13 gennaio 2020

"Anche i Pisani sono esseri umani" di Luciano Luciani




seconda puntata di un libro d'improbabile pubblicazione
                                        Pontedera 1972. I bianchi e i rossi.
Va senza dire che la realtà si rivelò ben più al ribasso rispetto alla letteratura e al cinema Intanto, memorabile la bruttezza del Centro Enaip pontederese: alla periferia della città, dopo il passaggio a livello, nella via dell'ospedale sulla strada per Ponsacco assomigliava a un bunker tedesco sopravvissuto a stento ai bombardamenti alleati. Aulette anguste e claustrofobiche; ampia l'officina, ma con macchinari da esercitazione - torni, banchi da aggiustaggio - obsoleti, residuali, scarti di scarti che portavano ancora i segni dell'alluvione del '66; sgangherati i tecnigrafi per i disegnatori; un paio di scaffali di libri raccogliticci e mai sfogliati; una segreteria organizzata secondo il sistema "tutto a mano" e una sola, moderna fotocopiatrice: solo da guardare, però, e da non usare troppo spesso "perché se no si rompe". 
Deluso e frustrato il poco personale rimasto: un segretario alla vigilia delle nozze e di cambiare lavoro e tre o quattro insegnanti pratici, anziani operai di mestiere abili con le mani, poco liberi di testa e gelosi tra loro, assunti attraverso i severi filtri del favoritismo aclista, della compiacenza democristiana e, immagino, del benestare di qualche ufficio e/o dirigente della onnipotente Piaggio. Preagonica l'attività della scuola, in caduta libera le iscrizioni: nessuno che sapesse indicarmi con precisione le date degli ultimi corsi iniziati e portati a termine e su tutto un'aria di smobilitazione, incuria, trascuratezza.
E poi rossa sì, Pontedera, ma con una minoranza bianca ben organizzata nelle sue tradizionali casamatte: parrocchie, associazioni cattoliche, circoli Acli, un vasto e articolato sistema di servizi, dagli asili delle suore ai corsi di formazione professionali. Appunto. Ero finito in partibus infidelium e per di più in un momentaccio: Livio Labor, storico presidente Acli, aveva posto fine al collateralismo della sua associazione con la Dc, i vescovi l'avevano sconfessato - papa Paolo VI addirittura "deplorato" - e sostituito col più prudente Emilio Gabaglio. Per evitare pericolosi smottamenti a sinistra, e per reazione a destra, gli aclisti tradizionali serravano le fila, si facevano sospettosi, guardinghi e non si fidavano di nessuno. 

Su questo scenario arrivavo io, in fama di "mezzo comunista mandato da Roma". Sì, su Roma avevano ragione: venivo proprio da lì; sul "mezzo" no, perché al Pci ero iscritto già da qualche anno, vuoi per personale convinzione, vuoi per tradizione familiare. Agnello migrante in mezzo ai lupi, privo, com'ero, di una qualsivoglia rete di relazioni, in un momento politico e sindacale delicato, mentre l'impeto rivendicativo che aveva caratterizzato il movimento sindacale negli ultimi 3/4 anni si andava affievolendo e tutti i conservatorismi locali e nazionali rialzavano la testa in cerca di rivincite, dovevo farmi prudente come il serpente e semplice come la colomba.
Corsi e ricorsi.
Mentre a guidare il Bel Paese era chiamato il celeberrimo e già chiacchieratissimo Giulio Andreotti alla testa di un governo di destra che più di destra non si poteva e in Parlamento entravano, sotto la specie missina, militari golpisti e picchiatore fascisti, io mi buttai nel lavoro.
Lo aggredii quel lavoro, lo presi alla gola. Intanto ripulire quegli ambienti degradati, fatiscenti. Mi aggregai ai dipendenti di una piccola impresa di pulizie e insieme a loro  spazzai e detti il cencio, lustrai e vuotai cestini... Privo di particolari esperienze in materia, supplii al'impreparazione con l'energia e l'entusiasmo dei vent'anni. Ebbi, poi, lunghi conversari con i vecchi insegnanti che, bontà loro, si resero disponibili, per eventuali corsi; ne individuai di nuovi, di insegnanti; elaborai un depliantino colorato e lo feci stampare in qualche migliaio di copie insieme a un po' di manifesti e qualche locandina e mi misi alla caccia degli allievi che avrebbero permesso l'organizzazione dei corsi. E con essi la ripresa dei finanziamenti che sarebbero arrivati da una Regione Toscana appena costituita e, se non ricordo male, piuttosto circospetta nei confronti di un Ente così politicamente ambiguo.
Fare le cose, farle bene, e soprattutto farle conoscere. Quindi cominciammo a dire in giro che le attività formative riprendevano. Non è che tale notizia venisse accolta con particolare calore dalla Piaggio. A dirla tutta, la proposta di una collaborazione tra la nostra scuola e l'azienda - che pure in passato c'era stata e anche piuttosto intensa - trovò i suoi funzionari di terza o quarta fila da me interpellati in proposito alquanto disinteressati: "vedremo...", "se ci saranno le condizioni...", "le faremo sapere..."  Tiepidi i nostri referenti naturali, i circoli Acli della zona; arcigno l'allora presidente provinciale aclista, Lamberto Tellini, un democristiano quarantottesco che sedeva a Firenze sui banchi dell'opposizione in qualità di consigliere regionale; indifferenti i parroci che, tutti o quasi, si dissero assai presi dai loro doveri spirituali e impossibilitati a calarsi nella concretezza del quotidiano.
Un aiuto, insperato, venne, invece, dalla redazione locale della "Nazione" che in più di un'occasione garantì largo spazio alle notizie di una ripresa dei corsi Enaip in via Roma: il giovane redattore locale, Mario Mannucci, simpatizzò da subito con la nostra esperienza e la sostenne con le parole stampate e alcuni fatti che illustreremo a breve. Comunque, alla fine della fiera, di iscritti ai nostri corsi professionali - meccanici; tornitori; lattonieri; disegnatori tecnici; stenografia e dattilografia - ce n'erano davvero pochini. Con quei numeri a una sola cifra le nostre attività professionalizzanti non sarebbero mai iniziate con tutte le conseguenze, anche economiche, del caso.
Me ne sarei dovuto tornare, sconfitto, da dove ero venuto?

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