19 settembre 2014

“La macchia umana” di Philip Roth




di Gianni Quilici

Leggo questo romanzo  nel letto e un po’ sulla scrivania. In tutte e due le posizioni sono travolto come mi era accaduto nell’altro grande romanzo di Philip Roth Il teatro di Sabbath, così straordinariamente libero nel suo cinismo doloroso e nel suo  frenetico libertinaggio.
E sono travolto non tanto dal suo intreccio narrativo, quanto dalla sorprendente bravura stilistica e dalla sorprendente profondità che trasmette. Così la lettura l’ho percepita certo criticamente, ma senza avere la forza di fermarmi, di interrogarmi, di precisarla, di articolarla, di farla diventare verbo.
Così mi è successo per La macchia umana, meno gioioso e libero, però altrettanto disperato e ugualmente profondo de Il teatro di Sabbath.

Philip Roth non ti fa vedere i personaggi soltanto nell’attimo o negli attimi in cui vivono, ma li esplora nella loro storia. Lo scopo evidente mi pare che sia: cercare di capire perché siano così. Quale ragione e quali misteri essi nascondono. Ho pensato, leggendolo, a Jean Paul Sartre, all’ossessione di Sartre di capire Baudelaire o Genet, ma soprattutto Flaubert. Capirlo attraverso la sua storia: l’infanzia, i rapporti con la famiglia, con l’ambiente e infine con la Storia del tempo.

E’ ciò che Philip Roth rappresenta soprattutto con il protagonista, Coleman Silk, ma non solo con esso. Lo fa attraverso una storia che affonda nella sua infanzia e adolescenza, seguendolo fino all’ultimo giorno.
Ecco Coleman, all’inizio del romanzo, un insegnante 71enne energico e affascinante, colto, raffinato e molto determinato, a cui è bastata una solo frase, una banale frase strumentalizzata biecamente, perché si scateni contro di lui tutte le invidie e i risentimenti, tutti gli odi latenti, perché crolli il suo mondo, la sua brillante vita accademica e si smembri la sua famiglia.

Da questo stato di cose inizia il romanzo, che l’io narrante, lo scrittore protagonista di tanti romanzi di Roth, Nathan Zeckerman, ricostruisce, come in un puzzle, pezzo per pezzo. Una storia complessa e rivoltosa, quella di Coleman, una fuga dalle sua radici, portandosi dietro un segreto, che è riuscito abilmente a nascondere, fino alla tomba.

La sua storia introduce altri co-protagonisti del romanzo: Faunia Farley, una bionda esile 34enne, analfabeta, con alle spalle storie terribili di violenze e di morte, priva di qualsiasi illusione e per questo libera, con cui il protagonista coltiva una relazione erotica molto intensa; il marito di lei reduce dal Vietnam, che questa guerra ha traumatizzato in modo indicibile; Delphine Roux, giovane e piacente francese, nuova direttrice del dipartimento di letteratura tanto ambiziosa quanto frustrata; e altri ancora più o meno significativi nell’economia del romanzo.

L’America, anno 1998, sotto shock per i pompini che Monica Lewinsky elargì al presidente Clinton, è lo scenario più adeguato dello spregevole conformismo con cui una società ipocrita e indecente, nel nome della decenza, condanna, emargina e “uccide” Coleman e, in un certo senso, anche la sua amante Faunia Farley.

La scrittura di Philip Roth necessiterebbe un’analisi minuziosa per coglierne lo spessore stilistico e psicologico, sensoriale e filosofico evidenziato da decine e decine di dettagli, dall’accuratezza e dall’originalità dello sguardo, dalla molteplicità e densità dei punti di vista, dalla complessità dei personaggi e dalle loro relazioni, dal  mistero della vita che ne consegue.

 C’è, infatti, un dialogo rivelatore in cui Coleman, attraverso l’io narrante di Zuckerman, esprime  la sua filosofia ultima della conoscenza.
 «Tutti sanno… Cosa? Perché le cose vanno come vanno? Cosa? Tutto ciò che sta sotto l’anarchia del corso degli avvenimenti, le incertezze, i contrattempi, il disaccordo, le traumatiche irregolarità che caratterizzano le vicende umane? Nessuno sa, professoressa Roux. “Tutti sanno” è l’invocazione del cliché e l’inizio della banalizzazione dell’esperienza, e sono proprio la solennità e la presunta autorevolezza con cui la gente formula il cliché a riuscire così insopportabili. Ciò che noi sappiamo è che, in un modo non stereotipato, nessuno sa nulla. Le cose che sai… non le sai. Intenzioni? Motivi? Conseguenze? Significati? Tutto ciò che non sappiamo è stupefacente». La realtà è irriducibile a qualsiasi tipo di categorizzazione. L’ontologia è una monumentale illusione della civiltà occidentale, che – come ogni monumento – è destinato prima o poi a crollare. Niente è come sembra. Tra verità e apparenza si erge l’ostacolo insormontabile della complessità, che rende impervio qualunque tentativo di imporre una tassonomia all’esperienza”.

Infine, questa ricchezza strabordante della rappresentazione di Roth eccede, a volte, fin troppo, tanto da appesantire la narrazione facendo sentire la presenza dello scrittore più che dei personaggi. Ma anche qui c’è un risvolto, per così dire, eroico: come se Philip Roth non  volesse avere limiti rappresentativi.


Philip Roth. La macchia umana. Traduzione di Vincenzo Mantovani. Einaudi.    
 

18 settembre 2014

“Neorealismo. Il nuovo cinema del dopoguerra” di Stefania Parigi



di Mimmo Mastrangelo

Ha ragione Stefania Parigi, docente di cinema all’Università di Roma tre, quando nella premessa al suo nuovo saggio Neorealismo. Il nuovo cinema del dopoguerra, uscito in questo anno per la Marsilio, ammette che “c’è un gigante addormentato nel cinema, a tratti si risveglia provocando  acute grida, che si levano come scontati ritornelli: la sua pelle è sempre piena di “nei”, le sue viscere sono antiche e attuali. Quando succede – o  sembra che succeda – qualcosa di nuovo nel nostro cinema non si manca mai di fare il suo nome: neorealismo”. Appunto. 

A sessant’anni dal suo insorgere ritornare sul tema del neorealismo vuol dire - come attesta la stessa Parigi - “scavare” nella storia, nella psicologia, nell’identità del cinema italiano e, aggiungiamo noi, nel modello di immagini e storie da cui si sviluppò nel dopoguerra il cinema moderno. 

Preceduto tra il 1939 e il 1944 da un intenso dibattito  sulle riviste del settore, il neorealismo di certo non fu un movimento né una corrente cinematografica con un suo documento programmatico e di intenti, ciascuno dei suoi principali interpreti  - Visconti, Rossellini, De Sica, Zavattini , Germi, De Santis, Lizzani - furono “autori a sé”, ciascuno con una propria personalità e con  una forte autonomia creativa. 

Il padre fondatore dei “Cahiers du cinema” Andrè Bazin  definì il neorealismo “il cinema dei fatti”, che si distinse dalle estetiche filmiche precedenti nonché per un diverso atteggiamento della cinepresa nei confronti della realtà che viene osservata senza pre-convinzioni né pregiudizi, che viene rispettata e preservata sia in termini di contenuto sia nella sua essenza e unità ontologica, con la rinuncia a interventi scenografici falsificanti e al montaggio classico. 

“Le immagini  del neorealismo - scrive nel suo libro Stefania Parigi -   sono contemporaneamente quelle impresse nei film del dopoguerra, quelle costruite  dai discorsi dei critici e dei teorici, quelle che sono rimaste nella memoria collettiva e che tornano, con la loro aura di inattualità a incidere su molte esperienze di riconquista cinematografica di un’identità antropologica ed estetica”. 

E’ superfluo citare i titoli che principalmente marcarono il “cinema dei fatti” come “Roma città aperta”, “Paisà”, “Germania anno zero” di Roberto Rossellini, “Ladri di biciclette”,  “Sciuscià”, “Umberto D”, “Miracolo a Milano” di Vittorio De Sica, “Riso amaro” di Giuseppe De Santis, ma ebbene ricordare che oggi il neorealismo è quello spartiacque  cruciale nella storia del cinema mondiale, un indirizzo estetico che ha cambiato il modo di intendere e fare cinema. 

Inoltre, è  vero quello che sostiene Stefania Parigi che “nel momento da più parti si decreta la fine  del postmoderno e si ricomincia a parlare del New Realism, in sede letteraria come in sede filosofica, misurarsi  con il vecchio spettro  del neorealismo cinematografico comporta anche, necessariamente, porsi delle domande sul concetto usurato e mobile di realismo, sulla natura dell’immagine e del suo rapporto con il mondo sensibile”.
                                                      
 Stefania Parigi. “Neorealismo. Il nuovo cinema del dopoguerra””. Marsilio editore


12 settembre 2014

"I girasoli" scambio di opinioni su Face Book



foto di Gianni Quilici

Gianni Quilici
Amo i girasoli
così sottili e eleganti
così tondi e graziosi
con dei petali di un giallo così folgorante
da apparirmi come estrema sintesi estetica
tra vita e morte

Caterina Donatelli
Non ho mai pensato ai girasoli come 'sottili ed eleganti'. piuttosto li vedo barocchi a volte ambigui; troppo alti, con corolle troppo grandi, troppi semi. nervosi e carnali, meccanici nell'inseguimento nutritivo della luce del sole. offesi e piegati, scippati del loro frutto e vestiti di una memorabile decadenza...
21 agosto alle ore 10.41

Gianni Quilici
Tu, Caterina, li hai guardati da vicino , io no, li ho visti sempre da lontano nel loro massimo fulgore, in una sorta di subitaneo rapimento, anche quando da vicino li ho fotografati, perché mai li ho davvero guardati… E ho censurato, scrivendone, il loro miserabile declino della loro, tuttavia, memorabile decadenza.  

09 settembre 2014

"Miho Ikeda e il sguardo sul mondo" di Mira Giromini






La giovane artista giapponese, Miho Ikeda, lavora e vive da anni a Carrara, in occasione dell’evento “studi aperti” (http://www.carrarastudiaperti.it) anch’essa ha mostrato con gentilezza e molta disponibilità il suo piccolo e funzionale laboratorio in Via Carriona a Carrara.

Nata e cresciuta in Giappone, si laurea all'Università di Tokyo Gakugei, in pedagogia, specializzandosi in belle arti nel 2001. La sua formazione come scultrice di molti materiali (legno, argilla) la spinge a completare i suoi studi in Italia, il sogno di ogni scultore è atterrare nella città che ha visto Michelangelo cavare il marmo, Carrara. Si iscrive nel 2004 all’Accademia di Belle Arti di Carrara e si laurea dopo cinque anni con il professore Piergiorgio Balocchi dopo un inteso studio sulla tradizionale lavorazione del marmo.

Come tante storie umane la sua passione principale, la scultura, diventa un mezzo per perseguire un’altra passione, un’altra tecnica artistica: la pittura che fino a quel momento non aveva mai preso in considerazione. Imparando da autodidatta, sbagliando e riprovando; attraverso l’accademia e il professore Stefano Ciapponi, impara xilografia e incisione ma soprattutto impara a dipingere: ad usare i colori e il pennello. La tecnica che più le dà soddisfazione è proprio l’acrilico su tavola.
I primi lavori che realizza li sente molto vicini al suo percorso di studi, la pedagogia. Sembra che nei suoi disegni voglia rivolgersi al bambino che è in noi. “Questa presenza infantile permette ad ogni adulto che guarda i miei disegni di vedere sé stesso ed ad ogni genitore di vedere il proprio figlio” dice Miho con totale spontaneità.

Il suo mondo visionario non è mai staccato dalla realtà anzi prende spunto dalla natura: alberi, animali (pesce, gatto, cane, capra e tanti tipi di volatili dagli uccelli agli insetti) gli astri nel cielo (sole e luna). Tale approccio è confermato dai suoi ultimi lavori che ha eseguito durante il simposio di pittura in Norvegia quest’estate. Il mare, le rocce, una passeggiata nei verdi boschi incontaminati ispira la sua ultima creazione: “Sing a song”. Guardando i suoi quadri sembra che il cielo sovrasti i solitari protagonisti e li accompagni come metafora della vita alla ricerca di uno sguardo innocente sul mondo. La presenza costante della natura ci indica la necessità di recuperare una coscienza ecologica tanto più forte se rivolta ai bambini, una sensibilità che gli adulti sembrano aver abbandonato, ormai disincantati e inariditi. La natura ispira i suoi quadri ma allo stesso tempo sembra che questi elementi siano vere e proprie entità con una loro spiritualità, una manifestazione soprannaturale e dunque che trascende la legge umana, entità costanti che fanno si che i nostri protagonisti non siano mai soli.

Il suo lavorare è poetico e fiabesco. Ricorda da vicino un’altra artista giapponese Keiko Minami (1911-2004), che ha vissuto molto in Europa in particolare a Parigi, famosa per l’uso della tecnica della calcografia e della stampa su rame, i suoi disegni tanto delicati sono stati utilizzati dall’UNICEF. Miho Ikeda prende a modello la grande artista giapponese Minami e attraverso la sua arte parla di leggerezza, porta il sogno nel quotidiano e il quotidiano nel sogno, molti sono infatti i quadri che hanno per tema il sogno.

Tra i suoi ultimi sogni la realizzazione di tre mostre che si terranno in tre importanti città del Giappone: Tokyo, Osaka e Gumma. Le facciamo gli auguri per la sua arte e per il suo lavoro.

Per saperne di più:
www.ikedamiho.com


01 settembre 2014

"Una serata a casa Puccini " di Angelica D'Agliano




Come piccoli borghesi 

Le poltrone del Gran Teatro all’aperto sono come uno sciame sull’acqua del lago, ci si arriva galleggiando, su una passerella fra le barche e le dita perlacee dei giunchi. Ci tenevamo per mano, io malcerta sui tacchi avevo un occhio appannato perché mi sono sempre truccata male e sulle scarpe da donna non so camminare. Poi si è alzato il vento ed è cominciata la musica e  pensavo che quello dovesse essere ciò che sentiva forse Puccini nelle sue mattine di caccia a Massaciuccoli. Lunghe file di guardie e un coro di popolani avevano già guadagnato il proscenio e una melodia come di battaglia investiva noi turisti o cittadini versiliesi, coi nostri binocoli da teatro, i piccoli cuscini di gommapiuma, le coperte che sventagliavano al fresco vento di sud ovest, carico d’acqua, buio, a tratti minaccioso.

La casa di Puccini è ancora affacciata sul lago alle soglie di una lingua di cemento, con la serra Ottocento e un portoncino talvolta socchiuso nei giorni di visita, come fosse una pregevole dépendance del più pregevole Teatro. Le persone a volte vanno a mangiare il pesce nei ristoranti vicini, scivolano davanti al cancello chiaro e le palme che non fanno ombra. Giovani donne si tengono sottobraccio per raggiungere i caffè dai nomi d’Opera, e dalla vicina macchia di pini e ligustri, dai ciuffi di piante acquatiche appena impensierite dalla superficie del lago si leva qualcosa di sapore scuro, qualcosa come una tenera aria di jazz.
 

E allora penso che il lusso e l’invito al viaggio, il senso di distruggimento e di miseria, il rosso velluto degli archi nelle Opere di Puccini fosse una specie di sovrabbondanza ch’egli avesse presente  in testa in una forma molto minore e molto più completa, ma che non ci fosse altro modo per dire quel che aveva da dire, e che questo vada già bene per riempire la vita di moltissimi , senza che ci sia la possibilità di stancarsene mai.
Questo penso o pensavo anche l’altra sera quando all’improvviso il vento non ci ha dato più tempo. L’aria si è fatta sorda, sempre più densa, un fremito ha sciolto le nuvole e l’acqua si è rovesciata su una delle infinite recite di Turandot, appena un sospiro dopo la morte di Liù. Siamo scappati tutti, come piccoli borghesi.


30 agosto 2014

“A life in pictures” di Douglas Kirkland


Douglas-Kirkland-Monograph

di Mimmo Mastrangelo

Un giovanissimo (appena ventiquattrenne) Douglas Kirkland pochi mesi prima che  Marilyn Monroe morisse realizzò con lei un memorabile portafolio di scatti.
Per festeggiare gli ottant’anni del  grande fotografo di origine canadese quei famosi clic alla superdiva di Hollywood vengono  riproposti al Festival di Venezia  nella mostra-evento “A life in pictures”, prodotta da Vanity Far insieme  all’Istituto Luce Cinecittà.

Era il pomeriggio del 17 novembre 1961 quando  Kirkland, accompagnato dai colleghi più esperti Jack Hamilton e Stanley Gordon, entrò nella modestissima abitazione della Monroe a Beverly Hills per realizzare un servizio fotografico  destinato alle pagine della famosa rivista “Look Magazine”. Ne uscì un reportage insuperabile con  scatti che sono entrati nella memoria collettiva, oltre che  nella storia della fotografia e del cinema. Senza flash  e grazie solo alla luce a giorno, Kirkland   riprende dall’alto della stanza e “a piano del pavimento”  una Monroe bellissima (il suo agente disse però  al fotografo che era sottopeso per dei recenti problemi di salute), distesa su un letto sfatto, avvolta  in un lenzuolo volutamente di seta e con lo sguardo puntato dritto all’obiettivo.

Ma sebbene le foto risaltino il fascino della superdiva, ogni fermo-immagine si riveste di un particolare ed indecifrabile  alone, quasi come se da ciascuno di esso  trasparisse quello stato di perenne inquietudine che affliggeva la donna. Kirkland  avvicina il suo occhio ad una creatura  dalla bellezza più spirituale che mortale, ma quello che sembra più intrigarlo   è cercare di  affondare con discrezione il suo sguardo nel mistero   che la Monroe racchiudeva oltre il suo corpo. “Mi trovavo a un passo dalla grande Dea – scriverà Kirkland – la bellezza voluttuosa di Marilyn aveva questa strana  caratteristica: non era davvero di questo mondo…La Marilyn Monroe con cui avevo  trascorso alcune ore aveva lasciato il segno su di me”.

Kirkland ritornò  a casa dell’attrice il giorno dopo e insieme visionarono i provini del reportage, ma il fotografo si trovò davanti un’altra donna. “ Quando la porta si aprì fui accolto da una persona completamente diversa da quella che mi ero aspettata. Era Marilyn, ma irriconoscibile. Portava gli occhiali scuri e una sciarpa legata intorno alla testa e quando parlò nella sua voce non c’era più musica. Sembrava esausta, sfinita e agitata…”.

Marilyn Monroe verrà trovata nella sua abitazione di Brentwood, a Los Angeles,  il 5 agosto del 1962, l’autopsia rivelerà la causa del decesso in un overdose di barbiturici.  “Avevo creduto di scoprire chi era davvero Marilyn   – confesserà ancora Kirkland – ma davanti alla donna triste e depressa che mi aveva accolto l’ultima volta per guardare con me le fotografie, mi ero dovuto rapidamente ricredere. Non ho mai saputo che fosse successo, ma mi era chiaro che non c’entrava niente con me e con la ragione della mia presenza lì”.

Gli  scatti di Kirkland esposti a Venezia sono in tutto ottantotto e oltre alle foto di Marilyn si potranno ammirare   quelle su Brigitte Bardot, Nicole Kidman, Suran Sarandon, Warren  Beatty, Raquel Welch, Elizabeth Taylor…



A Life in pictures- Douglas Kirkland. Lido di Venezia.  29 agosto- 6 settembre DOUGLAS KIRKLAND

26 agosto 2014

"Il sogno mancino" di Mario Pellegrini




di Luciano Luciani


            Per percepire l’incanaglimento diffuso ormai è sufficiente affacciarsi sul pianerottolo del condominio dove abitiamo, ma anche i rumori che ci arrivano dal condominio più grande, il mondo, non sono meno inquietanti. Segnali piccoli e grandi ci svelano come il nostro tempo si senta sempre più risentito e deluso sia verso le speranze di appena ieri, sia nei confronti di un presente color ‘grigio-desolazione’ e povero di attese. Dall’Europa del nord al Mediterraneo, dall’Ucraina al Medio oriente è tutto un rifiorire di nazionalismi anacronistici, regionalismi beceri, municipalismi gretti per non parlare dei fondamentalismi religiosi. Il vecchio continente, un tempo culla della civiltà e dei diritti, delle libertà e della tolleranza, sembra assistere indifferente al serpeggiare degli umori velenosi del razzismo, della xenofobia, dell’antisemitismo… Cupi, davvero cupi, questi primi quindici anni che hanno inaugurato il nuovo secolo e il nuovo millennio e tornano alla mente le parole di Primo Levi: “Esistono energie spaventose che dormono un sonno leggero”.

Diventa allora importantissimo, addirittura strategico, attivare al più presto i necessari contravveleni, gli indispensabili antidoti: ovvero lo straordinario potere della memoria.
Memoria, ma di cosa?

Per esempio, dei punti “alti” della storia del secolo scorso. Il ricordo delle vicende, degli eventi, dei protagonisti che hanno contribuito all’affermazione, sia pure faticosa, tormentata, contraddittoria, di idealità, valori, principi di libertà e giustizia, fraternità e solidarietà.

Procede in questa direzione un libro di Mario Pellegrini Il sogno mancino. Diario, ancora fresco di stampa ed edito nelle collana di Narrativa della Carmignani Editrice di Cascina. L’Autore, operaio oggi in pensione, è stato nei suoi anni più verdi sindacalista, dirigente politico, amministratore comunale. Un impegno civile a tutto tondo, il suo, non abbandonato neppure nell’età matura e che ha saputo prendere altre strade: per esempio quelle della scrittura, in versi, in prosa e in questa sua “autobiografia per frammenti” di un’utilissima memoria. Nel Sogno mancino Pellegrini, infatti, racconta di sé e della generazione dei figli dell’immediato dopoguerra: le ragazze e i ragazzi che alla metà degli anni sessanta tentarono un generoso – e sconfitto – “assalto la cielo”, la cui eco, nonostante sia trascorso ormai mezzo secolo, permane ancora nell’immaginario collettivo delle generazioni successive. Come fonte di ogni male per i conservatori e i reazionari d’ogni sorta, per molti, invece, ancora oggi il ricordo di uno straordinario processo di liberazione, personale e collettivo, dai vincoli di una società illiberale e ingiusta e dai ceppi di un costume arretrato e ipocrita.

Tornano nelle pagine di Pellegrini le ingiustizie subite da studente all’interno di una scuola autoritaria e classista, contrapposta alla severità di un altro tipo di educazione: quella, a suo modo, di eccellenza che si riceveva presso l’Istituto di studi comunisti di Bologna “Anselmo Marabini” dove si studiava per diventare dirigenti del Pci e gli insegnanti si chiamavano Giuliano e Giancarlo Pajetta, Nilde Iotti, Enrico Berlinguer, Giorgio Napolitano… L’Autore rievoca le lotte per la pace nel Vietnam e le manifestazioni antifasciste che connotarono la formazione politica e civile di un’intera generazione; poi i lunghi mesi, anche questi in un certo qual senso formativi, del servizio militare; gli anni degli impegni amministrativi in un piccolo Comune della provincia di Pisa; il lavoro, prima in una vetreria a conduzione cooperativa, la Genovali, poi presso le Fonderie Pisane dove Mario non manca mai di praticare e difendere i diritti dei lavoratori.

Pellegrini ripercorre tutte queste esperienze, senza tralasciare anche alcune dolorose vicende familiari, con la determinazione di sempre, la saggezza dell’uomo maturo, un’ironia tutta toscana sempre in punta di penna e la consapevolezza alta, sono parole sue, che “la politica si costruisce nelle azioni quotidiane, nelle lotte degli operai e degli studenti, ed è una nobile arte solamente se disinteressata e al servizio dei bisognosi” (p.77).


Mario Pellegrini, Il sogno mancino Diario, Collana Narrativa, Carmignani Editrice Cascina (Pi), luglio 2014, pp. 88, Euro 10,00

15 agosto 2014

“Voglia di guardare” di Antonio Tentori



di Gordiano Lupi

I Ratti di Bloodbuster sono un’idea geniale. Piccole e agili guide per conoscere il mondo del cinema di genere, scritti senza tanta prosopopea da critici con la puzza sotto il naso, popolari, godibili, interessanti. Per il momento sono usciti: Nudi e crudeli – I mondo movies italiani (Antonio Bruschini e Antonio Tentori), Tutte dentro! - Il cinema della segregazione femminile (Stefano Di Marino e Corrado Artale), Macchie solari – Il cinema di Armando Crispino (Claudio Bartolini), Kiss kiss… Bang bang – Il cinema di Duccio Tessari (Fabio Melelli), Maurizio Merli – Il poliziotto ribelle (Fulvio Fulvi). Voglia di guardare – L’eros nel cinema di Joe D’Amato rappresenta una riedizione, ampliata e aggiornata, di un vecchio lavoro di Tentori uscito per Castelvecchi nel 1999 (Joe D’Amato - L’immagine del piacere). 

Il libro di Tentori è informativo e divulgativo, senza pretese scientifiche, scritto con un linguaggio piano e comprensibile, accessibile a tutti, proprio come l’avrebbe voluto Joe D’Amato. Un solo errore, che auspico venga corretto nella seconda edizione, riguarda il film Papaya dei caraibi, desunto (credo) dalla lettura di Stracult dell’ineffabile Marco Giusti. Tentori afferma che Melissa Chimenti - interprete del film - è lo pseudonimo di Annj Goren (Anna Maria Napolitano), ma non è vero: Melissa Chimneti esiste, non è attrice di grande fama, ma ha interpretato una manciata di pellicole. Il testo di Tentori mi dà la possibilità di raccontare in breve la figura di Aristide Massaccesi, un regista definito dai critici superficiali il re del porno, ma che in realtà amava erotismo e orrore, oltre a essere un grande artigiano del nostro cinema di genere.

Aristide Massaccesi nasce a Roma il 15 dicembre 1936 e può essere considerato il regista più prolifico del cinema italiano. Massaccesi viene da una famiglia di persone che lavoravano nel cinema, adesso figlio e nipote ne continuano la tradizione come operatori tecnici. Massaccesi è l’essenza stessa dell’artigianato cinematografico: di quasi tutti i suoi film è anche sceneggiatore, direttore della fotografia, spesso anche produttore, in coppia con la moglie Donatella Donati. Nel cinema ha fatto di tutto, cominciando da operatore, passando a direzione di fotografia, regia e produzione. Non esiste genere che non abbia esperimentato: western, cappa e spada, peplum, decamerotici, kung-fu, guerra, erotico, sexy, hard, mondo movies, fantasy... forse mancano soltanto i musicarelli. In tutti questi film D’Amato porta il suo mestiere, con pochi soldi dà ritmo e spettacolarità a pellicole che si basano su modeste sceneggiature e cast di attori non sempre all’altezza. 

Tra la sua ricca dotazione di pseudonimi è noto al grande pubblico come Joe D’Amato con il quale firma gran parte dei film di una lunga carriera. D’Amato non è solo il porno italiano di Rocco Siffredi e le avventure erotiche di Tarzan o di Marco Polo, che nel genere hanno una loro dignità. Pure in certe pellicole Massaccesi non dimentica mai sceneggiatura, soggetto e gusto scenografico. Quando gira un film, sia esso porno, horror o hardcore, il rispetto dello spettatore è la prima cosa. Resta uno degli ultimi autori di pellicole hard girati su pellicola (35 mm.) e con struttura narrativa dignitosa.

Il pubblico dell’horror ricorda Massaccesi per tre film importanti: Buio omega, Antropophagus e Rosso sangue e per essere stato l’interprete italiano del filone splatter. I tre film sopra citati sono tra gli horror più significativi degli anni Settanta - Ottanta, lavori che resteranno nel tempo come le opere di Fulci, Bava, Margheriti, Deodato, Lenzi, Soavi e Argento. D’Amato realizza piccoli gioielli con poche lire, nella buona tradizione del cinema italiano di genere, rispettando il gusto per il gotico e spingendolo all’eccesso sino a farlo confluire nello splatter.

La carriera di Massaccesi comincia con la scuola di cinema a Roma, subito dopo si impiega come direttore della fotografia, che resta la sua principale occupazione a cavallo degli anni Cinquanta e Sessanta. Massaccesi mette da parte una grande esperienza prima come aiuto fotografo (con Jean Renoir ne La carrozza d’oro), poi come direttore della fotografia (la sua vera passione) al servizio di registi come Mario Soldati (È l’amore che mi rovina, 1951) e Mario Mattoli (L’inafferrabile, 1951), come operatore per registi come Carlo Lizzani (L’oro di Roma, 1961), Mario Bava (Ercole al centro della terra, 1961) e Umberto Lenzi (Paranoia, 1970). La gavetta di Massaccesi è lunga e tocca tutti i generi possibili: dal poliziesco alla commedia passando per lo storico. 

Solo nel 1972 decide di mettersi dietro la macchina da presa per film di genere western, storico e commedie erotiche. Pellicole come: Un bounty killer a Trinità, Sollazzevoli storie di mogli gaudenti e mariti penitenti, Fra’ Tazio da Velletri e La rivolta delle gladiatrici. Ma è solo con La morte ha sorriso all'assassino (1973) che comincia a fare sul serio. Non fu un successo, nonostante la presenza di attori come Klaus Kinsky e Giacomo Rossi Stuart. Per questo motivo D’Amato migra verso altri generi come l’erotico soft, anche perché incontra la bella indonesiana Laura Gemser, interprete ideale per una serie di pellicole che dovevano sfruttare il successo internazionale del libro Emmanuelle della Arsan e delle pellicole interpretate dalla intrigante Silvia Kristel. Sono cinque gli episodi che D’Amato dirige con Laura Gemser in questa serie rinominata Emanuelle con una sola emme per evitare la denuncia per plagio. 

A nostro giudizio Massaccesi ha dato il meglio di sé nel genere erotico e in quello horror, toccando vette irraggiungibili quando riusciva a contaminare entrambi i generi. Ci sono pellicole interessanti che contaminano il porno soft con l’horror sia nella serie Emanuelle (Emanuelle e gli ultimi cannibali e Emanuelle in America), sia fuori (alcuni fine anni Settanta: Sesso nero, Hard sensation, Porno Holocaust e Le notti erotiche dei morti viventi).

Sesso nero è una pellicola cult: è il primo film porno girato in Italia e proiettato nei neonati circuiti a luci rosse. Siamo nel 1980 e D’Amato aveva già girato alcune scene hard in Emanuelle in America (1976), ma erano semplici inserti che nella versione regolare della pellicola vennero tagliati. Emanuelle in America uscì in versione uncut solo a metà anni Ottanta.

Massaccesi si ricorda per aver scritto, diretto, fotografato e prodotto Buio omega (1979), ottimo remake in versione splatter di un vecchio film di Mino Guerrini (Il terzo occhio). La musica dei Goblin (freschi di Profondo Rosso con Argento) contribuì al successo, ma ricordiamo pure l’interpretazione di attori inquietanti e ben calati nella parte. In questo film Massaccesi si lascia andare e affonda lo sguardo nella carne viva, mostrando intestini smembrati e unghie strappate. “Erano soltanto interiora di maiale”, disse D’Amato. Però gli effettacci erano ben realizzati. La fotografia sporca abusava di colori come il giallo e il verde  scuro per rendere bene il senso di disgusto e di nausea che raggiunge l’apice nella scena del pasto dopo un massacro.

Massaccesi ha dato vita insieme a Luigi Montefiori (in arte George Eastman), - attore, sceneggiatore ed ex giocatore di basket dalla stazza gigantesca (più di un metro e novanta) -, a un prolifico sodalizio. Il primo lavoro importante dei due autori è Antropopahgus (1980), un film indimenticabile, vera icona del cinema di D’Amato. La pellicola è splatter puro ma con una trama avvincente e una scenografia curata: questa è la vera novità per il genere. Da ricordare: la scena del feto strappato e divorato (un coniglio spellato annegato nel sangue), gole recise, intestini maciullati, cadaveri decomposti e altre prelibatezze. Inutile dire che nel 1980 fece grande scalpore, dato che il pubblico non era avvezzo a vedere certe cose. In Inghilterra passarono alcune scene in televisione spacciandolo per uno snuff movie. Al solito anche in Antropophagus l’atmosfera è malsana e macabra, arricchita da effetti spettacolari. Pochi mesi dopo Luigi Montefiori sceneggia un altro film dove lui stesso interpreta la parte di una specie di mostro immortale che pare la fotocopia splatter di Michael Myers di Halloween. Il film è Rosso sangue (1982) ed è il meno riuscito dei tre horror di D’Amato, pure se è spaventoso al punto giusto per come mostra atrocità e sangue con freddezza. La storia racconta di un serial killer prodotto da un esperimento genetico che si aggira per le strade di un paese e uccide innocenti. Da ricordare la scena del forno e l’accecamento del mostro che come un novello Polifemo rantola e si dimena cercando di far fuori chi l’ha ucciso.

              Massaccesi e Montefiori avevano già girato molte pellicole hard nella       Repubblica Dominicana, inventando in Italia il genere e dando vita alla più assurda serie di film pornografici che la storia del nostro cinema ricordi. Tra l’altro le pellicole vennero realizzate con uno stesso gruppo di attori che cambiava parte da un film all’altro. Venivano anche utilizzate scene di un film  per inserirle in una pellicola successiva. Gli hard dominicani vennero girati tutti nello stesso anno e il materiale fu montato successivamente in studio.

Nel campo dell’erotico D’Amato va ricordato per alcune pellicole raffinate girate nel corso degli anni Ottanta sulla scia del successo di film d’autore come La chiave. Pellicole come L’alcova, La lussuria e Il piacere sono considerate dai critici tra le migliori prodotte in Italia nel campo del cinema erotico.

Joe D’Amato termina la carriera girando quasi esclusivamente hardcore, genere al tempo molto redditizio. In questo campo il sodalizio con Luca Damiano ha prodotto alcuni lavori di pregio che vengono ancora ricercati dagli amanti del genere.

Ricordiamo Aristide Massaccesi ottimo produttore di horror italiano. Insieme a Luigi Montefiori e altri amici apre la casa di produzione Filmirage che lancia registi come Michele Soavi e Claudio Fragasso. Citiamo tra i film prodotti: Deliria (1987) di Michele Soavi, Killing Birds (1987) di Claudio Lattanzi (in realtà pare lo abbia diretto D’Amato o che abbia aiutato molto il giovane regista), La casa 3 (1988) di Umberto Lenzi, La Casa 4 (1989) di Fabrizio Laurenti, DNA – Formula letale (1990) di Luigi Montefiori e La Casa 5 (1990) di Claudio Fragasso, la miniserie Troll (cap. 2 e 3 nel 1990) e persino il bergmaniano Le porte del silenzio (1991) di Lucio Fulci.

Massaccesi rientra alla regia horror  con un buon prodotto come Frankenstein 2000 - Ritorno dalla morte (1992) film poco distribuito e di scarso successo, scritto e sceneggiato da Antonio Tentori. Il suo ultimo film importante è il thriller erotico La jena (1997). Massaccesi era un uomo gentile e riservato, sempre pronto alla battuta: pare quasi impossibile che abbia realizzato film pornografici espliciti e tanti horror sanguinolenti. Con il passare del tempo si è costruito una grande fama in tutto il mondo ma non ha mai rinunciato a fare artigianato cinematografico, realizzando anche quindici film per stagione. Ha sempre lavorato nel cinema low cost, imitando i grandi successi: usciva Caligola, lui si precipitava a girare Caligola la storia mai raccontata, aveva successo La chiave lui proponeva L’alcova e Voglia di guardare, era buono l’esito commerciale di Fuga da New York lui girava Bronx lotta finale, e così via. Le sue regie dovrebbero aver superato le duecento, ma non è possibile essere precisi. Di sicuro la sua fama è paragonabile a quella che aveva Ed Wood a Hollywood: uno che fa i film in fretta e furia, ma mettendoci sempre un tocco di folle genialità.

Massaccesi è morto improvvisamente a Roma il 23 gennaio 1999 all’età di 63 anni, tra l’indifferenza quasi totale della stampa di settore e dei quotidiani nazionali.  


Antonio Tentori
Voglia di guardare
L’eros nel cinema di Joe D’Amato
I Ratti di Bloodbuster – Euro 12 – Pag. 160




06 agosto 2014

foto da “Calendario Pirelli 2013” di Steve McCurry




di Gianni Quilici

Questa è una delle foto scattate da Steve McCurry per il Calendario Pirelli 2013 e realizzate a Rio de Janeiro. . Non il classico calendario con modelle o attrici seminude in studi asettici, ma un libro calendario fotografico contenente 34 scatti, 23 dei quali con protagoniste le modelle, inserite dentro il paesaggio urbano e sociale di una metropoli.

In questo scatto l’occhio infatti viene colpito da due elementi ugualmente forti e contrastanti: la modella e la vita quotidiana che le scorre accanto.   

Ecco, infatti, la ragazza, una modella con un volto intenso, nessuna nudità, se non una scollatura sobria in una veste nera, che le delinea il corpo flessuoso e le lascia scoperte soltanto  le caviglie. E intorno alla modella ecco  vediamo la vita quotidiana in movimento, una vita quotidiana scolpita significativamente nella scelta di quell’attimo: il cane che si guarda intorno, il ragazzo fantasmatico (per il “mosso”) che attraversa le rotaie, il tram che, sullo sfondo, sta arrivando nel chiaro scuro di una notte illuminata e colorata nell’ arancione caldo dei tranvai.

C’è armonia tra i due elementi centrali: la ragazza e il quadro d’insieme? No, non c’è armonia. La modella, infatti, guarda l’obiettivo e non solo è consapevole dello scatto, ma è stata vestita, truccata, diretta in funzione della foto stessa; la vita che le scorre accanto è invece viva, spontanea. Ma questo è forse lo scopo di Steve McCurry: creare dissonanza. Eseguire ciò che gli è stato commissionato e stravolgerlo introducendo un’antitesi, un contrasto. Per un verso la foto pensata, calcolata, preparata come in uno studio; per un altro (almeno così sembra) la vita di strada colta nella sua felice imprevedibilità.

E tuttavia c’è in questa dissonanza una qualche possibile sintesi? Credo ci sia nella bellezza poetica dell’insieme: l’erotismo sottile, delizioso e nascosto del  volto e del corpo della ragazza e la presenza scolpita di pochi, ma significativi elementi rappresentati nei colori onirici della notte.

Steve McCurry. Calendario Pirelli 2013.


29 luglio 2014

I racconti di Enzo Guidi: originali e disperati



di Gianni Quilici

Dopo un notevole romanzo, “Dalmatica”, purtroppo poco conosciuto, Enzo Guidi ha raccolto una serie di racconti “Occhiatina a San Pietro e altre fughe” (Maria Pacini Fazzi editore), ognuno dei quali è stato illustrato con la solita sottile e simbolica ironia da Antonio Possenti.

“Occhiatina a San Pietro” è uno di questi racconti, il più esteso e elaborato. Un vero e proprio racconto picaresco di due giovani: Ruby, che ama scrivere canzoni sadiche su musiche d’amore dolciastre, con la voce da basso cavernosa, che usa “sadicamente” per imitare l’unico suo vero, grande idolo, Elvis Presley; e Frankie, orfano e bambinone, che vorrebbe una donna, senza tuttavia riuscire a trovarla. Proprio quest’ultimo si sogna che tutti coloro che muoiono sono tenuti nascosti dal Papa nei sotterranei del Vaticano da cui non li fanno più uscire. Ruby è perplesso, ma quando Frankie tira fuori una cassa di birra tedesca “originale, gotica, sadica e dura” riesce a convincersi …  Da qui inizia l’avventura a Roma dei due che Enzo Guidi sa raccontare con maestria: l’euforia iniziale, la fatica e il caldo, la fame e la mangiata pantagruelica, l’arresto e la paura, fino al magnifico finale realistico e allucinato, che scava profondamente dentro le due psicologie.

Le altre “fughe” sono una trentina di racconti brevi di vario genere: alcuni poetici, dichiaratamente autobiografici, colgono la dimensione lirica di un’infanzia ipersensibile e il flusso di una giovinezza inquieta e impassibile in una Lucca pigra e misteriosa; diversi rappresentano atmosfere da incubo, percorse da una febbrile visionarietà di un mondo crudele e grottesco, sempre più atomizzato, in cui si trova a vivere un Io scisso e sradicato, una sorta di illuminista dell’irrazionalità.

Ciò che unisce questi racconti è una comune visione del mondo e un linguaggio funambolico e potente, felice nel cogliere i dettagli, che amalgama efficacemente il tono quotidiano più volgare con le riflessioni più sottili.  
                                                                                      
Enzo Guidi. Un'occhiatina a San Pietro e altre fughe. Maria Pacini Fazzi Editore. Lucca. Euro 12,00

20 luglio 2014

"Io ti troverò" di Shane Stevens



di Camilla Palandri

 E’ solo un momento iniziale la  sensazione di scoraggiamento che prende di fronte al voluminoso romanzo di Shane Stevens, di circa 8oo pagine,  ma scompare  rapidamente  perché la narrazione coinvolge  subito.


L’incipit è un fatto di cronaca vera che ebbe molta risonanza nell’America negli anni 50.
 Il caso di  Caryl Chessman  che, condannato a morte nello stato della California per reati vari, diventò scrittore in carcere  e lottò tenacemente contro la propria sentenza riuscendo ad avere dopo ben otto rinvii in dodici anni. Alla fine giustiziato fu assunto come simbolo per il movimento  che si batteva contro l'abolizione della pena di morte.

 Nel testo la realtà si fonde sapientemente con l’invenzione letteraria  fino a farne perdere quasi i confini ed è in questo contesto che emerge la figura dell’efferato serial killer Thomas Bishop. Figura che lascia sconcertati per la crudeltà e allo stesso tempo affascina per la fredda lucidità della mente.
Sullo sfondo c’è la società americana degli anni 70 il cui lato oscuro viene rappresentato  da una carrellata di personaggi che ruotano intorno alla figura del mostro: psichiatri, giornalisti, politici, criminali, poliziotti. Tutti dietro al folle con qualcosa da ottenere e qualcosa da nascondere.

Nella prima parte l’autore ricostruisce la storia del protagonista e lo sviluppo della sua personalità disturbata,dall’infanzia traumatica con una madre crudele che lo sevizia  al suo orribile omicidio,dall’internamento in un istituto psichiatrico in cui trascorre larga parte della sua giovinezza  alla fuga e  quindi l’inizio di quella escalation di violenza che lui considera la sua “opera vendicatrice”.
La follia viene analizzata nei suoi particolari ,i lati più oscuri ed inquietanti della mente umana e il Male puro vengono ben rappresentati, nascosti  dietro l’apparenza di un giovane di bell’aspetto, gentile , a prima vista innocuo.
Così adesca le sue vittime , con le buone maniere.
In realtà l’incontro ,di solito casuale, è solo l’inizio di un piano studiato nei dettagli sempre con il solito epilogo.
Bishop  si rende inafferrabile perché tutto è accuratamente programmato nella sua mente folle. Cambia  continuamente territorio, assume nuove identità, pianifica tutto con freddo calcolo, senza mai compiere passi falsi.
 E’ un vero mostro, anche se talvolta,nei momenti in cui le sue visioni oniriche lo riportano alle sofferenze infantili subite, suscita quasi un sentimento di pietà, perché è quel  vissuto di dolore la causa primaria della sua alienazione .

L’altro personaggio rilevante del romanzo, il reporter investigativo  che sarà chiamato ad occuparsi del caso, entra in scena nella seconda parte del libro.
Adam Kenton è l’unico che riesce prima ad identificare il serial killer e poi a penetrare nei meccanismi  tortuosi della sua mente scoprendo tracce che altri non hanno colto. 
C’è qualcosa di particolare  che lo accomuna a Bishop, un vissuto  di  tristezza che rimanda all’infanzia e che pur nella diversità delle situazioni, ne accentua le similitudini.
 
Inizia così una serrata “caccia all’uomo” che vede coinvolti una miriade di personaggi per motivi diversi, ma sarà l’intuito di Kenton che porterà all’epilogo la vicenda.

Il ritmo diventa sempre più incalzante  e nella parte finale  si assiste ad una vera e propria lotta contro il tempo per impedire al folle omicida di terminare la sua impresa , un’impresa di proporzioni grandiose con la quale vuole passare alla storia.

Bello il finale che si chiude con un interrogativo e non concludendo in modo definitivo lascia quindi  aperte altre possibilità .

 Frequenti  sono i cambi di punti di vista che  vivacizzano la narrazione che presenta tuttavia alcuni difetti: le  parti in cui l’autore si dilunga sui meccanismi della politica e del giornalismo appesantiscono la narrazione,  ci sono troppi  personaggi  sulla scena, la facilità con cui il protagonista  attua i suoi cambiamenti d’identità  li rende molto inverosimili.

E’ comunque senza dubbio un bel thriller che vale la lettura per chi ama il genere.
La narrazione che utilizza lo stile della  cronaca è molto scorrevole e la tensione  rimane viva fino alla fine,  anzi si accentua con il progredire della storia.


Scritto  nel 1979 da Shane Stevens, pseudonimo di un scrittore americano  la cui figura è rimasta avvolta nel mistero  e di cui si sono perse rapidamente le tracce, il romanzo fu elogiato dallo stesso Stephen King  che lo definì uno dei migliori libri mai scritti sul Male assoluto.

Titolo: Io ti troverò
Autore: Shane Stevens
Editore: Fazi
Traduttore: Levantini S.; Bottali G.
Pagine: 798


19 luglio 2014

"Per Marinella Lazzarini” di Laura Poggetti




Di te parleranno

 Non ce l'ho fatta a sentire gente parlare di te
di te parlano meglio le foglie
le nuvole alte e i trilli degli uccelli
di te parlerà la tua assenza
in un mondo di colpo impoverito
di te parleranno certe matite colorate
o i pizzi antichi e candidi
sulla madia di legno
...di te e della tua macchina del tempo
e dei tuoi sì e dei tuoi no
capaci di tagliare in due la storia
parlerà chi grazie a te
è andato avanti

                    Laura Poggetti