se consideriamo che nel cinema ci sono 24 fotogrammi al secondo, in una ripresa di un secondo faccio 24 foto; puoi immaginare quante sono le fotografie in un film. In un ora devo moltiplicare 60X24X60; poi prendo in visione un fotogramma alla volta ( se rallentato troppo il fotogramma rischia di rivelarsi scalettato e disturbato).
Tante comunicazioni non si percepiscono: immagino ai quadri del passato con un dietro non visibile, una specie di doppio quadro, Sindonex è un doppio quadro, è visibile ma lo spettatore non riesce a vedere tutto, è disattento, c’è una comunicazione che se uno fa attenzione e riesce ad entrare in sintonia, scopre. La maggior parte della gente è distratta e va bene così, se volevo dare una comunicazione diretta davo un video da guardare in una stanza buia. Inserire un video distorto, trasfigurato e rallentato in una stanza mal illuminata ti impedisce di vedere l’opera ma ti aiuta a percepirla: è come se la negazione della visione favorisse la vera percezione; come un cieco che sviluppa altri sensi, l’alta tecnologia è un meccanismo di approfondimento dei sensi che permette di vedere oltre il piano della realtà. Siamo abituati a stravedere, la pubblicità, per esempio deve arrivare subito alla mente e al cuore della gente attraverso un linguaggio patinato e ben visibile; non è così per l’artista che deve mirare ad un linguaggio altro.
La mia arte è un linguaggio da non confondere con quello dei mass-media; la mia arte ti costringe a fermarti, richiede ad un pubblico sempre più distratto di fermarsi e guardare oltre.
Come in una galleria buia, una volta dentro nel momento in cui ne stai per uscire intravedi l’architettura, anche se è sempre tutto buio, il passaggio dal buio alla luce e viceversa, induce ad un’osservazione più profonda.

Vi sono molti volti e ritratti nelle sue opere, ha pensato anche ad autoritratto?
Si, ho provato a farmi un autoritratto, ero solo con la telecamera davanti a me; ho scartato l’idea anche se comunque prima o poi, senza alcuna priorità, voglio riprovare.

C’è ancora qualcosa che dovrei sapere delle sue ricerche?
C’è un film, dal titolo Fino alla fine del mondo (film di Wim Wenders, 1992) che è stato per me un film di grande ispirazione, assai innovativo; il protagonista riesce a costruire un apparecchio, una specie di casco, che può registrare, visualizzandoli e proiettandoli i sogni, i ricordi umani e l’intera attività mentale. I ricordi consci e inconsci, vengono memorizzati in un dvd e la protagonista attraverso un lettore e una visione non perfetta del video, trasfigurata in un effetto sale e pepe (tipo Sindonext) come appunto può essere un ricordo, comincia a vivere dei soli suoi ricordi drogandosi di immagini. Tale Film è stato per me determinante: mi riconosco nel protagonista che dall’indole curiosa, è tutto volto a percepire emozioni e scavare in territori inesplorati dell’animo umano.


"Sindonext" mostra di Videoarte di Luca Gaddini:  luglio 2012

01 luglio 2012

“La leggerezza del ferro” un incontro con Luigino Bruni e Alessandra Smerilli

di Angelica D'Agliano

LUCCA. Quando l’economia diventa solo una questione di soldi i risultati sono due: il primo è che essa perde la sua dimensione umana, e perciò diventa disumana e aberrante; il secondo, alla fine si ripiega in se stessa. L’implosione delle principali economie reali in tutto il mondo sarebbe la prova certa di un ragionamento molto semplice, ma antico almeno quanto l’agape cristiano: le linee di pensiero che separano il mercato dagli ideali non funzionano.
Le prospettive della gratuità e dell’importanza della “vocazione” all’interno dell’assetto economico di una società sono al centro de “La leggerezza del ferro”, un’introduzione alla teoria economica delle Organizzazioni a Movente Ideale (OMI) scritta a quattro mani dai professori Luigino Bruni e Alessandra Smerilli (edizioni Vita e Pensiero).
“Una delle caratteristiche della post modernità è il crollo del confine tra economico e non-economico – spiegano gli autori –. Noi crediamo che l’economia sia un brano di vita, dove gli uomini e le donne mettono in campo tutte le loro passioni, vizi e virtù. Questo saggio è un’indagine sulla maggiore complessità, ma anche sulla maggiore qualità umana, che ritroviamo nelle organizzazioni, economiche, sociali, politiche e religiose, quando gli ideali le fanno nascere, le fanno vivere e le alimentano giorno dopo giorno”.
Certo, pensare che un sogno sia alla base di un’impresa economica può sembrare una contraddizione in termini. Eppure, analizzando i fatti, scopriamo che il sodalizio “vocazione e azione (economica)” è quantomai stringente.
Le Organizzazioni a Movente Ideale (OMI), dette anche values-based organization, sono quelle organizzazioni – associazioni, ONG, imprese sociali, imprese di economia di comunione, associazioni ambientali, organizzazioni politiche, culturali e religiose – ispirate non primariamente dal profitto, ma da un movente ideale, da una missione o vocazione, cioè, legata alle motivazioni intrinseche dei suoi promotori.
“Ma in generale – spiega il professor Luigino Bruni – le OMI potrebbero essere quasi tutte. Ognuno di noi ha le proprie motivazioni quando intraprende un’attività economica: l’innovazione vera deriva sempre da ideali. E se l’artista è colui ‘che muove qualcosa’ perché ha un daimon che lo anima e che lo guida, anche nelle imprese succede qualcosa di simile: perché uno si alza alle sei del mattino e va a lavoro? Certo, per guadagnare, ma c’è anche qualcosa che ‘va oltre’. Se non c’è questo ‘oltre’, questo contribuo squisitamente umano, allora non c’è innovazione”.
Questo “oltre”, è lo zoccolo duro cui fa riferimento una tradizione lunghissima di economia civile che vede il mercato come una forma di gratuità: la prospettiva di Dragonetti, Genovesi, e recentemente Sugden e Sen. In questo contesto il mercato è il luogo in cui può avvenire la remunerazione delle virtù civili: se il mercato include chi è più debole e lo fa diventare un’opportunità di bene comune, allora compie un’importante opera di civilizzazione, e si fa strumento di autentica inclusione, e di crescita umana e civile.
Le parole cardine di questo scenario sono due: reciprocità e gratuità. La prima viene da reciprocitate (rectus+procus+cum, ossia ciò che viene e ciò che parte e che torna vicendevolmente). Alcune esperienze della reciprocità sono il commercio equo e solidale, l’economia di comunione, la microfinanza e il microcredito “dove le persone vengono aiutate a uscire da varie trappole di indigenza e di esclusione non con doni incondizionati, ma con contratti (animati da gratuità)”.
È davvero sostenibile, autenticamente umana e applicabile all’interno delle organizzazioni, OMI incluse, solo una reciprocità a più dimensioni, che comprenda lo scambio di doni, le regole e i contratti.
“È la gratuità – dice Alessandra Smerilli – che fa un amico vero diverso da un amico opportunista, che rende una famiglia diversa da uno scambio di beni e servizi. Le OMI hanno la loro forza nella valorizzazione della gratuità. La cultura moderna ha fatto della gratuità una faccenda privata, e meno di tutti economica. Il risultato è l’implosione che stiamo osservando proprio in questi anni nelle economie reali di tutto il mondo. Le esperienze economiche improntate alla gratuità, come quelle portate avanti dalle OMI, propongono la funzione civilizzatrice del mercato, ma conservano la natura tragica della gratuità”.
“Chi dà la propria vita per una bottega del commercio equo e solidale, o per una coop sociale che offre lavoro a ragazzi svantaggiati in realtà vive bene, in quanto è gratificato da quell’eccedenza che è tipica della dimensione più umana dell’esistenza, ma in realtà fa esperienza anche di conflitti e situazioni dolorose, si mette in gioco più degli altri: e per questo soffre di più”.
La vera gratuità, sebbene indispensabile per riportare la vita, anche economica, a una dimensione pienamente umana, ha una natura tragica e dolorosa: darsi, infatti, vuol dire prima di tutto essere vulnerabili in quanto non calcolatori. La gratuità, per quanto necessaria, è sempre una potenziale ferita. Ma è anche il sale dei rapporti umani e di quello che più avvicina l’uomo comune all’artista.
Per convincersene una citazione di Primo Levi, in cui si parla di Auschwitz: “il bisogno del lavoro ben fatto è talmente radicato da spingere a far bene anche il lavoro imposto, schiavistico. Il muratore italiano che mi ha salvato la vita, portandomi cibo di nascosto per sei mesi, detestava i nazisti, il loro cibo, la loro lingua, la loro guerra; ma quando lo mettevano a tirar su i muri li faceva dritti e solidi, non per obbedienza ma per dignità”.
La leggerezza del ferro è stato presentato il 18 marzo 2011 a Lucca, presso la Saletta della Fondazione Banca del Monte (piazza San Martino). L’evento è stato organizzato dal consorzio di coop sociali So. & Co., Caritas diocesana Lucca, coop sociale La mano amica e la Fondazione Mario Tobino

"Antropologia religiosa" di Alfonso M. Di Nola


Riso e oscenità – Un risvolto mitico-antropologico di Petrolio   
 di Emilio Michelotti

Ho letto un vecchio libro, segnalato da Emanuele Trevi in Qualcosa di scritto (2012). S’intitola Antropologia religiosa ed è stato redatto nello stesso periodo in cui Pasolini lavorava a Petrolio. Lo schema dell’autore, Alfonso M. Di Nola, è relativo ad un’indagine sui misteri di Eleusi e si fonda sulla terna crisi-osceno-riso.

Quale significato aveva la rappresentazione di una doppia sessualità, così evidente nel contesto eleusino? La consumazione del ciceone, narra Di Nola, era preceduta nelle pratiche rituali da uno scoppio di riso motivato da un’esibizione oscena, analoga a quella -mitica- che era riuscita a far ridere Demetra. La Dea delle messi, mentre errava alla ricerca della figlia Persefone (Kore), rapita da Plutone, è sopraffatta dalla stanchezza presso Eleusi. Una donna del posto le offrì da bere il ciceone. Ma la Dea rifiutò essendo in lutto. La donna, allora, alzò le vesti mostrando la vulva, stesa e manipolata al punto da far assumere a quest’organo la forma di un fanciullino ancora tenero e non coperto di peli (Iacchus, Dioniso, per l’alessandrino Arnobio).
La Dea si compiacque dell’esibizione e rise. La sua risata sventò così una catastrofica crisi agraria.

Anche i due Carlo, scrive PPP (Petrolio, app.74 e 74a), compiono lo stesso rito dell’anasyrma, anzi il “doppio” ne è ossessionato. Si tratta, appunto, dell’esibizione dei genitali (androgini) ad una divinità, allo scopo di suscitarne il riso e scongiurare tremende crisi cosmiche. “Ho eretto questa statua per ridere”, così nella “visione del Merda” sta scritto fra colonne classiche ai piedi di uno strano simulacro: “un mostro muliebre, consistente in due gambe piuttosto tozze, su cui era incastrata, al posto dell’inguine –tanto che il taglio della vulva coincideva col taglio del mento- una grossa testa di donna”. La veste, rialzata, va a formare una sorta di chioma. E’ la descrizione di una statuetta rinvenuta a Eleusi.

Azzardo un’ipotesi che potrebbe aiutare alla decrittazione dell’ultimo romanzo pasoliniano, data la sua incompiutezza. Tra scarni appunti in merito alla stesura definitiva, PPP avanza scenari e profezie apocalittiche, quali fine del petrolio, esaurimento delle risorse idriche, carestie, conflitti. Erigere una statua, scrivere la summa del suo pensiero “per ridere” o “far ridere”, potrebbe indicare una via d’uscita all’identità, derivata da Sade, fra potenza fallica e potere sociale, sulla quale si sarebbe sviluppata la società patriarcale mercantile capitalista. L’indugiare sulle descrizioni falliche, oltre all’evidente compiacimento personale, potrebbe rappresentare per PPP un nuovo anasyrma, l’estremo gesto atto a suscitare nell’umanità il senso di lutto per la consumata apocalisse culturale e nel contempo una sorta di illuminazione gnostica sull’ultima possibilità di riconciliazione con l’elemento misterico originario, “l’abisso del seme”, rappresentato e custodito da Eleusi per oltre un millennio.

Alfonso M. Di Nola–Antropologia religiosa -Vallecchi, 1974

28 giugno 2012

"Plazeur" di Alessandro Togoli



di Fulvia Quirici

Questa non è una recensione, ma un incontro. L’incontro con uno spettacolo teatrale, che si è svolto presso la casa di reclusione di Volterra, un incontro con i ricordi, che il luogo e lo spettacolo hanno suscitato.  

                                               

Un paradosso bellissimo

La ginestra che spaccava le colate d’argilla solidificata, crettate e murate dal sole, cresceva comunque alta: eruzioni di giallo intenso a spezzare la crosta cinerina del pendio. Era di certo possibile, lo vedevo, ma era comunque un fatto incredibile da ritrovare così, con tanta bellezza e irruenza, perché le cose si leggono, si imparano ma hanno senz’altro un sapore diverso se si vivono: ci insegnano immensamente di più.

E salivo per la strada antica che mi aveva portato a gelati freschi, a passeggiate per le stradine intorno alla fortezza, ad immaginare che vita facesse quel cugino di secondo grado di mio padre che era finito per pene d’amore in manicomio. I dottori avevano deciso che doveva stare lontano da tutto, segregato, isolato dalla vita reale. Ero anche bambina e così alle domande mi si rispondeva in maniera leggera perché io chiedevo ‘come mai una persona che sta male deve essere anche punita rinchiudendola a vita? Non si ammala di più?’ e l’unica cosa che mi rispondevano era: ‘stare in mezzo alla gente gli farebbe più male’.

Ma vengo a ora. Avevo idee abbastanza precise di quello che avrei trovato perché ero stata introdotta da una persona che vede prevalentemente con il cuore, poi con gli occhi. Ma, ciò nonostante, non credevo possibile una rivoluzione, un rivoltamento, una possibilità di perdere il timone.

Sedevo, in fondo, e traguardavo al di sopra dell’ombreggiante: una guardia in garitta dall’alto del muro antico, traguardava il dietro le quinte e spiava gli attimi di fulgente libertà dove una mano tocca un’altra mano, dove una spalla si appoggia all’altra, un’evasione collettiva in un budello lungo dieci metri e largo, a occhio e croce, tre.

Prima che tutto avesse inizio ai miei occhi, tutto già capitolava dietro.

Ma esce il primo attore e cattura, ruba il silenzio e tutti gli occhi, tutti sono piantati su di lui. Pure i miei, anche se di tanto in tanto mi sforzo per distrarli e guardare intorno, vedere e scrutare le reazioni. Io non so niente e non so chi è aguzzino e chi vittima, chi colpevole e chi innocente. Leggo solo gli sguardi e i sorrisi e l’allegria di tutti: una dilagante gentilezza m’avvolge. Impressionante che tutto questo calore si trovi in un luogo dove si scontano le pene. Eh no, non era così che me l’ero immaginato.

E così passano i minuti, veloci e scanditi dal ritmo genuino delle storie che si dipanano e traspare sopra a tutto l’entusiasmo e la passione che ci mettono: ammiro quelle anime che di colpo associo a delle barre d’acciaio, finite con l’essere fiocco, piegate e plasmate da una vita che avranno anche voluto e che avranno anche trovato o che sarà stata la meno peggio che gli sia capitata di vivere.

No, non è un buon momento per stilare una compilation di sentenze e giudizi: i giudici nel bene e nel male hanno già attaccato il collo di queste persone al binario della Legge, mandandoli ciascuno per le proprie colpe nelle mani di una gerarchia di uomini e donne che devono contenere e recuperare, recuperare e contenere.

Poi si è diradata, per progetto del regista, la maglia dell’allegria e lui stesso, il regista, c’ha mischiato un’amarezza preparatoria: ho iniziato a percepire cosa sarebbe successo dopo.

Si è conclusa così la 15° edizione dello spettacolo teatrale dei detenuti dell’alta sicurezza, o meglio la penultima rappresentazione di quest’anno. Alla gola un nodo perché dalla caciara che c’era fino a un po’ prima si passava a un’altra fase: il ritornare a vedere le mura medioevali come contenitori asfissianti, gli attori, dismessi i vestiti e i trucchi di scena, ritornavano uomini e il tempo riacquistava il peso solito, quello di loro che è diverso dal mio. È per questo che mi sono domandata se potevo io concedermi il lusso di commuovermi. Ho rintuzzato quelle lacrime, ho aspettato che l’emozione passasse e poi mi sono mischiata fra quei colori bellissimi, delle loro persone, delle loro anime che parlano attraverso gli occhi, attraverso una stretta di mano, che diventa un contratto di vita, per sempre.

Ho percepito in quegli occhi un rispetto profondo, un’attenzione per i particolari, un abbraccio infinito e un invito a entrare in quel mondo; in maniera inusuale fra le persone ‘libere’, ho sentito davvero la libertà di essere accettata esattamente per come sono, senza alcuna pretesa o aspettativa.

L’ho colto subito, all’istante e ho incrociato occhi belli e mi sono fatta abbracciare e ho risposto come potevo, alla meno peggio, sentendomi diverse volte in difetto per non poter lasciare in quel cortile almeno quanto stavo ricevendo.
E qualcuno ha parlato di ‘Speranza’, come di una bestia strana che ti illude e ti rende duttile nel credere che un cavillo, un’alchimia giuridica, possa riaprire la porta di ferro in fondo al corridoio. Quanta disillusione in quegli occhi che mi parlavano e proseguivano dicendo che sperare è legittimo solo se si ha un Dio al quale appellarsi.

Lì ho avuto un sussulto, un piccolo moto interiore di rabbia quasi: si sbaglia, quasi come ci si ammala, come quel mio lontano parente. Si può sbagliare anche pesantemente ma non si può togliere mai, a nessun individuo, la possibilità di sperare. Questa è la sola cosa che guarisce l’uomo.

E l’uomo che guarisce, dopo aver provato la morte, è senz’altro migliore.

 PLAUZEUR 
regia: Alessandro Togoli
Attori: Compagnia Alta Sicurezza:
i ragazzi: Sebastiano, Antonio, Antonio, Stefano, Giuseppe, Antonio, Lin, Emanuele, Gaetano, Luis, Giuseppe, Vincenzo, Mario, Emanuele, Mirko, Massimo, Marco.
i professori: Alberto Zuliani, Ganluca Comandi, Ilaria Gabellieri, Liviana Negri, Laura Casalecchi, Elena Garruccio.
Parte tecnica: Antonio, Stefano.
Parte culturale: Antonino.
Scenografi: Luigi, Antonio, Vincenzo, Sandro.
Fotografa: Sara Togoli
Luoghi: Volterra Casa di Reclusione 5,6,8,9 giugno 2012
Queste sono le sole repliche, non ne saranno fatte altre.
Nello specifico:
5 giugno per un pubblico di detenuti della media sicurezza
6 giugno per gli studenti maggiorenni delle scuole esterne di Volterra
8 giugno per un pubblico esterno ad invito
9 giugno per i familiari degli attori detenuti

Note sullo spettacolo

Lo spettacolo, attraverso la tecnica dell'intreccio, mette in scena diversi episodi: tre novelle del "Decameron" (frate Cipolla, i due senesi, ser Ciappelletto), Rabelais (inizio del "Gargantua e Pantagruel", le novelle popolari di Giufà (siciliana) e di Papa Caiazzo (pugliese), oltre ad una libera interpretazione della "Bisbetica Domata", diventata Catina, in versione popolarsiciliana.
Il tutto reso unitario dal contesto scenografico, ambientato nel Medio Evo, e dal concetto di piacere, nel senso di ciò che vorremmo. Il finale, un testo collettivo dal titolo "Piacere è" e esplicativo del perché è stato elaborato questo testo.

Note del regista, Alessandro Togoli

"Progetti futuri consistono nel continuare a fare scuola a livelli professionali, perché il nostro teatro è legato alla scuola; comunque ci sarà uno spettacolo legato alla shoà a febbraio (mi piacerebbe sui triangoli rosa) ed uno spettacolo a giugno dal titolo "Ma dov'è questa crisi" ed ispirato a Petrolini; sempre che non ci siano tagli o altro"



27 giugno 2012

“Fernando Leòn De Aranoa” a cura di Chiara Boffelli


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di Mimmo Mastrangelo

Lo danno per il Ken Loach spagnolo. E lui, Fernando Leòn Aranoa, ne è lusingato, anche se dell’accostamento al grande regista inglese prova pure un leggero imbarazzo. Madrileno, 44 anni, una forte attrazione per quei pezzi di società sempre più in difficoltà  ed invisibili a causa dei frutti avvelenati della pianta del liberismo, Fernando Leòn Aranoa tra il suo primo lungometraggio, “Famiglia” del 1996 e l’ ultimo, “Amador” dello scorso anno, ci ha regalato altri cinque film uno più incastonato dell’altro in un cinema politico che freme nell’urgenza di  far conoscere storie di uomini e donne perdenti.

L’ultima edizione del Bergamo Film Meeting ha proiettato del regista-sceneggiatore spagnolo  tutti i suoi film (compreso il cortometraggio “Sirenas”) e pubblicato  una monografia curata da Chiara Boffelli. Prima di passare dietro la macchina da presa, Aranoa  si è innamorato della scrittura cinematografica, ad un corso di sceneggiatura con tre docenti “ compresi – svela in un’intervista con Boffelli – che la materia prima dell’inventare storie era la vita, le relazioni umane, le nostre debolezze, i nostri punti forza, tutto quello che abbiamo di buono e di cattivo”. Il regista ritiene che fare cinema significa comunicare,  nello specifico  le sue opere  vogliono far conoscere un teatro della vita in cui si accalcano personaggi-naufraghi dalle esistenze lacerate e dai sogni infranti.
Ma nonostante la precarietà delle storie e il dramma che esse racchiudono, i personaggi di Aranoa (come nei film del francese Guediguian)  non si risparmiano in quanto ad humor e si fanno ancor più credibili  quando  stemperano lo stato della loro pesante condizione  con dei flash di allegria. Cinema di storie ben costruite ed elaborate, che seguono il più delle volte le direttive della coralità, una filmografia  che sembra voler “fare ordine, rimettere ogni cosa nella giusta  posizione in una scala di valori spesso invertita”.

Insieme a “Familia”  e “Amador” non si possono  non citare altri titolo: “Caminantes” (2001) in cui la vita di un villaggio messicano viene trasformata dalla notizia  della marcia dell’esercito zapatista, oppure “Princesas” (2005) che apre uno squarcio sul mondo della prostituzione madrilena rendendo visibili i rischi e i sentimenti che si annidano nella vita di chi deve sbarcare il lunario con il più antico mestiere del mondo. Ma il film manifesto del lavoro fin qui svolto da Leòn De Aranoa è sicuramente “I lunedì del sole” (2002), il cui titolo è pure una   metafora di come i giorni diventano tutti uguali quando si perde il lavoro (e quindi il lunedì si sta al sole, a far niente, come se fosse domenica). Qui lo sguardo autoriale si spinge in quegli spazi della vita degli operai  che si svuotano, afferra il disagio sociale e lo squaderna senza nessuna commiserazione o spettacolare “ammuina” .

Come riconosce  Chiara Boffelli, il cinema  di Fernando  Leòn De Aranoa parla dell’oggi e lo affronta, lo analizza con strumenti intelligenti, sottili, raffinati. Un cinema che a volte basta una battuta  per coglierne  le  sfaccettature. Si pensi  a quella frase verità de “I lunedì del sole” :  “Tutte le cose meravigliose che ci dicevano del comunismo erano false, ma il vero problema si rivelò che tutte le cose terribili che  ci dicevano del capitalismo erano assolutamente vere”.

FERNANDO LEON ARANOA: IL KEN LOACH SPAGNOLO.  monografia edita dal BERGAMO FILM MEETING, a cura di CHIARA BOFFELLI

26 giugno 2012

"Le lucciole" di Gianni Quilici




Non so nulla delle lucciole. Non ho mai saputo nulla. Ne’ ho mai cercato di sapere. Potrei cercare,  ora qui su Google, ma non voglio.
Le ho vissute soprattutto; le vivo ancora. Non più con gli occhi del bambino che ero. Con gli occhi disincantati che ora ho.
Eppure l’incanto può continuare a vivere quando nasce da una realtà che trascende la realtà stessa, che potrebbe ancora oggi diventare mito, sia pure piccolo mito personale, per tanti occhi ingenui che ancora esistono.
Le lucciole continuano a rimanere, infatti, una di quelle immagini forti, che l’infanzia ha scolpito in immagini  mitiche, con aggiunta la novella (bellissima) dei soldi che le lucciole avrebbero fatto una volta catturate e messe sotto un bicchiere. Come dire due miracoli: le lucciole in sé e la filiazione di soldi.

Non è un caso che Pier Paolo Pasolini individuò “la scomparsa delle lucciole” nei primi anni sessanta, a causa dell’inquinamento dell’aria e soprattutto delle acque, come simbolo di un’epoca che finiva, la civiltà contadina, e ne apriva un’altra, la civiltà consumistica-edonistica, che avrebbe portato “ad una nuova epoca della storia umana” facendo diventare gli italiani “in pochi anni un popolo degenerato, ridicolo, mostruoso, criminale” . Metafora che ha avuto molto successo, anche se poco consenso.
Perché le lucciole hanno un grande fascino. Un fascino onirico, vicino al sogno. Le lucciole, infatti, sono la notte, che come osservava Giacomo Leopardi, è indefinita; le lucciole sono la bellezza della natura notturna: un prato in distesa, un campo di grano verdeggiante; le lucciole sono esseri minuscoli che, su questi scenari autentici, si accendono e si spengono, appaiono e scompaiono ad intermittenza, dialettica tra luce-buio, tra essere-non essere, bellezza fragile che vive e muore nell’arco appena di una mezza stagione, tra la primavera inoltrata e l’inizio dell’estate, metafora luminosa, si potrebbe azzardare, di una giovinezza fugace.

Infine, le lucciole stanno tornando. In alcuni luoghi dove la campagna è rimasta campagna ed è stata, almeno parzialmente, disinquinata sono ritornate. Nella mia corte luccicano numerose tra campi e viottoli. Se mi sposto però non le ritrovo facilmente. Trasmettono una dialettica tra l’utopia di un sogno possibile e una realtà, che appare compromessa da un’urbanizzazione dissennata. Ti possono dire: c’è la possibilità di una direzione diversa che faccia propri modelli economici e   ecologici, estetici e culturali in cui anche le lucciole possano vivere ed infittirsi per il bene di tutti. Ma è davvero poco di fronte a paesaggi che di umano non hanno più nulla.

18 giugno 2012

"La folaga" di Odino Raffaelli


di Luciano Luciani
La voglia di raccontare 
dei diversamente giovani

In ogni piccolo borgo c’è sempre un luogo deputato alle chiacchiere paesane, al cicaleccio minimo, al pettegolezzo, spesso bonario, talora un po’ meno: un rumore di fondo, non sgradevole, che accompagna l’esistenza delle comunità minori e dei suoi abitanti, ne sottolinea i passaggi importanti (i matrimoni e i rientri dopo anni di emigrazione, le dipartite e le feste patronali), ne evidenzia gli attori e ne racconta i protagonisti.

I tavolini di un bar, una panchina dei giardini pubblici, un muretto non troppo alto assurgono così al ruolo di una micro-agorà paesana: Nella prima mattina la frequentano gli studenti renitenti alla scuola; il pomeriggio tardi la occupano i loro coetanei dopo aver adempiuto ai doveri scolastici; e, se babbo, mamma e la stagione lo consentono, sempre lì si ritroveranno, ancora per qualche ora, dopo cena. In tutte le altre fasce orarie tali luoghi sono appannaggio degli esponenti più brillanti e briosi del sempre più vasto popolo dei diversamente giovani: i pensionati, gli attempati, gli anziani.

Ed è proprio a ridosso del muretto di un paesino dell’Appennino tosco-emiliano che l’Autore colloca i suoi personaggi, tutti rigorosamente coi capelli bianchi e tutti con una gran voglia di raccontare e raccontarsi, e le loro storie.

Peccato, però, che al di là delle buone intenzioni affabulatorie, i ricordi non siano più precisi, né le idee sufficientemente chiare. Così, tra incomprensioni e fraintendimenti, equivoci e brusche impennate proprie dei caratteracci di montagna, si dipana il filo di racconti buffi e teneri, lievi e, al tempo stesso, densi di vita vissuta.

Perché Odino Raffelli attinge a un vasto repertorio di memorie private ed esperienze personali, rielaborandole con la leggerezza e l’umanità che gli sono proprie e che i lettori e la critica hanno dimostrato di saper riconoscere e apprezzare a ogni suo appuntamento editoriale.


Odino Raffaelli, La folaga, Collana “cartacarbone” 15, Edizioni Daris Libri e stampe, Lucca 2012, pp. 190, E. 12,00

Odino Raffaelli nasce a Vaglie, frazione del comune di Ligonchio in provincia di Reggio Emilia nel 1931. Mentre i genitori vivono e lavorano a Genova, il piccolo trascorre tutta la prima infanzia in montagna, presso i nonni paterni. A Genova ritorna per frequentare le scuole, ma, allo scoppio della guerra, l’Appennino reggiano sembrerà ai suoi familiari il luogo più sicuro per crescere un ragazzino lontano dai bombardamenti che devastano le città. Allora, il piccolo Odino guadagnerà ancora una volta le cime dei monti e qui proseguirà la sua formazione, seguendo programmi meno convenzionali, ma, certo non meno incisivi. È questo il tema della sua prima “storia di vita Un carezza sui ricordi.
Dopo la guerra Odino torna a Genova, per concludere gli studi con il diploma di capitano di Lungo Corso. Ben presto si imbarca e percorre rapidamente una carriera che lo porterà a comandare grandi navi da carico lungo tutti i mari del globo. Una vita sui mari raccontata con divertita umanità in La valigia sull’acqua, sua seconda, personalissima, fatica narrativa.

“Domenica mattina” foto di Wolf Suschitzky


di Gianni Quilici

Immagino la felicità di Wolf Suschitzky, mentre aspetta vedendo la strada fotograficamente magnifica nella linea di fuga tra strisce di pavé e asfalto ben disegnate che si perde tra due file di case popolari…

Quando ecco appare l’uomo, uno soltanto, vestito di scuro con l’ombra allungata delle prime luci dell’alba domenicale… Simbolo di una solitudine tranquilla, forse felice… le mani in tasca… in possesso lui di tutto lo spazio…

Ed infine guardandolo per l’ultima volta e cercando l’attimo del movimento dei piedi, Wolf Suschtzky scatta con la consapevolezza della bellezza dell’insieme e di alcuni dettagli, tra cui sicuramente la nitidezza della scritta in stampatello grande su sfondo scuro “LISTEN WITH ENKO RADIO” raccolto in tutta la sua lunghezza.

Wolf Suschitzky. Domenica mattina. Oldham 1946.

"Fallire" di James Greer


di Luciano Luciani

Sfigato è l’Eroe. Anzi sfigatissimo. Fragile e incerto, Guy Forget, americano, californiano, losangelino, è un inguaribile pasticcione: l’ennesima variante dell’ “uomo senza qualità” aggiornato ai primi anni del terzo millennio. Lo incontriamo all’inizio del romanzo già in coma e lo lasciamo alla fine immerso nei suoi pensieri, lucidi e terminali, qualche istante prima che qualcuno decida per lui di staccare la spina e di abbandonare per sempre questo stadio imperfetto dell’esistenza che è la vita.
In mezzo tutto un mondo: relazioni, affetti, idee, speranze, progetti, sogni…

Inetto di bella presenza, Guy condivide i suoi giorni con un amico, precario esistenziale, lo scudiero cialtrone delle sue sgangherate imprese; ama Violet, vedova consolabile, consolabilissima; un padre che decide di anticipare di poco la dipartita del figlio; una madre che del figlio non ha mai capito niente; un fratello poco amato, prudente e taccagno, “cervellone” professore di fisica teoretica al M.I.T; un Nemico, tanto invidioso, quanto maligno e irriducibile, “ho odiato Guy Forget con l’intensità del caloro bianco e della magia nera”, senza dimenticare la Regina dei Motomalandrini, un gruppo di bikers minori impegnati nella caccia ai pedoni e ai ciclisti… Aggiungiamo, poi, un folle progetto di “finanza creativa”, tanto demenziale da poter, chissà, anche funzionare e una piccola impresa criminale gestita in maniera che più maldestra non si può.

Ora dissolvete i piani temporali del racconto e mescolateli disordinatamente, fornite alla storia un linguaggio veloce, diretto, cinematografico, fitto di dialoghi infarciti di lessico da internauti e di musica rock e avrete tra le mani questo Fallire un’opera narrativa originale e spiazzante, provocatoria e abrasiva.

 L’ha scritta James Greer, giornalista e critico musicale cinquantenne, eclettico protagonista della scena musicale americana da almeno vent’anni. Un romanzo che è piaciuto al regista Stephen Soderbergh, quello Sesso, bugie e videotape, Erin Bronckovich, Ocean’s eleven, Ocean’s Twelve e Contagion: “Fallire di James Greer è un successo così totale , per concezione e realizzazione, che dubito fortemente che lo abbia scritto davvero lui.” 

Una dichiarazione in tono con lo spirito beffardo e pungente del libro, pubblicato in Italia per merito della piccola, coraggiosa, enigmatica editrice Quarup, che, in almeno un paio di occasioni l’anno, non manca mai di sorprendere i suoi lettori proponendo testi di graffiante qualità.
Pensiamo che al romanzo di Greer e ai suoi intraprendenti e scanzonati traduttori/redattori italiani si attagli bene una frase di Samuel Beckett: “Tentare di nuovo. Fallire di nuovo. Fallire meglio.”

Luciano Luciani

James Greer, Fallire, traduzione di Valerio Murri, Quarup, Pescara 2012, pp. 175, E. 14,90

17 giugno 2012

“Juliette Gréco” foto di Robert Doisneau




di Gianni Quilici

La poeticità della foto, di uno dei più grandi fotografi del 900, Robert Doisneau, il più grande forse nel rappresentare Parigi, è nella sottile bellezza di Juliette Gréco.

Questa bellezza risalta nell’insieme e nei dettagli ed è fin troppo banale sottolinearlo: nei capelli lunghi e lisci che le incorniciano il volto e le ricoprono la fronte, nella bocca carnosa e ben disegnata, nel naso piccolo e proporzionato, paradossalmente negli occhi (soc)chiusi, che (forse) guardano il cane, accovacciato sulle zampe, bocca aperta e occhi chiusi, come se stesse sbadigliando.

La poeticità della foto non è, tuttavia, tanto nella bellezza armonica di Juliette Gréco, ma in ciò che questa emana: delicatezza, finezza, purezza; in contrasto con l’immagine del cane quotidiana, naturalistica. Per riprendere il famoso “punctum” di Roland Barthes, mentre il cane è niente altro in ciò che si vede, la zona psichica di Juliette Gréco più intima è trattenuta, ci arriva come emanazione, non esibita, lieve, invisibile appunto.   

A completare: sullo sfondo evanescente nel biancore quasi onirico svetta il campanile di Saint-Germain-des Prés a segnalare il luogo, il contesto.

Juliette Gréco
«Mi chiamo Juliette Gréco, e non ho mai avuto uno pseudonimo. Sono nata il 7 febbraio 1927. Mia madre mi ha detto che quel giorno pioveva, e la pioggia favorisce la crescita di tutte le piante, anche quelle più velenose». Juliette Gréco, attrice e cantante francese, nasce a Montpellier, si veste sempre (e da sempre) di nero («perché è l’unico colore che mi difende e protegge, con un altro qualcuno potrebbe vedermi»), la sua pelle è ancora chiarissima (Pablo Picasso diceva di lei che «si abbronzava alla luna»), ed è stata amica e ispiratrice di Jacques Prévert, Jean-Paul Sartre, Raymond Queneau, François Mauriac, Boris Vian, Charles Aznavour.

Il padre di Juliette Gréco era corso e la madre, bordolese, fu un membro attivo della Resistenza in Francia. Venne arrestata nel 1943 e con la primogenita Charlotte venne deportata in un campo di prigionia. Juliette, che aveva solo 16 anni, fu invece liberata e venne accolta dalla sua insegnante di francese a Parigi, Hélène Duc, che la incoraggiò a partecipare al concorso della scuola d’arte drammatica francese più importante del tempo: il Conservatorio. Gréco non venne ammessa, ma Madame Dussane, nei suoi commenti, annotò «Da sorvegliare per l’avvenire».
Juliette Gréco iniziò a frequentare i caffè della Rive Gauche, ad esplorare la vita intellettuale del Quartiere Latino e di Saint Germain des Prés. Nel 1947, in Rue Dauphine, aprì il “Tabou”, poi leggendario luogo di incontro degli Esistenzialisti. Juliette ricorda:
«Si scendeva una scaletta di pietra, bisognava fare attenzione a non urtare la testa e si arrivava in un luogo rettangolare che sembrava ideale per far risplendere lo spirito della libertà riconquistata dopo i funesti anni nazisti dell’occupazione. L’oscurità del Tabou era squarciata dai lampi del nostro entusiasmo e i Maestri offrivano il sapere senza costringerci all’inchino».  
Nel locale si ritrovavano anche i più grandi artisti e musicisti del tempo, come Jean Cocteau e Miles Davis con il quale Juliette ebbe una storia d’amore (si è sposata tre volte: con gli attori Philippe Lemaire e Michel Piccoli e con il pianista Gérard Jouannest che, ancora oggi, la accompagna sul palcoscenico). Il successo arrivò nel 1949, quando Prévert, Queneau e Aznavour scrissero delle canzoni per lei e Jean-Paul Sartre le donò, invece, il testo “La Rue des Blancs-Manteaux”. [da “Il Post”]

  •  Alcune  impressioni prese da Face Book



  • Lidia Campagnano la forza del biancoenero, o la sua poesia...



  • Carmela Linda Longo Vedo..... poetico e delicato riserbo, i suoi occhi chinati esprimono forza di parole non dette...tutto intorno sembra annebbiarsi sotto la luce di un giorno uguale agli altri.....lei, che vestita di nero vorrebbe essere un puntino nero in una linea senza fine, è il fulcro dell'insieme.....ed è radiosa!


  • forse il bello è l'indecifrabile
  • Lisa Manescalchi nitidi affetti in una offuscata realtà...
    .

  • Isabella Eugenia Monti ‎...quando lo sguardo si abbassa non possiamo che notare un elemento di perso ricordo..di malinconica e pudica preghiera che la avvicina alla vita e all'amore nel gesto di delicato contatto con il suo piccolo animale..tutto il contorno del corpo e del suo cappotto mantengono lo stesso profilo della cattedrale alle sue spalle che ne sembra delineare la forma quasi fosse la sua ombra perfetta in una delicata e persa nebbiosa nostalgia...è lei la cattedrale stessa di luce potente e dolorosa, pura e complessa come una costruzione gotica, misteriosa come i segreti che la custodisce...perfetta nella sua bellezza di inavvicinabile compostezza...e noi non possiamo che ammirare l'intero paesaggio e sognare di esserci...


  • Irene Balducci mi appare un sistema di dominazioni: il campanile su di lei, lei sul cane. Tenui, impercettibili, sfumate. L'uscita sembra un urlo o forse è uno sbadiglio...sarà per questo che sento tutto così dolce, tenero, impalpabile...


  • Grazia D'Isanto Un intero universo.