24 novembre 2011

"Fantasmi d'amore" di Roberto Curti

di Gordiano Lupi www.infol.it/lupi

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Roberto Curti è uno studioso competente e appassionato del nostro cinema di genere, collabora con Blow Up e al Mereghetti, ha scritto un’interessante monografia su Tonino Valerii e il fondamentale Sex and violence – percorsi nel cinema estremo (Lindau, 2003), insieme a Tommaso La Selva.

Fantasmi d’amore è una vera e propria bibbia, indispensabile per tutti i cultori del gotico, quel cinema nostrano caratterizzato dalla presenza di cripte, cimiteri, tombe scoperchiate, castelli cadenti, scienziati pazzi, servitori storpi, teschi e scheletri, passaggi segreti, streghe, vampiri, visioni di morti scarnificati, balli con musica d’altri tempi e quadri che ricordano antenati scomparsi.

Curti non si limita al cinema, ma opera riferimenti colti di tipo letterario, sottolineando l’importanza del melodramma, della letteratura scapigliata e decadente, ma anche della poesia sepolcrale inglese. Il gotico mette la figura femminile al centro della scena, presta grande attenzione al mito del vampiro, dà importanza al bianco e nero, ma anche a una colorazione soffusa.

I primi film gotici italiani portano la firma di due grandi autori come Mario Bava e Riccardo Freda, che con La maschera del demonio (1960) e I vampiri (1957) dettano le basi fondanti del genere. I vampiri è universalmente considerato il primo film horror italiano e si ricorda come la data di nascita del gotico cinematografico.

Il gotico lascerà il posto agli spaghetti western, ma non scomparirà del tutto e vivrà una seconda giovinezza in alcune pellicole minori degli anni Settanta e Ottanta.

Negli anni Sessanta il gotico fa furore anche nella letteratura di bassa lega, nei fumetti neri e porno – horror, nei Classici di Dracula, nelle collane pulp della Ediperiodici e nei fotoromanzi di Killing.

La televisione non è indenne dal fascino dell’orrore, molti gli sceneggiati importanti che attraggono il pubblico: Il segno del comando e Ritratto di donna velata non sono che due esempi. Il gotico mette in scena vizi e perversioni, sadismo e lato oscuro dell’animo umano, grazie a sceneggiatori come Ernesto Gastaldi che scrivono opere intense e piene di colpi di scena come L’oscuro segreto del dottor Hichcock, La frusta e il corpo, La cripta e l’incubo. Scrittori classici come Le Fanu vengono saccheggiati a piene mani dagli autori del gotico italiano, al punto che Carmilla, perverso vampiro al femminile, è un personaggio che troviamo modificato in tutte le salse possibili e immaginabili. Nel suo libro Curti parla anche di tecnica e fa capire come il gotico segni la nascita dello zoom nel cinema di genere, per semplificare la preparazione delle inquadrature e velocizzare le riprese, eliminando i carrelli.

Roberto Curti ci regala un’opera straordinaria, cinquecento pagine zeppe di dati, considerazioni, appunti, annotazioni critiche, curiosità che faranno la felicità dei cultori ma anche dei semplici appassionati di una materia meritevole di un serio approfondimento.

Il prezzo è un piccolo difetto, ma non dipende dall’autore: 32 euro sono eccessivi per un libro in brossura, stampato in digitale e su carta scadente. Vero che è un lavoro dedicato a una nicchia, ma est modus in rebus


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Roberto Curti

Fantasmi d’amore

Il gotico italiano tra cinema, letteratura e TV

Lindau – Euro 32,00 – Pag. 500

"Il caffè" di Luciano Luciani

foto di Gianni Quilici

Giunto dal Medio Oriente a Venezia nel 1615, il caffè - e il quasi universale rito della tazzina della nera bevanda – presenta una storia complessa che si intreccia strettamente con le vicende, magari meno visibili ma non per questo meno importanti, della formazione delle abitudini, del costume e del gusto dell’uomo moderno. Divenuto, in breve tempo, Amsterdam il principale mercato all’ingrosso del caffè di tutto il mondo, si moltiplicarono in Europa le “botteghe del caffè”, i bar di allora: nel nostro Paese, già nel ‘700, il veneziano ‘Florian’ assurgeva a fama mondiale come luogo di sopraffine delizie del palato. In Inghilterra il primo caffè, venne aperto a Oxford nel 1650 e due anni più tardi anche Londra conobbe questa nuova ‘istituzione’. Ma passeranno vent’anni prima che anche Parigi si adegui alle mode provenienti dalla capitale inglese.

Un successo apparentemente inarrestabile, quello della amara pozione: eppure, anche al caffè toccò il destino di essere al centro di polemiche, accuse, diatribe. Se i suoi sostenitori, forse esagerando, lo presentarono come eccellente rimedio per curare le malattie dello stomaco e del fegato, per rafforzare il tono cardiaco, per eliminare l’idropisia, per combattere la scabbia, i dolori della milza, le infiammazioni polmonari, i vermi e un’infinità di altri guai fisici, non mancarono i feroci detrattori dello scuro beveraggio venuto dall’Oriente.

Bacone da Verulamio, per esempio, in contrasto con l’opinione della maggioranza, non esitava a condannare il caffè come un potente narcotico.

Francesco Redi, nel suo festosissimo e celeberrimo ditirambo, Bacco in Toscana, dichiarava: “Beverei prima il veleno,/Che un bicchier, che fosse pieno/dell’amaro e rio caffè”. Il letterato toscano, tuttavia, ci ripensò e in una lettera privata giudicava il caffè, purché ben corretto dallo zucchero, una bevanda deliziosa.

Per lungo tempo, i “tuttologi” di tre secoli orsono si divisero riguardo alle virtù dimagranti o ingrassanti del caffè. Innumerevoli, e tutti discutibili, gli argomenti portati a sostegno dell’una o dell’altra parte: rimase famosa la prova cosiddetta “dei Turchi”, basata sul fatto che tra gli abitanti dell’Anatolia (famosi allora come sfrenati consumatori dell’aromatico infuso) sembravano assai più numerosi che tra gli altri popoli gli individui decisamente obesi e tendenti alla pinguedine: ciò rappresentava – secondo alcuni – la prova migliore delle virtù ingrassanti del caffè.

Non si riuscì, naturalmente, a individuare l’argomento decisivo in favore dell’una o dell’altra tesi e le discussioni si esaurirono a mano a mano che si diffondeva il consumo del caffè.

Non mancarono, però, nel tempo molte altre accuse: si attribuì alla scura pozione il potere di provocare cecità, emorragie, paralisi, coliche intestinali, febbri perniciose, infiammazioni epatiche e renali… Ma una delle offese più terribili mosse alla bevanda fu certamente quella di rendere l’uomo impotente. Il Linneo, famoso naturalista svedese, lo chiamava addirittura potus caponum, bibita dei capponi e questa calunnia contribuì di sicuro a diminuire la celebrità e il consumo di caffè tra la fine del XVII secolo e l’inizio del XVIII secolo. Luigi XIV, ad esempio, fu decisamente contrario all’uso della bevanda e i maligni sussurravano che tale avversione gli fosse stata suggerita dalla marchesa di Montespan, che in dodici anni di relazione dette al re Sole la bellezza di sette figli. Anche la facoltà medica di Parigi si allineò alle direttive regie in fatto di filtri e infusi e con atto solenne dichiarò, nel corso di un’assemblea, che il peggior vino era sempre più innocuo e giovevole alla salute del miglior caffè.

Monarchi assoluti e tiranni non lo ebbero mai in molta simpatia: non solo il re Sole fu un antipatizzante della nera pozione, ma Carlo II Stuart (1660 -1685), appena rientrato in patria e da poco insediato sul trono dopo la parentesi di Cromwell, non manifestò particolari scrupoli nell’ordinare la chiusura di buona parte delle “botteghe del caffè”, moltiplicatesi in Inghilterra a partire dal 1650, timoroso che potessero diventare centri di opposizione e di rivolta.

E il sospettoso Stuart non aveva tutti i torti a temere i locali in cui si somministrava il caffè come luoghi privilegiati per la diffusione delle idee rivoluzionarie: cento anni più tardi, a Parigi, saranno proprio i Caffè le sedi in cui si ritroveranno i letterati, i filosofi e gli oppositori della monarchia francese. Proprio da uno di questi locali, nel luglio 1789, partirà l’appello per quell’assalto alla Bastiglia, che segnerà l’inizio della rivoluzione francese.

Nei primi anni del XIX secolo, con la scoperta del principio attivo del caffè, la caffeina e con il successivo isolamento di quest’ultima, avvenuto nel 1820, si entra in una nuova fase della complessa storia del caffè: quella scientifica e in particolare sul suo principio attivo si moltiplicarono gli studi e le ricerche.

E del ‘cappuccino’ cosa si sa? Sembra che nel XVII secolo il Neihof, ambasciatore olandese in Cina, al suo rientro in patria abbia riportato con sé l’uso in voga presso i cinesi di mescolare il caffè con il latte. Anche il caffellatte fu ben presto oggetto di critiche e il Thierry, storico ed esponente di punta del romanticismo francese, lo accusò di provocare nientemeno che la leucorrea nelle donne e la cefalea negli uomini.

Fu questo l’ultimo e un po’ velleitario tentativo di ostacolare la lunga e trionfale marcia della popolare bevanda e di contrastare l’ormai quasi universale – e ripetuto più volte al giorno – rituale della tazzina.

Oggi gli italiani ne consumano oltre 30 miliardi l’anno: una tazzina e mezzo a testa al giorno, una quantità enorme che pure non colloca il nostro paese ai primi posti in Europa nell’uso – e nell’abuso – dell’amara pozione. L’Italia è superata di gran lunga dalle nazioni del nord Europa, dove ogni abitante beve in media ben quattro tazze di caffè ogni giorno. Per questo il Cic (Comitato italiano caffè) non esita a ritenere che i consumi possano essere ulteriormente aumentati, soprattutto tra i giovani.

Ed ecco spiegate certe interessate campagne stampa, secondo le quali cinque o sei o anche sette tazzine al giorno non fanno male. Anzi, danno tono, stimolano l’attenzione, incrementano la concentrazione, sollecitano i succhi gastrici e quindi favoriscono la digestione e così via caffeinizzando.

Ad uso del lettore e pro bono suo si ricordi che il nero stimolante venuto dall’Oriente contiene una quantità di caffeina che va da 0,10 a 0,20 grammi per tazzina e che già l’assunzione di un solo grammo quotidiano di questo alcaloide può creare seri disturbi al sistema nervoso, neuromuscolare e cardiovascolare. In parole semplici tanti casi d’insonnia, eccitabilità, tachicardia e disappetenza sono spesso da imputare non a cause remote e misteriose ma a quotidiane, inconsapevoli overdose della tanto familiare bevanda.





21 novembre 2011

"Paloma e l’Angelo" di Fabiana Taddeucci

di Luciano Luciani

Lucca o forse no, la Città raccontata in Paloma e l’Angelo di Fabiana Taddeucci. Il tempo, assomiglia a questo nostro presente, ma potrebbe anche essere un qualsiasi altro medioevo prossimo venturo, tanto rare e inessenziali appaiono nella storia le tracce della modernità. Paloma, il nome della protagonista: Paloma, ovvero colomba nella lingua di Cervantes; simbolo evangelico di purezza e semplicità, portatrice del ramo d’ulivo dopo il diluvio universale, metafora di pace e concordia.

Paloma, la protagonista di questo romanzo breve, è, invece, una giovane donna tormentata dalla memoria di un passato difficile.

Ha conquistato con fatica, Paloma, la propria libertà e quella delle proprie scelte e dei propri comportamenti e appare “strana” agli occhi dei conformisti, dei benpensanti, dei perbenisti: fuma, cammina scalza, porta uno zaino sulle spalle, veste di rosso, il colore dell’eros libero e trionfante, dell’ardore e della bellezza, della forza impulsiva e generosa.

Paloma non lo sa, ma incarna in sé tutte queste doti quando decide di entrare nella Città che sorge dalla pianura.

Una città bellissima: una sintesi mirabile di storia, arte e natura abitata, però, da uomini gelosi della propria condizione privilegiata ed egoisti, satolli e per niente ospitali.

Paloma e la Città: la protagonista e l’Antagonista.

Una favola: crudele e feroce come tutte le favole. Sì, perché Paloma, la nostra eroina, come in tutte le storie mitiche, sarà sottoposta a dure prove iniziatiche: la solitudine; un lavoro accettato solo per sopravvivere; la morte, tragica, del primo amico incontrato; l’amore, quello vero, fatto di passione e carnalità, trovato e poi perduto.

E al posto di quel sentimento smarrito, al posto del cuore strappato, non le resta che un bel dono, un regalo prezioso: una pietra di giada. Che sarà pure il simbolo dell’energia cosmica e della rigenerazione del corpo e dei sentimenti; sarà pure il simbolo dell’immortalità e della perfezione ma niente, niente può consolare dell’assenza di un amante amato come mai nessun altro prima… E allora per Paloma/colomba suonerà la musica dura dei rimpianti, dei conti con se stessa, delle memorie che sopraggiungono sempre più acute, taglienti, dolorose.

Il finale con tutte le sue possibili interpretazioni è affidato alla intelligenza e alla sensibilità dei Lettori.

È importante, invece, sottolineare la qualità della scrittura. Un modo di raccontare, quello della Autrice, allusivo, insieme fantastico e realistico. Un mix originale, personalissimo, capace di evocazioni profonde e suggestioni sottili, che, senza parere, narra il nostro oggi, il nostro qui e ora. Per esempio gli inferni di una vita interiore non placata, ma perennemente in ricerca; i bordi frastagliati e affilati della nostra vita civile o incivile che dir si voglia; i lineamenti essenziali della catastrofe etica che è sotto gli occhi di tutti.

Non pensiamo, però, a questo libro solo come a un teatro della crudeltà: c’è posto, e tanto, per l’amore, l’amicizia, la pietas. In fondo ne basterebbe così poca per migliorare la vita quotidiana di tutti.

Pietas: ovvero rispetto, affetto, tenerezza, benevolenza…

Tutte doti di cui è provvisto abbondantemente Giò, ovvero Giovanni, barman generoso e altruista, disponibile e compassionevole in una città segnata dall’intolleranza e dall’incomprensione per ogni sia pur piccola diversità. Riuscita figura di deuteragonista, Giò nel senso di Giovanni, per amore,arriva ad accettare anche il diritto all’opacità di Paloma, il diritto al caos dentro di sé. Consapevole che gli esseri umani sono compositi, multipli, complessi, polimorfi e che ridurli alla trasparenza può voler dire solo diminuirli e impoverirli.


Fabiana Taddeucci, Paloma e l’Angelo Favola di fine millennio, Libertàedizioni, Lucca 2011, pp.64, Euro 10,00

"Il nuovo inquilino" di Javer Cercas

di Gianni Quilici


E' un romanzo che si legge in un volo.

Una mattina Mario Rota, professore di Fonologia in un’università del Midwest, negli Usa, facendo jogging cade slogandosi una caviglia. Da quel momento, sta tornando a casa sudato e zoppicante, iniziano le sue disavventure: l'affittuaria gli presenta il nuovo inquilino, Daniel Berkowickz, brillante, monopolizzatore e seducente, che, in pochissimi giorni, gli sottrae spazio lavorativo, credito, ragazza, amici.

Una storia psicologicamente avvincente, perché raccontata con chiarezza, con personaggi veritieri, dialoghi efficaci e pensieri sottili, che progressivamente creano un'atmosfera di persecuzione e di processo, di condanna e infine di incubo, fino a creare nel protagonista quasi uno sdoppiamento. Ho pensato, per qualche associazione, ad un film, ben più delirante di questo romanzo, come “L'inquilino del terzo piano” di Polanski, oltre che naturalmente a Kafka.

Tutto, infatti, sembra preludere ad una conclusione inesorabilmente catastrofica. La svolta finale è sorprendente e non può essere raccontata, perché se la si conoscesse, oltre a eliminare la sorpresa, produrrebbe forse anche un diverso tipo di lettura.

Ed è la svolta, che a me pare deludente, perché pretestuosa, in quanto produce un salto non motivato né stilisticamente, ne' ideologicamente, rispetto a ciò che fino a quel momento avevamo letto.

E' come se Javer Cercas avesse avuto paura di andare fino al fondo dei caratteri e della situazione ed avesse cercato di risolvere con un'idea brillante, perché inaspettata narrativamente e soprattutto aperta a tutte le ambiguità dell'interpretazione.

Ed è un peccato, perchè Mario Rota è delineato efficacemente, colto nella sua dolorosa, consapevole, automatica debolezza, come pure è tratteggiato vigorosamente il mondo universitario nei suoi banali modelli di efficienza e nella sua ipocrita ferocia.

Il nuovo inquilino” è il secondo romanzo di Cercas, scritto nel 1989, prima di due famosi romanzi, “Anatomia di un istante” e soprattutto “Soldati di Salamina”, vincitore quest'ultimo del Premio Grinzane e del Premio Mondello.

Javer Cercas. Il nuovo inquilino. Traduzione di Pino Cacucci. Ugo Guanda editore.

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26 ottobre 2011

"Shorts" di W. H. Auden

di Gianni Quilici

Auden è un grande poeta, che poco conosco. Tuttavia prendo questo libriccino di “shorts” come se fosse l'unico, come se fosse senza passato e senza futuro.

Auden aveva due possibilità in queste “Shorts”. Fare poesia oppure pensieri, in quella forma secca, che, in poche righe, riesce a trasmettere un senso.

Invece opera soprattutto una terza cosa: una riflessione su circostanze o persone, che certamente non esclude la possibilità di diventare poesia o pensiero.

Il risultato è disuguale, perché queste schegge rimangono, in genere, personali, non riescono, a me pare, a diventare percebili universalmente, perché o non sono puramente visive (esempio quelle di Roland Barthes in “Incidenti”) o non sono sufficientemente pensose (penso a Canetti aforistico o al Baudrillard di “Cool Memories” e sopratutto al maestro di tutti, Nietzsche)


Si nascose vedendo

un Pastore appressarsi

con aria corrucciata


Abbandonando le sue mogli

si dileguò con i suoi gioielli

e con duecento cani


Infilando i calzini,

ricorda che suo nonno

restò secco nel farlo

Sono immagini di un possibile racconto... si leggono e lasciano, più o meno, indifferenti


Ci sono invece “shorts” che lasciano un'eco, una risonanza. Soprattutto a leggerli in originale.

Serata di settembre:

loro due soli, intenti a mangiare

il granturco dell'orto,

colto mezz'ora prima.

Fuori: tuono, rovesci di pioggia.


Oppure

I suoi pensieri andavano su e giù

dai versi al sesso a Dio

senza punteggiatura.

La conclusione: forse non si può leggere degli “shorts” come questi senza aver letto le opere più significative di Auden. Ma tant'è!

W. H. Auden. Shorts. a cura di Gilberto Forti. Piccola Biblioteca Adelphi. Euro 9.00

22 ottobre 2011

"deleuze cinéphile" di Fabrizio Denunzio

di Mimmo Mastrangelo

E in principio furono i Cahiers du Cinema e la Nouvelle Vague.

Gilles Deleuze (1925-1995) non ne fece mai un mistero in vita, tutta la sua primaria curiosità, il suo piacere verso il cinema lo dovette alla politica degli autori dei Godard, dei Truffaut, dei Rivette, dei Resnais e agli interventi critici-teorici del fondatore dei Cahiers André Bazin. E Deleuze, che stato uno dei più ricercati studiosi che ha analizzato il cinema con gli strumenti della filosofia, dai “nuvellisti” fece propria quella particolare condizione di relazionarsi con le ombre delle schermo che è la cinefilia.

Il filosofo parigino fu un cinéphile (cinefilo) nel senso che alla passione, all’amore per le immagini in movimento agganciò un tracciato teorico così come viene dimostrato in un piccolo ed interessante saggio di Fabrizio Denunzio, docente all’Università di Salerno di Teoria e Tecniche del Linguaggio Radiotelevisivo e Sociologia dei Processi Comunicativi.

Deleuze cinéphile, edito da Liguori Editore, si tiene a distanza dalle teorie cinematografie ben affrontate e toccate dallo studioso nei conosciuti “L’immagine movimento” (1987) e “L’immagine tempo” (1989), punta piuttosto a palmare il “disegno di una passione”, i tratti più vivi di un amore. E lo fa inseguendo le sensazioni che Deleuze provò davanti ai disegni del lungometraggio d’animazione “Alice nel paese delle meraviglie” (1951). Dalla visione del cartone animato firmato da Clyde Geronimi, Hamilton Luske e Wilfred Jackson il filosofo arrivò alla conclusione che “ogni immagine cinematografica è sempre implicata nel movimento del fotogramma che la precede e in quella che la seguirà”.

Altre “tappe” importanti su cui Denunzio si sofferma del Deleuze cinéphile sono ( e non poteva essere altrimenti) le lezioni tenute dal 1968 al 1980 al Dipartimento di Filosofia di Vincennes, filmate da Marienne Burkhalter, nonché le trasmissioni televisive di Godard pensate registrate a metà degli anni settanta non tanto per capire la tv in quanto tale ma per individuare le pratiche che la vanno trasformando come mezzo di comunicazione.

Interessanti del libretto sono pure gli altri brevi capitoli sulle attenzioni di Deleuze a Peirce , Foucault e a come il cinema possa cambiare nello spettatore la percezione del sapere.

Infine fa bene Denunzio a non sottovalutare di Deleuze il suo ultimo scritto sul cinema relativo al film di Jacques Rivette “Una recita a quattro” (1989). Qui, nel confermare tutta la sua cinefilia, Deleuze evidenziò l’intransigente compito della critica di formare concetti che non sono direttamente dati, esplicitati nello scorrimento delle sequenze di un film.

FABRIZIO DENUNZIO. I “DELEUZE CINEPHILE”. LIGUORI EDITOREPAG 96. EURO 12.90

"Au bon coin" foto di Robert Doisneau

di Caterina Donatelli
Giorni fa dal commercialista, nell’attesa sfoglio un supplemento de Il Sole 24 Ore, sulle pagine trovo un articolo intitolato: ‘La Parigi di Doisneau’.
Osservo gli scatti in bianco e nero chiedendomi se Parigi era così come la raccontava Robert Doisneau, o se le foto di Doisneau, raccontano una Parigi altra, immaginaria, invisibile. Una, in particolare, attira la mia attenzione è del 1945, dal titolo: ‘Au bon coin’.
L’incontro di due strade, disegna i margini di un isolato di costruzioni amare e spoglie, di diversa altezza. Al centro, spingono le geometrie della pavimentazione urbana, buttando l’occhio sul prospetto di un edificio in mattoni svettante sulla piattaforma del marciapiede come una prua incagliata nella crosta di una bottega, con l’insegna che dà il nome allo scatto. Da poco ha smesso di piovere, il cielo si annulla nel grigiore invernale, il piano della città, umido e lucido, armonizza il ritmo degli spazi e delle forme; un uomo solo cammina dentro al suo cappotto scuro, ha aspettato che spiovesse per uscire di casa, un sacchetto o il cestello del latte, in una mano, l’altra, nella tasca per nasconderla al freddo. E’ appena passato, o sta andando via dal nostro sguardo; invita a muoverci sul muro verticale steso a celare il prospetto e guida veloce, sulla linea dell’orizzonte sgretolata dalla nebbia, avvolgente e morbida, succhiata da fantasmi di architetture. Una matematica prospettiva ci riporta indietro lungo un margine indefinito, che io decido sia la Senna, accompagnati da un passante; pedina astuta messa a servizio della figura centrale che continua ad andare, o ad arrivare. Dall’altra parte, i tetti tirati verso l’alto, trattengono le pareti che scandiscono la fine dell’inquadratura, con un vuoto salvifico, da dove emergono estetiche presenze, fatte di piccoli spostamenti a costruire un triangolo cinematico perfetto; punteggiature esatte su una trama vibrante, dissolta nella lontananza.
Non so quale Parigi sia, ma di certo è una delle tante, forse la più bella, che danzano sulle fisarmoniche della mia mente.
p.s.: ho strappato la pagina dal giornale e me la sono messa in borsa. Non ditelo al mio commercialista.
Robert Doisneau. "Au bon coin"

19 ottobre 2011

“Qui finisce l'Italia” di Gilles Coton e "Pier Paolo Pasolini. La lunga strada di sabbia" di Philippe Séclier

di Gianni Quilici

Questo film ha una sua storia, che qui sinteticamente riporto.

Incomincia nel giugno 1959, quando Pasolini, su commissione del rotocalco Successo, inizia un viaggio lungo l'intera costa italiana, che, dal confine della Francia, lo porterà nell'agosto dello stesso anno a Trieste, mentre il fotografo Paolo Di Paolo, che viaggerà per conto suo, avrà il compito di illustrare fotograficamente i luoghi. Soltanto nel 1998, il testo viene pubblicato da Mondadori, ne “i Meridiani” in “Romanzi e racconti 1946-1961

Nell'estate 2001 il fotografo Philippe Séclier, accompagnato da due documentaristi cileni, ripercorre lo stesso viaggio di Pasolini, trovando nel percorso, egli scrive, diverse coincidenze inquietanti: a Ischia, nell'albergo Savoia, dove il poeta aveva soggiornato, ed ora in stato di abbandono, trova una valigia e un mucchiodi manoscritti sparsi sul pavimento; una foto di un Pasolini radioso, in un vecchio salone di un barbiere di Cutro, in Calabria, proprio il paese in cui era nata una forte polemica, perchè da lui definito “il paese dei banditi”; in Puglia, a Selva di Fasano, viene impressionato da una Fiat 1100, lo stesso modello con cui Pasolini aveva viaggiato allora, sbucata da un incrocio, che gli si mette davanti; all'arrivo a Trieste scoppia un temporale simile a quello descritto allora da Pasolini. Nel 2005 il fotografo conosce Gabriella Chiarcossi, cugina ed erede di Pasolini, che gli affida il dattiloscritto originale e lì Philippe Séclier scopre che in quei foglietti ingialliti molti brani sono inediti, probabilmente tagliati dalla redazione di Successo.

Nasce così un bellissimo libro, “Pier Paolo Pasolini. La lunga strada di sabbia” , dove, ai testi integrali di Pasolini, si aggiungono alcuni dattiloscritti e in più il manoscritto dell'albergo Savoia. Le foto di Séclier colgono efficacemente il testo pasoliniano tutto occhi, sensi e impressioni immediate, con immagini tra il realistico e il metafisico, che lasciano trapelare, alludendo, accennando, simboleggiando.

Nell'estate 2009 anche un regista belga, Gilles Coton, ripercorre quel viaggio, accompagnato dalla lettura del testo originale. Il risultato non è, ovviamente, un documentario su Pasolini, ma un film on the road. C'è la strada con l'asfalto che corre, ci sono trasmissioni radiofoniche tra la chiacchiera e l'evasione musicale, c'è la lettura delle parole pasoliniane di 50 anni prima, ci sono immagini dell’Italia di oggi con le testimonianze di intellettuali come Claudio Magris, Massimo Cacciari, Mario Monicelli e quelle più direttamente politiche di Giuliano e Heidi Giuliani, di Mimmo Nasone, dell'associazione antimafia “Libera”, ci sono le parole di persone comuni incontrate, tra cui alcuni immigrati.

Un progetto ambizioso, che funziona solo a tratti.

Il regista aveva davanti due possibili propositi: fare un'inchiesta sui mutamenti dell'Italia rispetto ad allora o realizzare un documentario di poesia “alla Pasolini”, soggettivizzando sguardo e parola, in una sorta di corpo a corpo con il testo del poeta-regista friulano.

Ha scelto la prima strada. Una scelta non facile in uno spazio così grande rispetto ad un tempo cinematografico limitato. Le interviste sono troppe e a volte (vedi quella su Sbarbaro) collegate meccanicamente; le immagini nella loro volatilità finiscono per essere, spesso, descrittive, raramente riescono ad emozionare. Un documentario tuttavia onesto con qualche sequenza da ricordare (il maestro calabro, l'immagine di una Cutro deserta e anonima).

Qui finisce l'Italia è disponibile per proiezioni pubbliche in copie video in versione italiana, per tutto il 2011. Maggiori dettagli sul film, il trailer e link ad altri contenuti, oltre al modulo per prenotare una proiezione, alla pagina web: www.cineagenzia.it/quifiniscelitalia. (fonte: Cineagenzia)


Philippe Séclier. Pier Paolo Pasolini. La lunga strada di sabbia. Contrasto.

Qui Finisce l'Italia

Regia: Gilles Coton (opera prima)
Anno di produzione: 2010
Durata: 85'
Tipologia: documentario
Paese: Belgio
Produzione:
Playtime Films
Formato di ripresa: XD Cam
Formato di proiezione: Video, colore
Ufficio Stampa:
Gaia D'Angelo


14 ottobre 2011

"Che cos'è la scienza" di Carlo Rovelli

di Bona De Villa

Carlo Rovelli è un fisico teorico, studioso della gravità quantistica. Questo scienziato dedito a discipline astruse spiega in modo chiarissimo e appassionato, in questo breve saggio, quali sono i tratti essenziali del pensiero scientifico e come si confronta con il relativismo culturale e il pensiero dell' assoluto.

Per darci un'idea di come si possa sviluppare l' avventura dell' immagine del nostro mondo, Rovelli elegge come rappresentante dello spirito scientifico un presocratico vissuto sulla costa ionica: Anassimandro.

In un' epoca in cui i fenomeni naturali erano attribuiti all' intervento di esseri divini e si credeva fermamente che la Terra non potesse fare a meno di sostegni per non cadere, Anassimandro intuisce il ciclo delle acque e ha l' audacia di ipotizzare che ci troviamo sopra un sasso che galleggia nello spazio, sospeso sul nulla. Seguiamo poi il filo che lega Anassimandro a Einstein e Heisenberg.

Pur avendo adottato un linguaggio accessibile ai non addetti ai lavori, l' autore aggiunge un "glossario ragionato" di termini e concetti fondamentali.

Carlo Rovelli. Che cos'è la scienza. La rivoluzione di Anassimandro. MONDADORI UNIVERSITA'- 2011. SCIENZA E FILOSOFIA – Collana diretta da Armando Massarenti


10 ottobre 2011

" Qualcosa da ricordare 1861-1915" di Bellucci, Civile, Danesi

di Luciano Luciani

Il libro più interessante tra i molti editi in occasione del 150esimo anniversario dell’unità d’Italia l’hanno scritto Maria Bellucci, Francesca Civile e Brunella Danesi, tre insegnanti di scuola superiore per la casa editrice pisana ETS. Si intitola Qualcosa da ricordare 1861 – 1915 e costituisce una densa pubblicazione, costruita per brevi e documentati saggi, in cui si ricordano i contributi offerti alla formazione del nuovo Stato da scienziati, politici, uomini di cultura in gran parte dimenticati e, in relazione a queste figure, si illustrano aspetti significativi della società del tempo.

Si racconta, per esempio, che i problemi affrontati dall’élite liberale postunitaria furono molteplici e di natura non facile; alterni i risultati: moderno avanzamento in alcune parti d’Italia, stagnazione, o addirittura regresso, in altre. Si racconta di un Ottocento liberale e riformatore, capace anche di qualche grandezza.

Nella seconda metà del secolo, ad esempio, a livello ministeriale, esso ha mostrato i volti di personaggi sulla cui competenza e onestà d’intenti non è dato eccepire: siano sufficienti i nomi di Cesare Matteucci, Giuseppe Zanardelli, Luigi Luzzatti, Leopoldo Franchetti il conservatore che piaceva ad Antonio Gramsci.

Importante, poi, la cultura scientifica in Italia che, almeno sino al 1915, fu di alto livello, apprezzata su scala europea e internazionale, specialmente nei campi della matematica, dell’astronomia e della biologia. Alla prima generazione, che ebbe la funzione di traghettare gli ideali risorgimentali nelle pieghe dello Stato unitario, appartengono Quintino Sella, Enrico Betti, Francesco Brioschi, Stanislao Cannizzaro, Pietro Blaserna, Virginio Schiaparelli; della seconda fanno parte Vito Volterra, Luigi Cremona, Giovanni Celoria, Giovan Battista Grassi, Camillo Golgi, Angelo Celli, Augusto Righi, Guido Baccelli, Federigo Enriques, Tullio Levi-Civita, Guido Castelnuovo, Eugenio Rignano.

La costituzione della Società per il Progresso della Scienza, la nascita della rivista “Scientia” e le vicende della nascente editoria scientifica arricchiscono ulteriormente questo panorama. È noto che, poi, sulla scienza italiana e sulla conoscenza scientifica si abbatté la iattura della filosofia neo-idealista e gentiliana che, anche con il supporto della dittatura fascista, ne bloccò le potenzialità e le aspirazioni a diventare asse formativo, nella scuola e nella società, com’era negli intendimenti e nei programmi di Matteucci, di Volterra e di Enriques.

Oggi che le analisi storiche si sono fatte più attente e circostanziate, conosciamo meglio qual è stato il valore della cultura scientifica nel periodo preso in considerazione da questo libro, ciò che essa ha rappresentato nell’avvio del Paese verso la modernità e, dunque, anche ciò che è stato perduto.


Maria Bellucci – Francesca Civile – Brunella Danesi, Unità d’Italia Qualcosa da ricordare 1861 - 1915, Edizioni ETS - Naturalmente scienza, Pisa 2011


05 ottobre 2011

“Diario del primo amore” di Giacomo Leopardi

di Gianni Quilici

Che bel diario questo scritto da Giacomo Leopardi nel 1817, a 19 anni e mezzo!
C'è innanzitutto il candore, la curiosità, la passione con cui vive la visita di una “Signora Pesarese, parente più tosto lontana, di ventisei anni, alta e membruta quanta nessuna donna...di volto però tutt'altro che grossolano, lineamenti tra il forte e il delicato” e così via. Tuttavia, come il suo solito, il poeta è silenzioso, le tiene sempre sopra gli occhi, mentre lei gioca a carte coi suoi fratelli; soltanto la sera dopo riesce a giocarci, e scrive “ io per la prima volta aveva fatto ridere con le mie burlette una dama di bello aspetto e parlatole, e ottenutene per me molte parole e sorrisi...”, ma nonostante questo il poeta conclude “n'uscii scontentissimo e inquieto”. La mattina la signora parte, e lui aspetta “un buon pezzo coll'orecchio avidissimamente teso per sentirne la voce per l'ultima volta.”

C'è qui la solitudine di un giovane coltissimo, sensibilissimo e acutissimo, che si trova a vivere, da nobile e debilitato fisicamente, in un borgo di contadini e pastori “ignoranti”, in uno Stato arretratissimo culturalmente e autoritario politicamente: lo Stato Pontificio. La sua solitudine intellettuale è insieme isolamento fisico e sublimazione dei desideri sessuali, che forse, a leggere le parole che seguono, conosce relativamente.

Scrive, infatti, Leopardi:
Mi posi in letto considerando i sentimenti del mio cuore, che in sostanza erano inquietudine indistinta, scontento, malinconia, qualche dolcezza, molto affetto, e, desiderio non sapeva né so di che, né anche fra le cose possibili vedo niente che mi possa appagare”.
In questo passaggio balza agli occhi il secondo elemento (notevole) del Diario: l'analisi quasi ossessiva dei sentimenti, condotta sempre con il necessario distacco. Leopardi capisce, infatti, che questi sentimenti amorosi possono essere dettati dall'inesperienza e dalla “novità del diletto” e li analizza con spietatezza, cogliendone aspetti positivi e negativi e sapendo che il tempo, la poesia e i sogni di gloria potranno guarire questo amore.
Ecco, l'aspetto più profondo del Leopardi è questa miscela tra la passione ingenua e poetica e la lucidità con cui si osserva in una sorta di sdoppiamento: da una parte egli soffre per i fortissimi desideri inappagati; dall'altra sottopone questo innamoramento ad una analisi fredda e spassionata per capire e uscire da quello stato. In altri termini Leopardi tende a relativizzare-relativizzarsi, ponendo se stesso in un itinere esistenziale, che intuisce essere all'inizio. Ciò che ora gli può sembrare tragedia, domani forse non lo sarà; quindi, sottoponendo i suoi stati d'animo ad un'analisi dettagliata, pur soffrendo, crea consapevolezze che relativizzano il suo dolore, riducendolo.

Questo approccio mentale di abbondono alla bellezza contemplatrice e insieme di riflessione radicale su di sé e sul cosmo sarà la cifra stilistica e psichica del Leopardi dei Canti, delle Operette morali e dello Zibaldone.

Giacomo Leopardi. Diario del primo amore. A cura di Alvaro Valentini. Francisci Editore.


"WAM La vita e il tempo di Wolfgang Amadeus Mozart" di Piero Melograni

di Maddalena Ferrari


Scartabellando fra i libri a metà prezzo, sezione musica, in vari remainder, mi sono più volte imbattuta in un titolo in parte singolare: WAM-La vita e il tempo di Wolfgang Amadeus Mozart di Piero Melograni. Bella rilegatura, sovracopertina suddivisa orizzontalmente in una parte nera, in basso, ed in una bianca, in alto; sul nero, la scritta bianca in corsivo WAM; sul bianco, silhouette di personaggi d'opera, precisamente de “Le nozze di Figaro”.

Pur essendo un'adoratrice, mi si passi il termine, del musicista, non mi sono mai decisa non solo a comprarlo, ma nemmeno a sfogliarlo. L'autore, uno storico più che un musicologo, non mi dava sufficienti stimoli; e poi, quanti libri ho su Mozart...!

Finché un giorno, in una libreria di Bologna, trovandomelo di nuovo davanti agli occhi, mi mi sono chiesta: perché no? L'ho sfilato dallo scaffale e mi sono messa a leggiucchiare qualche pagina: innanzitutto la prefazione, “Perché WAM”, dove lo scrittore spiega la scelta del titolo e afferma che “Mozart fu grande anche perché sapeva divertirsi. Possedeva in sé tutti gli stati d'animo che la musica è in grado di esprimere (...)”. E poi, confutando la superficialità del cliché del genio che crea di getto, sottolinea l'applicazione, la fatica, lo studio e l'impegno profusi dal musicista fin dalla più tenera età, per poter arrivare a comporre velocemente e ad improvvisare fantasiosamente; ne mette in risalto la capacità di sentire la musica prima di scriverla, l'eccezionale memoria.

Successivamente ho dato una scorsa ad alcune delle ultime pagine, il “Congedo” e qui Melograni traccia l'itinerario della scrittura del libro, dall'idea di Antonella Laterza di chiedergli una breve storia della vita di Mozart destinata ai ragazzi, alla decisione di scrivere qualcosa di più ampio e complesso. Inoltre l'autore, sempre in questa sezione, fa una lucida dichiarazione del suo amore per Mozart, che ha anch'esso una storia...

Mi sono convinta e l'ho comprato.

Il testo ha la struttura ed il piglio narrativo, con momenti di vera e propria suspense, di un romanzo. Il romanzo di Mozart. Non romanzato, però. Melograni è attento a ricostruire, come recita il titolo, la vita e il tempo del musicista, attenendosi soprattutto alle fonti, cioè le lettere che i membri della famiglia Mozart scrissero, in gran parte il carteggio fra Leopold e il figlio, ed altri documenti certi; inoltre egli utilizza testi di biografi e saggisti, quali Abert, Carli-Ballola e Parenti, Einstein, Frullini, Hildesheimer, Kierkegaard, Mila, Paumgartner, Solomon, procedendo a rapidi confronti ed interpretazioni personali, che non appesantiscono la narrazione e segnano dei punti di sintesi nel processo di acquisizione delle conoscenze.

Il percorso narrativo ci introduce nella storia di un'epoca, nel suo contesto sociale ed economico, nella sua vita materiale, resa quasi tangibile.

In questa congerie si muove il Genio e, con lui, si muovono le persone con cui egli ebbe relazione.

Vediamo profilarsi con nettezza soprattutto i rapporti contrastanti e contraddittori con il padre Leopold, che coltiva e protegge il portentoso figliolo, lo lega a sé, lo sfrutta e se lo vede poi sfuggire di mano; il legame affettivo con la sorella, che, più grande di lui, è destinata a essere relegata sempre più in ombra ed è invidiosa del fratello; il vincolo matrimoniale con Constanze, con i suoi trasporti erotici, i suoi alti e bassi, le gelosie e i tradimenti reciproci; e poi gli amici, le figure di alto bordo, i personaggi politici.

Respiriamo quasi fisicamente l'atmosfera del tempo: il caldo, ma soprattutto il freddo, il gelo delle stanze in affitto il buio e i disagi della scarsa illuminazione; il cibo e le bevande, l'acqua inquinata della Senna a Parigi; la medicina, le diagnosi e le cure approssimative: tutto si tocca per così dire con mano.

Soprattutto sono tangibili i rapporti economici e di classe. Mozart, orgoglioso, addirittura superbo, per sua stessa ammissione, quando percepisce di non ricevere la stima che merita, non ha timore per nessuno; e, anche se Melograni lo considera ideologicamente un moderato, seguace della Massoneria senza profonde convinzioni ( ma c' è chi non la pensa così: fra gli altri, Lidia Bramani nel saggio “Mozart massone e rivoluzionario”), rileva che egli non amava i nobili e i potenti; solo che cercava di infrangere individualmente le barriere sociali, in una battaglia personale, non politica.

Consistenti appaiono poi i flussi di denaro, che circolano prima attraverso Mozart e vanno a finire nelle tasche del padre ( il quale pare abbia fatto una fortuna grazie al figlio, senza ricompensarlo adeguatamente ), e poi nella mani dello stesso Wolfgang, che però non seppe amministrarli granché bene.

Il nodo centrale dei rapporti socioeconomici è posto dallo scrittore in una questione, che emerge nell'episodio da lui raccontato nel prologo, che,oltre a farci entrare subito in medias res, senza alcun preambolo, costituisce un assaggio dello stile che presiede alla scrittura di tutto il libro: piglio narrativo deciso e accattivante, interazione e sintesi tra racconto biografico e ricostruzione storica, problematizzazione di alcuni punti, interpretazione ragionata con riferimento alle fonti.

L'episodio di cui qui si parla è l'esibizione al clavicembalo di Wolfgang, a nove anni, e della sorella Nannerl, a quattordici, organizzata dal padre nel luglio del 1765 in una taverna di Londra: un concerto a pagamento, con biglietti a prezzi stracciati, rivolto alla piccola borghesia.

Secondo Melograni il fatto è significativo per due aspetti: prima di tutto, perché segna il momento finale del “bambino prodigio”, che da allora in poi non potrà più essere esibito come tale, per l'età raggiunta; in secondo luogo, perché attesta l'importanza che il mercato dei consumatori assunse per Mozart, cosa che probabilmente nocque al compositore in futuro nei confronti dei potenti, impedendogli di trovare il tanto desiderato posto a corte.

Il nuovo profilo di libero artista che si andava delineando non sarebbe stata una scelta di Mozart, il quale, a detta dello scrittore, che si rifà comunque ai pareri espressi da Elias e da Buscaroli, subì il mercato più che cercarlo. Melograni aggiunge però che il musicista seppe adattarvisi benissimo, cercando il giusto equilibrio fra tradizione e innovazione, genialità, soluzioni avanguardistiche e bisogno di non turbare il pubblico.

I rapporti complessi fra il percorso personale di Mozart, in cui la “rottura” con il padre ha un grande rilievo, e la situazione sociale del tempo vengono acutamente analizzati nel paragrafo “Mozart e il mercato”, alla fine del capitolo “La conquista della libertà”. E illuminanti sono altri paragrafi tematici inseriti negli ultimi capitoli.

Non convince invece il modo in cui l'autore tratta della malattia, morte e sepoltura del compositore, che appare poco articolato e piuttosto sbrigativo. E nemmeno il drastico giudizio sul Requiem, composizione quasi del tutto spuria, secondo Melograni, che non tiene forse nella dovuta considerazione i valori di novità messi in rilievo, pur con contraddizioni, da altri studiosi.

L'autore non si addentra nell'analisi musicale delle creazioni mozartiane, lascia il giudizio ai musicologi; fa tuttavia notare come il talento e il coraggio del compositore gli permettessero di andare oltre gli schemi (non solo musicali) dell' epoca e come la sua musica fosse geniale e fantasiosa e possedesse vitalità ed energia; e ricorda che perfino Schönberg volle riconoscere il suo debito nei confronti di Mozart.

Il teatro è poi affrontato con qualche disomogeneità e con una lettura troppo sbilanciata verso il contenuto ideologico, mentre il valore musicale sembra dato per scontato; e risulta un po' strano che l'ambivalenza, che Melograni rileva giustamente come uno dei tratti caratteristici della musica di Mozart, a proposito del “Don Giovanni” sia messa in relazione esclusivamente con le vicende dei personaggi.

E tuttavia è un libro accattivante, nella narrazione e nella ricerca storica, crea tensione e senza ostentazione dà informazioni preziose, che aiutano a penetrare nel mistero Mozart, un luogo molto esplorato, ma forse inesauribile.


Piero Melograni. WAM. La vita e il tempo di Wolfgang Amadeus Mozart. Editore Laterza. Euro 20.00






02 ottobre 2011

"Semprevivatagliapietra" di Stefano Mariani

di Nadia Davini

Semprevivatagliapietra in tre parole: semplice, veloce, intenso.

Tre aggettivi bastano per descrivere un libro? Se si tratta di un libro schietto, che non lascia niente al caso o all'intuito, tre parole messe in fila l'una accanto all'altro possono ridurre drasticamente il campo della descrizione, concentrandosi così sul significato più umano di questo romanzo, pervaso fin nelle profondità dalla voce di Aldo Tagliapietra.

Canzoni, musiche, parole che hanno attraversato decenni, macinato generazioni su generazioni, lasciando preziosi pezzi di autore come “Gioco di bimba”, la storia di un abuso sessuale perpetrato nei confronti di una ragazza molto giovane che fa da contraltare a un canto e a una sonorità trasognati e fiabeschi. Insomma un omaggio al cantante veneto senza precedenti, un lungo racconto intimo e personale iscritto nella passione per la musica, nelle sofferenze adolescenziali, nella felicità inaspettata e negli interminabili stati depressivi, generati da angoscia e senso di smarrimento.

C'è tutto questo in Semprevivatagliapietra: in poche parole c'è Stefano, con le sue convinzioni più radicate e il suo senso dell'umano, fatto di tolleranza, rispetto per i diversi e gli emarginati, amicizia e uguaglianza sostanziale, oggi così paradossalmente fuori luogo.

Questo libro è insieme una testimonianza, un racconto e una fittissima sequenza di riflessioni legate all'esperienza diretta dell'autore e magistralmente coordinate da una penna che taglia i contenuti e la forma, che la plasma a seconda delle esigenze e la riduce a semplicità narrativa.

Stefano Mariani è un uomo che ama apparire: l'intento però non è tanto quello di scrivere un'autobiografia, ma di presentare in modo organico il suo pensiero e la storia di un giovane. E ciò è stato possibile raccontandosi fin dal periodo della sua formazione: la sua preistoria, ricercando la sua prima età, vivisezionando i ricordi.

Ne è protagonista un giovane studente universitario appassionato di musica, gelosamente legato alla sua chitarra, l'agguerrita Pedro Martinez e turbato da pensieri irrequieti e dalla ripetuta comparsa in sogno del suo cantante preferito che gli rivela strade e percorsi nascosti. Si possono abbandonare le proprie certezze per intraprendere un viaggio verso l'ignoto della propria coscienza? Il protagonista pensa di sì e decide di imbarcarsi sulla sua psico-bolla alla volta di ricordi passati, intense sensazioni lontane e forti emozioni presenti. Col tormento ostinato di ciò che verrà dopo, sempre più distante da quel “Cemento Armato” descritto da Tagliapietra, spazio ideale in cui immaginare i tormenti di un giovane adulto.

Ma Semprevivatagliapietra non è un semplice racconto: il cammino del protagonista è infatti il resoconto di un processo di conoscenza e di crescita interiore. La testimonianza di un progressivo passaggio da una visione superficiale della realtà a una comprensione sempre più profonda e affascinata della propria identità e dignità di uomo immerso nella grande armonia dell'universo.

Grazie a uno stile semplice, a un linguaggio schietto e a una storia avvincente questo libro permetterà di entrare in un mondo complesso dove la spiritualità e l'amore per la musica rappresentano il riscatto della condizione troppo spesso infelice e inquieta dell'essere umano.

Come non ascoltare, quindi, quella innegabile voglia di accendere lo stereo e lasciarsi immergere in una psico-bolla tutta personalizzata costruendo viaggi immaginari e ripercorrendo quei passaggi e quei momenti così intimamente custoditi dentro ognuno di noi?


Stefano Mariani, Semprevivatagliapietra, Marco Del Bucchia editore, Massarosa 2011. pp.130, Euro 12,00


Stefano Mariani è nato, vive e lavora a Lucca. Al suo attivo un romanzo, Al caffè del Tucano, 2001 oltre a vari lavori musicali come chitarrista e compositore.

25 settembre 2011

“Venezia” una foto di Gianni Berengo Gardin

di Gianni Quilici

Questa bellissima foto di Gianni Berengo Gardin richiede probabilmente anche fortuna (un po'), perchè qui “l'attimo decisivo”, teorizzato da Cartier Bresson si deve sincronizzare e comporsi non in uno, ma almeno in cinque-sei “attimi decisivi”.

Trovare il momento giusto dello scatto, in queste situazioni, può essere anche fortunoso. Ma qui conta intanto intravedere la foto, coglierne le potenzialità, stare all'erta e aspettare. Provare e riprovare.

Scattare uno, due, dieci volte, fino a quando..., perché, in quella scenografia, è possibile realizzare il piccolo capolavoro fotografico: scattare, cioè, un'immagine complessa, sia nella forma che nel senso, come è successo, in questo caso, a Berengo Gardin.

Infatti abbiamo una serie di volti-esistenze tutti significativi. Immaginate, infatti, di stampare la foto in grande formato. Immaginate l'uomo in basso sulla sinistra con occhiali, la mano poggiata sulla guancia, che sta interloquendo con qualcuno, fuori campo; o l'altro uomo sulla destra in alto con berretto, forse uno del personale del motoscafo, con quello sguardo diretto e interrogatorio; oppure i volti riflessi nello specchio, che si confondono con quelli reali von risultati un poco surrealisti..

Questi corpi si inseriscono in una composizione geometrica percorsa da linee verticali e orizzontali, nel contrasto netto di bianco e nero, come se fossero su un palcoscenico o appena dietro le quinte di un teatro, nella profondità della stratificazione che il rispecchiamento del vetro produce.

Tanti sguardi, che non si incrociano, tante possibili storie di un gruppo in fusione, colto nella naturalezza dello scorrere quotidiano, in un attimo in cui forma ed espressione felicemente si incontrano.


Gianni Berengo Gardin. “ Venezia. Motoscafo per piazzale Roma. ” 1930.

21 settembre 2011

“La scrittura” di Gianni Quilici



Cosa vuol dire per te scrivere?

Oltrepassarmi. Diventare, in qualche misura, altro da ciò che ero all'inizio. Compiere un movimento ( un viaggio?) culturale, mentale e infine, nei migliore dei casi, anche esistenziale.

In che modo?

Attivando una serie di conoscenze acquisite e facendole agire attraverso quel grumo di energie potenziali rimuginanti: presenti e latenti. In altri termini mescolando sapere e vitalità intellettuale in quel preciso momento.

Ti spieghi meglio?

Quando scrivi porti con te “qualcosa” del tuo patrimonio culturale, che potenzialmente è più grande di ciò che riesci ad esprimere: ci sono immagini, pensieri, storie, concetti, parole, simboli che, per lo più, sonnecchiano in qualche angolo della nostra materia grigia. Scrivere è mettersi nelle condizioni di tirarli fuori, chiarirli, concatenarli eccetera, eccetera. Per questo la motivazione, la tensione, i desideri più sono presenti, più bruciano, più sono radicali (vanno alla radice), più sono anche liberi da ciò che sanno, meno hanno bisogno di difendere a priori niente, meno hanno paura di dire ciò che non si ha coraggio di dire, più hanno punti di vista molteplici, più cercano di rispondere ai molti possibili “perché”....


19 settembre 2011

"Le parole ferite" di, Mario Del Plato

di Luciano Luciani

Veniva da Eboli, Mario Del Plato: quella terra di frontiera in cui anche Cristo si fermò, mentre Carlo Levi doveva spingersi appena poco più a sud per elaborare la cronaca, liricamente trasfigurata, dei costumi millenari di un meridione interno e interiore.

Semplice il mondo delle sue origini, duro, faticoso il suo apprendistato alla vita. Poi, alle soglie dell’età adulta, giovane uomo, fornito di un diploma magistrale, poco prima degli anni del boom economico, come tanti altri figli del mezzogiorno, anche Mario aveva cercato fortuna lontano dalla propria terra, nell’emigrazione, nella diaspora in Italia e nel mondo. Lui si era fermato in Toscana, a Lucca, dove aveva costruito un proprio progetto di vita e trovato il suo punto d’equilibrio umano, familiare, professionale. Un’esistenza semplice, la sua, serena, appagata: la famiglia, il lavoro, gli amici e tanti, tanti interessi. La fotografia, che gli regalava belle soddisfazioni, i viaggi, le lingue, la montagna…

Poi, l’infermità: una malattia terribile, devastante, di tipo degenerativo che, invalidando progressivamente il corpo lasciava inalterati lucidità e raziocinio per una sempre più dolorosa consapevolezza della propria condizione. Esemplare la sua reazione di fronte all’avanzare del male: non abdicare alla vita di sempre, non arretrare se non assolutamente costretto, ma continuare, con tenace testardaggine, a coltivare il giardino di un’esistenza normale anche se quel perimetro si andava inesorabilmente restringendo un giorno dopo l’altro.

Il suo coraggio e la sua passione di vita nonostante tutto sono ben testimoniati da un libro straordinario, L’ultimo treno per Kyoto, cronaca puntuale e dettagliata, tutta intrisa di ironia e autoironia, del viaggio compiuto da Mario, già costretto dalla malattia sulla sedia a rotelle, nientemeno che in Giappone, una meta lontana e per questo da sempre desiderata: l’ultimo tour della sua esistenza di uomo che tanto amava conoscere altri luoghi, altre genti, modi di vita differenti a partire dall’espressività linguistica. Un’ultima parentesi di serenità, mentre incalzano i giorni, sempre più difficili e dolorosi, di una malattia che, implacabile, non concede sconti: il corpo che non risponde più, Mario che, a poco a poco, non è più in grado di parlare, di interloquire. Gli viene a mancare la voce, perde la parola che da quel momento è appunto “ferita”, progressivamente sfigurata, sfregiata, costretta solo in forma di e mail e poi quando anche l’uso del pc diviene problematico ridotta a sms, l’ultima, l’unica, possibilità rimastagli per comunicare con gli altri. Ma dentro gli si agitava ancora un mondo: innanzi tutto di sentimenti, poi di ricordi, riflessioni, considerazioni sulla propria condizione che si andava facendo sempre più fragile e dipendente. E la tensione continua tra l’attaccamento alla vita e i pensieri, a volte il desiderio, della morte.

Morire, però, per chi è vivo, e sente e soffre, non è un fatto naturale. “Ogni morte” ha scritto Gesualdo Bufalino “è un assassinio. E se non si urla, vuol dire che si acconsente”. E Mario non acconsente.

Di questa lunga resistenza tratta questo suo ultimo, definitivo libro: un lungo, intenso, struggente, a tratti straziante, monologo interiore. Un inarrestabile flusso di coscienza che racconta non solo la malattia e le vita demidiata dal male, ma anche il coraggio per non arrendersi; la disperazione, spesso ma non sempre, lenita dalla “carità feroce del ricordo” di bei momenti vissuti, delle belle esperienze fatte, e il dolore allo stato puro, senza mediazioni possibili, di chi si percepisce unicamente come un peso per se stesso e per gli altri.

E poi il conforto della scrittura che aiuta a chiarirsi con se stesso e a entrare in un’estrema relazione con gli altri e consolazione della memoria che permette di continuare a viaggiare a ritroso negli anni. Per recuperare i tempi e i luoghi della famiglia d’origine, i nonni, i genitori, il mondo delle cose semplici di Eboli negli anni cinquanta e, ancora, ricordi di scuola, del servizio militare, della vita professionale nelle Ferrovie dello Stato. La moglie Daniela, la figlia Gioia, amici e parenti, uomini e animali entrano ed escono in queste pagine senza un ordine apparente se quello del procedere analogico del cuore e si mescolano col racconto, sbalzato in punta di penna con felice abilità narrativa, dei piccoli e piccolissimi atti di una vita forzatamente angusta e disadorna: l’arrivo di una nuova badante; i difficili rapporti con i medici; la condotta di Tobi, il cane di casa, quasi una persona di famiglia, mordace e perennemente impegnato ad abbaiare a tutto e tutti; le medicine e le terapie che poco possono fare per uno stato di salute che non migliora, non può migliorare.

Pagine che si fanno sempre più lancinanti, dense, precipiti a mano a mano che si procede verso la fine, quando sempre meno nascosta si fa la presenza della “dolce fanciulla / che dice all’orecchio: Più Più”. Un incontro che Mario sembra attendere da tempo: Solo alla morte non c’è soluzione perché essa stessa è la soluzione per eccellenza.

Sono le sue ultime parole ferite.


Mario Del Plato, Le parole ferite, Maria Pacini Fazzi editore, Lucca 2011, pp. 142, Euro 10,00

15 settembre 2011

"La struttura strappata" di Stefano Morelli

di Nadia Davini

Solo realtà, niente più. La Struttura Strappata di Stefano Morelli (viareggino, classe '79, fotografo professionista) è la trasposizione scritta e fotografata, formato libro tascabile, di un'esperienza di vita consumata in tre mesi.


E di un progetto molto più ampio, “Re..mi..famiglia” ideato dalla cooperativa lucchese “L'Impronta Onlus” che prevede il monitoraggio delle famiglie dei minori stranieri ospiti del centro Carlo del Prete di Lucca nel paese di origine.

90 giorni di appunti, di conoscenza e soprattutto di scatti in posa, scatti liberi e autoscatti; tre mesi di lavoro, durante i quali i protagonisti indiscussi sono diventati i ragazzi che vivono nella Comunità Carlo del Prete e la loro quotidianità trascorsa all'interno della struttura e in città. Proprio loro, quei ragazzi albanesi, di età compresa tra i 14 e i 18 anni, divisi tra emigrazione e ritorno nel paese di origine. Tra la speranza, che sa di desiderio, di trovare una sistemazione, un lavoro, un futuro economico stabile e la sofferenza determinata dall'allontanamento, dalla nostalgia della propria famiglia, dalla voglia di tornare a casa e strutturare lì la propria vita, ricucendo così quello strappo iniziale che ogni adolescente si porta impresso negli occhi.

La struttura strappata, infatti, è una vera e propria condizione sociale e psicologica che accompagna i ragazzi per tutto il percorso della crescita e con la quale devono continuamente confrontarsi. Ed è in questo strappo che si inserisce la potenza della fotografia: in una prima serie di scatti vengono ritratti gli adolescenti impegnati durante la loro quotidianità italiana; la seconda serie, invece, vede come soggetti scelti i familiari rimasti in Albania.

Gli scatti degli uni, poi, sono stati consegnati agli altri e viceversa, fotografando anche i momenti della riconsegna: la fotografia, in questo modo, è diventata il mezzo di comunicazione visuale tra queste due parti di mondo, tra queste due metà così presenti e, talvolta, così ingombranti dentro ogni ragazzo.

Leggendo il libro è sorprendente come le immagini riescano a catalizzare interamente l'attenzione del lettore, irrompendo con significato e consapevolezza sulla scena del libro. E lasciando un senso di intimità profonda con quanto viene letto e, in qualche modo, vissuto di rimando.

Non a caso la forza de La struttura strappata sta proprio in questo: creare un ponte continuo tra i nove ragazzi che hanno preso parte al progetto, creare un collegamento ancora più ampio con le famiglie in Albania, utile per una maggiore integrazione e conoscenza anche all'interno della stessa comunità e nel nuovo ambiente di vita e, infine, dar vita a una connessione spontanea con il pubblico dei lettori. Che si sente indirettamente parte, attivo in questo processo di ricerca delle origini con l'uso delle immagini.

Stefano Morelli, d'altronde, nasce fotografo e i suoi scatti ne sono una testimonianza: in ogni fotografia si delinea uno spessore che colpisce, come se ognuno di quei soggetti ripresi avesse una storia esemplare da raccontare.

Esemplare per il coinvolgimento dell'autore e per la sua volontà di scattare sempre e comunque. Di testimoniare, come una sorta di impegno quotidiano. Esemplare per l'argomento in sé, per l'emergenza che solleva, per l'attualità che ci vede tutti coinvolti. Esemplare, infine, per il senso intrinseco del libro che, per dirla con le parole dell'autore, “si è sviluppato con l'obiettivo di abbattere i muri della distanza, delle diversità culturali tra il paese di origine e il paese adottivo, di aiutare il minore immigrato a ricostruirsi una nuova identità conforme al nuovo ambiente, creando e ri-creando, attraverso l'uso della fotografia, connessioni tra i ragazzi e le loro famiglie – che tornano ad essere ognuna davvero una struttura che connette”.


Stefano Morelli, La struttura strappata, Bonanno Editore, Roma 2011, pp. 95, euro 10.


Per maggiori informazioni: www.stefanomorelliphoto.com www.improntacoop.it