21 aprile 2016

"Su Primo Levi saggista" di Davide Pugnana


C'è un altro modo di ricordare Primo Levi, a ventotto anni dalla sua scomparsa: ripercorrere la sua produzione saggistica. Pagine che segnano uno dei punti più alti, nel Novecento, e, nella fattispecie, della forma del saggio come genere letterario. 

Quelli che Levi dissemina nei cappelli introduttivi della sua meravigliosa antologia personale - "La ricerca delle radici" - o ne "L'altrui mestiere" sono 'essais': 'assaggi' di pensiero critico, nel significato alto e prezioso (e gustosamente autobiografico) che vi impresse Montaigne; ma con venature ironiche volterriane e una politezza di dettato dal sapore di certe operette leopardiane (soprattutto là dove riesce a far letteratura conversando delle farfalle, degli scarabei, delle calze al fulmicotone, delle complicate tele dei ragni e del linguaggio degli odori). 

E come nei romanzi, anche nei saggi c'è l'andare alla radice delle cose. C'è la sua ostinata volontà di capire, di capire tutto fino in fondo: sviscerando a mani nude il già detto; sfogliando i veli d'oscurità sulle cose; facendo saltare dispositivi e archeologie culturali così ben collaudati. 

Quella di Levi saggista è una vena ermeneutica stampigliata nel sangue da atavici innesti ebraici; com'era in Benjamin e in Canetti. Quando scrive sul pugno di Renzo, su Huxley, sulla Cosmogonia di Queneau, su Thomas Mann, sul dimenticato D'Arrigo, o disegna un finissimo medaglione di Rabelais, si avverte sempre il "clic" di una parola azionata per ricucire, ricomporre, ordinare le leve storte e ingolfate della Storia e della natura umana.

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