28 ottobre 2015

"Gl'innamorati" di Carlo Goldoni





nota di Gianni Quilici



Ha senso leggere Goldoni oggi?
Prendiamo uno dei testi più rappresentati Gl'innamorati.
Sì e no,
ma in definitiva sì.

Sì, perchè ha una straordinaria capacità
di delineare personaggi
attraverso dialoghi veloci,
ricchi di sfumature psicologiche,
molto più moderni di tanti moderni.
Perché questi dialoghi
sono a volte pensati
non detti,
un modo di introdurre
una sorta di semi-inconscio,
pensieri di cui si è consapevoli,
ma di cui spesso si rimane vittima,
appunto perchè inespressi, latenti.

No, perchè
oggi c'è una tale complessità di interelazioni
che quei personaggi possono risultare lontani.

In definitiva sì, perchè
lo stile e la profondità
mettono comunque in moto,
comunicano, attraggono, fanno fermentare ....




Carlo Goldoni. Gl'innamorati. Einaudi.







27 ottobre 2015

"Zombie in TV" di Marcello Gagliani Caputo




            Le migliori zombie-serie 
                 del piccolo schermo

di Gordiano Lupi

SINOSSI: Dopo aver saturato il mondo cinematografico, lo zombie ha trovato nuovo terreno fertile in televisione, dove il personaggio sta vivendo una seconda giovinezza. Dal successo mondiale di The Walking Dead allo spin-off Fear The Walking Dead, dalla sorpresa Dead Set al commovente In the Flesh, passando dalla sfrontatezza marcata Asylum di Z-Nation fino alla delicatezza romantica del francese Les Revenants, questo volume raccoglie le migliori serie tv zombesche che stanno affollando le televisioni di tutto il mondo, analizzandole criticamente e raccontandone la genesi. Prefazione di Paolo Di Orazio.

DALLA PREFAZIONE: [...] Non voglio anticipare cose che leggerete in questo splendido trattato, soltanto limitarmi a raccomandarne una lettura attenta e amorosa, e la divulgazione poiché personalmente vedo necessario erigere uno spartiacque tra ciò che è horror e ciò che non lo è. E questa operazione la si può compiere con successo cibandosi di questo libro ben scritto, che ci porta a spulciare nella produzione mondiale dei film sul morto vivente (ma anche per renderci conto di quanto l'Italia sia distante da quel che accade nel resto del mondo).

L’AUTORE: Marcello Gagliani Caputo è scrittore, saggista e critico cinematografico e letterario. Ha pubblicato Bad Boys - La Figura del cattivo nell’immaginario cinematografico per la Morpheo Edizioni, ha partecipato al libro Christopher Lee - Il Principe delle Tenebre, Profondo Rosso Edizioni e al volume Il Cinema di Michael Winner (Edizioni Il Foglio). Ha pubblicato la prima monografia su David Fincher, The Fincher Network (Bietti Edizioni), e ha partecipato al saggio The Walking Dead - L'evoluzione degli zombie in tv, nel fumetto e nel videogioco edito da Universitalia. Nel 2014 ha pubblicato l’ebook Zombie al cinema per Fazi Editore, mentre l'anno dopo Guida al cinema di Stephen King, Universal Monsters - L'epopea dei mostri in bianco e nero e Guida al cinema di Bud Spencer e Terence Hill. Alla sua squadra del cuore, la Juventus, ha dedicato la collana Almanacco Juventino - Tutte le partite della Juventus dal 1930 al 2014 e l’ebook Da Platini a Pogba - La Juventus dei campioni francesi (Delos Digital), mentre ha raccontato la storia della Champions League nel libro Champions Italia - Le italiane e la Coppa dei Campioni.

14 ottobre 2015

"Non è che l'inizio" di Gianni Quilici



                                                              Gianni Quilici. 1990
lettera di Martino De Vita

Caro Gianni,
                     è un romanzo il tuo che una volta letto e messo in libreria, non dovrebbe essere dimenticato. Ogni tanto non farebbe male riprenderlo, rileggerlo e rimeditarci ancora un po’ su.


Mi ritrovo, anch’io come  te, a pedalare per Lucca provando le tue stesse emozioni, le riflessioni su un lampione, su un muro, su un gatto. Le parole sono impresse nella macchina fotografica come patrimonio indistruttibile, come esperienza triste e allegra, nostalgica e solitaria di una ricerca senza fine. Le parole scritte o pensate sono i nostri pensieri che vorremmo confessare a noi stessi e che non abbiamo mai avuto il coraggio di confessare.


La delusione politica, il fermento (tormento) erotico, il rapporto con gli allievi sono tre  anime della tua personalità; azzarderei a dire “una e trina”, al di là dei miti, se così li vogliamo chiamare.  

Illumini di flash la città e la rendi protagonista di se stessa, di quello che offre e che ci ha offerto da sempre.


Tu non appari mai “malato” di nostalgia. Vai avanti per la tua strada, corri, urli, godi, soffri, impazzisci dalla solitudine e per le azioni incompiute, ma non soccombi.  Rimani pur sempre un’anima pura nel bel mondo dell’incanto…

Gianni Quilici. Non è che l'inizio. Tra le righe. Euro 13,00 


12 ottobre 2015

"Il Mastro, il sigaro e la sedia" di Beppe Calabretta

di Luciano Luciani

Partiamo dal titolo del libro: Il Mastro, il sigaro e la sedia. Romanzo calabrese. Mastro è il termine con cui ancora oggi si indica un artigiano specializzato, che eccelle in qualche attività al punto da poterla insegnare agli altri. È attributo di rispetto: e Mastro Andrea il rispetto lo merita, perché ama la cultura e soprattutto ama la bellezza degli oggetti ben fatti, che debbono sfidare il tempo e aiutare l’uomo a vivere meglio. È un falegname, lavora il legno, un materiale caldo, vivo… Costruisce cose concrete, tangibili. A partire dalle sedie. Perché una sedia è un progetto: c’è da scegliere il legno migliore, prendere le misure, definire le connessioni e gli incastri, le rifiniture, l’impagliatura, la lucidatura... E tutto evitando gli sprechi, di materiale e di tempo, intollerabili in una società povera come quella calabrese del secolo scorso.

La sedia è il paradigma del dovere, della fatica, del  lavoro ben eseguito.
Piacere è il sigaro.
Un piacere misurato, intelligente, che aiuta a volte a concentrarsi, talora a rilassarsi. Un piacere critico e ragionato, non nevrotico come la sigaretta.

Nel titolo Il Mastro, il sigaro e la sedia. Romanzo calabrese, troviamo, dunque, le coordinate etiche (e geografiche) dell'Autore e l’indicazione del vero protagonista morale - Mastro Andrea, appunto - di questa storia. Che ha per oggetto più di un secolo di vicende di una famiglia meridionale, calabrese, formata da Nicola, pescatore, e Annina, contadina. Il romanzo racconta soprattutto la storia del loro unico figlio, Vincenzo, che rimasto orfano di padre in tenerissima età a neppure dieci anni, andrà a bottega da Mastro Andrea, da quel momento la sua figura adulta maschile di riferimento. Una sorta di padre putativo, come fu Giuseppe, anche lui falegname, per Gesù.

Ragazzino sfortunato, Vincenzo: perché alla perdita del padre nella Grande Guerra, si accompagnerà quella della madre, Annina, che impazzita di dolore per la morte del marito, sparirà per lunghi, lunghi anni fino a riapparire, inaspettata, molto più tardi…
E Vincenzo affronterà il difficile mestiere di crescere senza la madre, in compagnia della nonna, l’affabulatrice della famiglia e della zia Vittoria, sorella di Annina, sarta dalle mani d’oro, ma sfortunata in amore: suo marito,infatti, emigrante, partito per "la Merica" per fare fortuna, non è più tornato.

Sullo sfondo, a suo modo protettivo ed educante, il piccolo borgo di Vela, le sua piazza animata, luogo della della diffusione delle notizie attraverso l’esibizione del cantastorie, l’unica fonte d’informazione per quei luoghi e quegli anni… Protettiva Vela: infatti, Vincenzo andrà difeso, perché le zanne della Storia grande, che non avevano risparmiato suo padre Nicola mandato a morire nel corso del primo conflitto mondiale, si allungano anche su di lui: il fascismo non perdona al giovane il suo rapporto filiale con Mastro Andrea, spirito critico e libero, e sia il Mastro sia il suo discepolo, in tempi diversi, saranno costretti ad allontanarsi dalla piccola comunità calabrese. Il Mastro andrà lontano e sarà partigiano, Vincenzo troverà nelle montagne calabresi, già luogo privilegiato di santi e briganti, la necessaria tutela in attesa di tempi migliori. E questi, sia pure a fatica, arriveranno e saranno i giorni del riscatto civile di Vela con il Mastro e Vincenzo indubbi protagonisti.

In questo romanzo storico e di formazione, l’Autore ci regala una serie di personaggi di prima fila difficilmente dimenticabili: la figura tragica di Annina; il tenero Nicola, suo marito; Vincenzo, loro figlio; il Mastro;  zia Vittoria... Figure robuste e ben tagliate come gli oggetti che uscivano dal laboratorio artigiano di Mastro Andrea, personaggi ben definiti e coerenti nel loro agire, curati nella psicologia e nella vita interiore.

Una saga familiare mediterranea, questa di Beppe Calabretta, che rielabora vicende private, autobiografismo, motivi storici, ideali civili in un‘epopea paesana paradigmatica. Vela, i suoi abitanti, le loro storie racchiudono in sé i termini di questioni più larghe: un secolo di rapporti subalterni del Sud con lo Stato unitario dal punto di vista degli umili. Raccontano il brigantaggio, l'emigrazione, la Grande Guerra, il fascismo, il problema meridionale: il difficile, e ancora attuale, riscatto del mezzogiorno; la sempre complessa, e a volte dolorosa, relazione tra tradizione e modernità .
L’esistenza quasi secolare di Vincenzo riassume in sé tutti questi temi e la narrazione della sua vita ne offre una lettura complessa e contraddittoria, ma anche carica di speranza per un domani tutto da costruire e forse migliore.

Pagine meditate e probabilmente sedimentate a lungo queste del Mastro, il sigaro e la sedia di Beppe Calabretta, una delle sue opere più complesse e impegnative.
Il risultato è una lettura appassionante e un messaggio umanissimo e positivo da consegnare al pubblico dei Lettori.

Beppe Calabretta, Il Mastro, il sigaro e la sedia. Romanzo calabrese, Tra Le Righe Libri, 2015, pp. 240, Euro 15,00

29 settembre 2015

"Alma Mater" di Yuval Avital




di Maria Teresa Landucci


Installazione icono-sonora per una foresta di 140 altoparlanti, leggendarie etoiles del Teatro della Scala e merlettaie.

Una breve sosta nell'anticamera appositamente oscurata e poi via .... immersione totale in una foresta di suoni, luci, immagini.

Nella "cattedrale" della Fabbrica del Vapore a Milano, incubatore e fucina di creatività, hai l'impressione di calarti in un mondo al primo impatto sconosciuto. Sul pavimento del grande e suggestivo spazio architettonico, di archeologia industriale, una serie di cerchi, delimitati da orbite di luce mobile, si susseguono uno dopo l'altro,  evidenziati da elementi in terracotta.

Forme volumetriche perfette, sfere e cilindri, che fungono da diffusori di nenie, canti, racconti, favole e preghiere che si sovrappongono una all'altra, intrecciandosi ai suoni della natura. Lingue diverse, timbri di voce differenti, ma ugualmente femminili.

Al primo sentire ognuna sembra parlare una lingua propria, ma oltre il primo e superficiale ascolto i suoni paiono unirsi, fondersi in un'unica melodia. Voci femminili che sembrano nascere dalla terra, ma alimentate da una sorta di spirito ultraterreno (i diffusori di suoni sono globi o cilindri in argilla cotta o pietra, alimentati al centro del cerchio di luce, da un fascio di cavi elettrici provenienti dall'alto, dalla copertura della sala).

Nella navata del grande spazio-cattedrale, baricentro dell'installazione, quasi fosse un immaginario ombelico, tre anelli contigui, evocazione del Terzo Paradiso di Michelangelo Pistoletto, tracciati sul pavimento tramite cumuli di terra. Simbolico legame fra passato, presente e futuro, ventre materno ed infinito cordone ombelicale. 

Mi stendo all'interno di uno dei tre anelli e mi lascio trasportare dal turbine di suoni, luci ed immagini di volti femminili che si alternano alle danze delle etoiles della Scala, Liliana Cosi e Oriella Dorella, proiettate in formato gigante, sulla facciata interna della cattedrale. Luogo di un immaginario altare, dove la bellezza non è artificiosa messa in scena, ma eleganza di movimenti e di corpi, che divengono danza e ricchezza espressiva di volti segnati dal tempo. Nessuna linea spigolosa, qui tutto è curvo e sinuoso, come a ricordare le forme femminili e avvolgenti, nell'abbraccio del ventre materno, luogo magico del concepimento e della vita.

 A margine della grande sala, nella navata sinistra, presenze femminili concrete: le donne dell'Accademia del Merletto a Tombolo, intente a lavorare ad un'opera d'arte fatta di fili e di infinita pazienza.  Il lavoro quotidiano che diviene performance d'arte, che tramanda e mantiene viva la perizia di queste donne.

Mi muovo fra le orbite di luce, ognuna all'occhio individuabile come un pianeta indipendente. Mi fermo, concentrandomi sulla miriade di suoni diversi che bombardano il mio orecchio, fino ad astrarmi dal luogo in cui mi trovo e percepire tali suoni come un'unica melodia, appositamente composta ed orchestrata. È questa la melodia della vita,  che rimanda al mistero che in ogni istante si rinnova, tramite la donna come motore e principio generatore, ma anche porta di ingresso di un ideale viaggio che dalle origini, attraverso il presente, ci conduce nel tempo futuro.

21 settembre 2015

"Non è che l'inizio" di Gianni Quilici





                  da "Lucca che vive" di Gianni Quilici
 Lettera di Andrea Appetito



Caro Gianni,
ho terminato da poco di leggere Non è che l’inizio. Grazie per avermelo inviato. Grazie per la fiducia.

Mi ricordo quando da un internet caffè qui vicino ti scrivevo e leggevo il tuo blog Gettare il corpo nella lotta

Nel protagonista del tuo libro c’è una disperata vitalità
Tutto è un’ipotesi
per usare una parola che ripeti più volte
Un’ipotesi di lavoro
Un’ipotesi di amore
Un’ipotesi di vita…

C’ è un’erezione continua che lo attraversa
Un’ipotesi di coito
spesso interrotto
alla vigilia di una svolta “epocale”
Quella del PCI
Alla vigilia di qualcosa che ancora non si dà o che sbuca appena
di corsa
come il bambino nell’ultima foto

Mi piace leggerlo come un’ipotesi di romanzo
senza freni
Spesso molto mentale spesso attraversato come scrivi da una voglia di manifestarsi così forte
da scomparire
una disperata vitalità nei rutti, nelle pisciate, nelle scopate, nelle fantasie erotiche o artistiche

Un’altra impressione: l’ho sentito  a volte autobiografico
non so se realmente lo sia
ma a volte si sente molto autobiografico
e come lettore a volte mi è sembrato di inciampare nel cordone ombelicale che lega il protagonista all’autore

Mi piace l’ipotesi di romanzo
il romanzo come ipotesi
cioè un coacervo di appunti poesie frammenti elucubrazioni voglie deliri fantasie erezioni

Il coacervo del protagonista però mi pare a volte troppo legato al suo autore

Il contesto
Lucca e i suoi vicoli le piazze che si aprono improvvise come certi desideri che affiorano al contatto o alla vista o al passaggio è una geografia provinciale che come lettore sento che ci sta bene addosso al protagonista

Il passaggio simbolico legato alla fine del Pci
è un contesto storico che mi aiuta come lettore ad amplificare il passaggio del protagonista dalla giovinezza all’età adulta (e tutte le sue resistenze…)

Forse come lettore mi è mancato un contesto più abbozzato
qualcosa di più sugli effetti
sulle vite
sulle relazioni di tutti i militanti di quel tempo
compreso il protagonista
che sta sempre
a parte
ma poi dice una cosa che sento molto tua
su quei comunisti che si sono sbrigati a definirsi non più tali
e che forse comunisti non lo sono mai stati
(condivido quel pensiero, un pensiero da gianni q di gettare il corpo nella lotta...)

 Ci sono queste tre righe che mi sono segnato perché ho pensato che più forte della caduta del Pci
Rimpiangeremo molto quel rumore
quel tonfo come scrivi che facevano un tempo le nostre lettere che cadevano nelle cassette postali
(come la lettera che lui scrive ad Eloisa… interessante nome  per un Abelardo che- piuttosto che evirato- è un’erezione permanente…)
“sento come un soffio
 la caduta leggerissima della lettera 
sul fondo della cassetta postale”

Ho apprezzato molto anche l’ironia che affiora nel “diario” del protagonista…)

Per quello che conosco e ho conosciuto gianni q
sento che la sua tensione è stata quella di corrispondere e creare trame

Oggi credo che la nostra battaglia culturale spesso invisibile e anonima
passi attraverso quella trama delicatissima e vitale
che dobbiamo tessere e ri-annodare pazientemente insieme

Perciò di tutti i predicati che usi nella postfazione qui ricopio quello che sento più urgente
Ri-creare

Andrea Appetito pubblica nel 2001 il libro "Cluster Bomb" per Altrastampa Edizioni (Napoli). Nel 2005 realizza "Quién es Pilar?", cortometraggio in co-regia con Christian Carmosino, selezionato in oltre 30 festival internazionali, riceve numerosi premi in Italia e all’estero. Nel 2007 un suo racconto "L’Eredità" viene messo in scena a teatro a Rio de Janeiro (Brasile) ed è tuttora in cartellone con oltre 80 repliche. Nel 2008 realizza  "L'ora d'amore" con Christian Carmosino, presentato in anteprima alla 3° edizione del Festival Internazionale del Film di Roma e vincitore di numerosi festival.



18 settembre 2015

“Orfanatrofio” di Francesco Zizola



di Gianni Quilici



Due sono gli elementi che spiccano e si fondono fulmineamente nello sguardo che posiamo su questa foto di Francesco Zizola; foto presente nel bellissimo libro Born Somewhere, che ha come soggetto l’infanzia vittima della povertà, dello sfruttamento e della guerra.

Il primo elemento: l’oscurità che avvolge quasi l’intera immagine; secondo: i volti di quattro ragazzi di un orfanatrofio somalo.

Questi volti sono  intensi, ognuno con una propria psicologia, evidenziata con forza dal primo piano: la dignità distaccata del più grande, la richiesta sofferta del bambino in basso, quella forse rassegnata del bambino sovrastante e infine soltanto l’indefinibile luce dell’occhio del bambino più piccolo.

Il buio che li avviluppa e le stesse ombre che si disegnano sui loro volti evidenziano e drammatizzano i loro primi piani. E’ uno di quei casi, in cui il vigore della forma diventa esso stesso contenuto e in cui non si può fare una netta separazione tra l’uno e l’altro, perché è nella loro simbiosi la potenza dello scatto.



Francesco Zizola. Baidoa. Somalia. 2000.   


12 settembre 2015

"Memorie dell’estate" di Emilio Greco




di Gianni Quilici

L'espressività di un culo snello e carnoso
Le braccia intrecciate sul capo come libertà o riposo
Il volto forse assorto e enigmatico
sulla via centrale di Tarquinia
 per gli occhi possibili di tutti.

Una scultura in cui la bellezza erotica,
in una contorsione plastica del corpo fluida,
è esibita, ma non compiaciuta,
anzi distaccata, allontanata
come se il senso della vita
fosse non in ciò che è immediatamente evidente
ma altrove,
in quel volto indecifrabile,
di una misteriosità pensante.

Emilio Greco. "Memoria dell'Estate". Tarquinia 1980.

11 settembre 2015

"Il Flauto Magico" di Mozart



di
                                            Simone Luti
Maddalena Ferrari

E’ stato davvero bello, il 16 agosto, ascoltare e vedere Il Flauto Magico nel cortile di San Micheletto a Lucca. La messa in scena di un’opera di Mozart, purché abbia alle spalle studio, amore e dedizione, ha sempre del miracoloso.

Questo allestimento, curato da AEDO- Accademia Europea dell’Opera,nell’ambito di un festival internazionale organizzato da University of Western Ontario e da Centro Studi Opera Omnia Luigi Boccherini, ha visto la partecipazione di giovani cantanti, che si sono avvicendati nel corso di tre serate ( due a San Micheletto, la terza al Real Collegio) ed anche nel corso di una stessa recita, su un nudo palcoscenico, sostenuti da una piccola orchestra coesa, sotto la direzione del maestro Simone Luti.

I movimenti avvenivano nella totalità della struttura ambientale, tra il porticato e il giardino, di fronte al pubblico, ma anche intorno ad esso, senza quasi scenografia; semplici costumi e oggetti che fungevano da segni o simboli davano riconoscibilità alle fasi del  Singspiel e, nonostante la povertà dell’impianto complessivo e alcuni tagli operati, la messa in scena ha restituito l’incanto della fiaba, una “favola per la ragione”, come recita il titolo del  bel saggio di Renato Musto e Ernesto Napolitano edito da Bibliopolis ( 1 ).

Nella rappresentazione, ben controllata dalla regia attenta di Mariano Furlani, molto suggestive sono apparse le apparizioni della Regina della Notte, interpretata da due cantanti, Amalea Lutsenko nel I atto e Laura Mackay nel II, che hanno dato spessore di terribilità al personaggio, rendendo le arditezze delle arie funzionali al ruolo e al momento; dal canto suo, l’ accompagnamento orchestrale ha saputo cogliere il senso di sospensione e di mistero avvolgente della partitura.
La scelta, giusta a mio parere, di mantenere la lingua tedesca per le parti musicali e di tradurre in italiano quelle recitate ha permesso di coniugare la fedeltà all’originale con la comprensibilità dell’intreccio.

I cantanti, dotati di belle voci, sia pure, quale più avanti, quale meno, in un percorso che necessariamente dovrà essere di maturazione, spinti dal desiderio di far bene e dall’entusiasmo, hanno dimostrato presenza scenica e abilità recitativa; hanno colpito soprattutto le due interpreti della Regina della Notte e Anthony Rodriguez,  scherzoso, lieve e dignitoso nei panni di Papageno.

(1) Renato Musto Ernesto Napolitano UNA FAVOLA PER LA RAGIONE – Miti e storia nel Flauto magico di Mozart

06 settembre 2015

"Lanzarote, la finestra di Saramago" con testi di Josè Saramago

di Laura Di Simo
Per puro caso, aggirandomi tra le pile di libri dello studio, pericolanti, variopinte e disparate, il mio sguardo è stato attratto da un volume, arrivato di recente: Lanzarote la finestra di Saramago, edito da Quarup, luglio 2015.  Proprio così, il mio sguardo è stato attratto dalla copertina: uno squarcio di cielo, una riva rocciosa e frastagliata che si affaccia su un mare nero. Un'immagine simbolica e molto evocativa di Lanzarote, la più occidentale delle Canarie, isole vulcaniche che dalla costa africana si protendono verso l'Atlantico.
 

E così pagina dopo pagina, mi sono lasciata catturare dalle inquadrature a tutto campo, quasi esclusivamente in bianco e nero (rarissime sono le macchie di colore), un bianco-nero raffinato e percorso nelle sue innumerevoli sfumature. Queste immagini spesso contengono considerazioni e frasi, coinvolte nel medesimo gioco di contrasti (bianco su nero e nero su bianco) ora sussurrate in caratteri minuti, ora gridate a caratteri cubitali.
 

Il volume dunque ha una potenza visiva di grande impatto: non per niente è un omaggio di un grande fotografo Joao Francisco Vilhena all'amico Josè Saramago. Due protagonisti assoluti dell'arte contemporanea si sono incontrati in un abbraccio che dura oltre la morte. Lo racconta il fotografo Vilhena, nella breve introduzione al volume, in cui, sintetizzando i tratti salienti di una amicizia, esplicita le motivazioni della sua narrazione, fatta di immagini ovviamente. E così scorrono una dietro l'altra le foto dell'isola, arida, stratificata sulla lava, divenuta nel tempo dura pietra nera: il profilo essenziale è sporadicamente interrotto da ciuffi d'erba e alberelli stentati, sopravvissuti al calore del sole, alla violenza del vento e alla mancanza d'acqua; prolificano invece i cactus che protendono enormi dita pelose verso il cielo.
 

Questo è il paesaggio di Lanzarote, ma è un paesaggio che “...risulta vuoto senza la
persona che lo inquadra...”. Sono parole di Pilar Del Rio, la moglie di Saramago, che ha scritto la postfazione. La persona che inquadra e quindi anima la natura è senz'altro il fotografo, ma anche lo stesso Josè Saramago, che, facendosi ritrarre , diventa parte integrante dell'opera d'arte. La sua presenza infatti da vita alle splendide immagini, ora dominandole in posizione centrale, ora arricchendole con una visuale alternativa, ora sottolineandone il mistero con le sue parole.
 

Il libro dunque vuole essere un dono al grande scrittore portoghese, che ha scelto negli ultimi anni di ritirarsi in questo luogo, in cui l'esistenza è, giorno per giorno, una scommessa, è un grido strappato alla morte, che incombe dietro l'angolo. Chi conosce Saramago sa quanto la sua letteratura, la poesia, i romanzi siano legati alla sua terra, alla storia del Portogallo ripercorsa fin dalle epoche di un glorioso passato. E allora è inevitabile chiedersi il perché di questa scelta.
 

In realtà, molti altri personaggi del mondo dell'arte e della cultura, ieri come oggi, sono approdati alla stessa meta: fuggendo dalla fama e da un pubblico spesso troppo invadente, hanno cercato un luogo appartato dove trascorrere gli ultimi anni , una specie di finis terrae, dove potersi concentrare sull'essenzialità della vita. Tuttavia, considerando il suo modo di vivere la natura e di rapportarsi ad essa (come si può ricavare da questo volume), mi sembra che la figura di Saramago  si possa paragonare a quella del grande Leopardi, che, quasi due secoli prima, decise di vivere i suoi ultimi giorni su una terra di lava, sotto la minaccia incombente del Vesuvio, sperduto nell'immensità di un universo, in cui annegare le sue pene.
 

A mio parere infatti, suonano molto leopardiane le didascalie, con cui Saramago accompagna e completa le immagini di Vilhena; tra le tante due mi sono sembrate, pur nella loro sinteticità,  significative:
“E giunto a questo punto, un dubbio inquietante mi assale: che senso ho io?”
“Dio, definitivamente, non esiste”.
                                                                                

Lanzarote la finestra di Saramago, foto di Joao Francisco Vilhena, testi di
Josè Saramago, Quarup editrice, Pescara 2015, Euro 19,90

27 agosto 2015

"Tipologie" di Patrizia Manganaro



L'uomo che tiene gli spiccioli nel "tacco", quella sottospecie di borsellino in pelle o similpelle, a forma di ferro di cavallo o di tacco, appunto, creato una ventina d'anni fa, credo, o almeno così mi suggerisce la memoria, in corrispondenza dell'ingresso in Italia dell'euro...forse? ...non so.

Ma, a parte l'oggetto che è antiestetico in sé, non vorrei più vedere gli uomini compiere il gesto di frugare- spidocchiare dentro il tacco, alla strenua ricerca delle monetine per pagare il caffè, ma le monetine quelle più piccole di rame, da un centesimo e due centesimi...

E li vedi arraffare con le due dita che nemmeno gli ci entrano in quella fessura così minuscola per la mano di un uomo che in genere è grande come una pala e ci mettono un quarto d'ora nel racimolare il misero tesoro e lasciano immaginare di essere in preda all'avarizia, ai confini con l'avidità e che questa sia estesa anche nei rapporti affettivi, nella socialità, nell'umanità...

E anche ci leggo, nel gesto, una insopportabile mancanza di rispetto verso chi il caffè glielo ha servito, perché devo dire che compiono quel gesto come se non ci fosse nessuno. Infatti, nello sguardo che non mi vede, c'è lo stesso intimo piacere di chi con le dita si stia scavando una galleria nelle narici, in una toilette pubblica, ma in segretezza privata...invece, davanti ai miei occhi di barista, discreti, sì, ma vivi...

 E non sono sessista, semplicemente il "tacco" è un oggetto, ripeto, orrendo, mai visto nelle mani di una donna. Il portafoglio è più dignitoso per tutti.


24 agosto 2015

"La giada cinese" di Raymond Chandler



nota di Gianni Quilici

Leggo uno dei primi racconti – anno 1937-  di Raymond Chandler “La giada cinese”, quando il suo detective privato si chiamava John Dalmes, antesignano, per molti aspetti, del detective forse più famoso della letteratura mondiale  Philip Marlowe, affascinante anche nel suono della parola.



Senza entrare nel merito del racconto (modesto) vorrei sottolineare un aspetto soltanto del suo stile narrativo: la distanza, ossia uno sguardo freddo innervato di un’ ironia grottesca spesso acida, che utilizza l’iperbole, tramite similitudini e metafore, e qualche volta forse anche abusandone.



Alcuni tra i diversi esempi possibili.

Ecco come tratteggia l’indiano Second Harvest, un tipaccio che farà una brutta fine:

… pareva colato nel bronzo…un nasone carnoso che pareva la prua corazzata d’un incrociatore… spalle d’un fabbro ferraio… dilatò le narici, già abbastanza larghe da farci passare una coppia di topi…

Oppure la segretaria di Soukesian, il metapsichico:

“…un sorriso secco, appassito, che si sarebbe polverizzato al tatto… le mani erano piccoline, brune, avvizzite, adatte agli anelli quanto le zampe di una gollina… 



Una distanza anche verso personaggi positivi, come risulta essere la ragazza, Carol Pride, che lo aiuta nell’inchiesta e che lo desidera; una distanza che attua innanzitutto il protagonista, John Dalmes, spavaldo fino alla provocazione, solitario ma amato, squattrinato ma incorruttibile, coraggioso e brutalizzato ma alla fine vincente. Una figura, che si presta, come sarà con Marlowe, alla mitizzazione  per il sottofondo di romanticismo che incarna. Ma questo è un altro discorso ben più profondo.



Raymond Chandler. La giada cinese. Traduzione di Attilio Veraldi. Il sole 24 ore. 






























"Non è che l'inizio" di Gianni Quilici



                                                               foto gianni quilici
lettera di Susanna Pellis

Caro Gianni,
                        ho finalmente letto il tuo libro, che scorre veloce, si fa leggere molto volentieri.

Delle cose che mi sono più piaciute, su tutte senz'altro Lucca. Non so se ci sono altri romanzi così fortemente ambientati nella tua città, di certo il tuo è intrinsecamente lucchese, la città non è solo presente, è essenziale nel racconto, e poi descrivi tutti i posti per immagini anche vivide: sarà perché a Lucca sono stata più di una volta, e sarà perché Lucca mi piace, ho trovato tutto addirittura familiare, vicino.

La scelta di inserire le foto funziona molto anch'essa, inutile dirti che la mia preferita è a pagina 90, una foto meravigliosa, per la diagonale oltre che per il soggetto.

Poi mi è piaciuta l'attenzione alle sensazioni, se non ai sentimenti, la scelta di certi  aggettivi, la descrizione dei dubbi, delle urgenze, delle delusioni, del girare a vuoto del protagonista. Mi è piaciuta l'ironia (o almeno di ironia mi pareva si trattasse) con cui riporti i dialoghi in sezione, che sono anche molto realistici, senza dubbio e purtroppo.

Per come sono fatta io, non ho sopportato invece i rapporti con le donne, tanto meno la loro descrizione; ma si sa che per me questo è un argomento delicato, e che il mio modo di pensarla non è precisamente dentro gli schemi. Il tuo
racconto insiste molto su questo aspetto, eppure questa insistenza non mi ha impedito di apprezzarlo. 

Sono curiosa di sapere, piuttosto, fino a che punto il romanzo è autobiografico; e come mai lo hanno letto in anteprima solo donne? 
Bravo. Coraggioso, anche. 
Un abbraccio
sus

Gianni Quilici. Non è che l'inizio. Tra le righe libri. Euro 13,00



21 agosto 2015

“Inganno” di Philip Roth



nota di Gianni Quilici


Non essendo un critico, ma soltanto un lettore critico molto farraginoso, senza studi metodici alle spalle, e per di più impossibilitato allora a prendere appunti, mentre leggevo per un infortunio contingente alla spalla,  ho letto Inganno di Philip Roth attraversato da pensieri e sentimenti contraddittori: dalla noia all’interesse, dalla sorpresa infine a quella ammirazione che ti suggerisce la parola grandezza.

Ed è il penultimo capitolo ciò che mi ha colpito fino all’entusiasmo: il dialogo tra il protagonista, uno scrittore americano ebreo, Philip, che vive a Londra, e la sua moglie. La donna ha letto casualmente le pagine del romanzo (un taccuino dice lui), quelle che abbiamo letto anche noi, in cui lui si intrattiene dialogando di tradimenti e di sesso, di antisemitismo e di psicanalisi , dopo o prima l’amore, con una donna inglese più giovane di lui, bella, acuta e colta, ma rassegnata a un matrimonio insoddisfacente.
La moglie dello scrittore, dopo giorni di silenzioso rimprovero, sollecitata da lui, esplode:
“Tu non vai nel tuo studio a lavorare, tu vai nel tuo studio a scopare! Tu vedi una donna nel tuo studio”. “L’unica donna presente nel mio studio è la donna del mio romanzo, sfortunatamente”, la sua risposta.

Da qui inizia uno scontro tra lei che lo accusa di mentire, perché le cose che lui rappresenta sono davvero accadute e lui che obbietta che ciò che scrive è un accurato esercizio di memoria e un altro accurato esercizio di immaginazione e che immaginare una relazione amorosa è niente altro che il suo lavoro. Questo scontro tra la realtà delle cose scritte ( rivendicata dalla moglie) e la finzione letteraria (rivendicata dallo scrittore) è filtrato attraverso sottili sfaccettature psicologiche e ideologiche che culminano nel momento in cui lei gli chiede di  togliere, se questi taccuini dovessero essere pubblicati, il nome Philip, come se il protagonista fosse lo stesso Roth,  con l’altro, spesso utilizzato come alter ego da Roth, cioè Nathan, per evitare a lei pettegolezzi e vergogne.

A questo punto lo scrittore esplode, rivendicando la libertà di scrivere senza condizionamenti reali o immaginari, perché il vero delitto per lui non è la vergogna, ma arrendersi alla vergogna. Dice:
“Io scrivo ciò che scrivo nel modo in cui lo scrivo e, se e quando questo dovesse accadere, pubblicherò quello che pubblicherò nel modo in cui lo vorrò pubblicare, e non ho nessuna intenzione di cominciare adesso a preoccuparmi di cosa la gente potrà travisare e capire male!”

Rimane tutta l’ambiguità tra realtà e finzione, in questo continuo gioco di rimbalzo tra l’autore Philip Roth e il personaggio Philip Roth, in un romanzo complesso non sempre risolto, ma originale e libero, ironico e drammatico. 

Philip Roth. Inganno. Deception. Traduzione di Raol Montanari. Einaudi.