16 gennaio 2015

"Edgar Allan Poe, la penna e la bottiglia " di Luciano Luciani



Non accenna a diminuire la fortuna di Edgar Allan Poe. Dagli USA all’Italia continuano a moltiplicarsi la traduzioni, le edizioni, le riletture alla ricerca di una sempre maggiore consapevolezza critica dei testi dello ‘scrittore maledetto’ per eccellenza.

I suoi racconti straordinari, fantastici, di viaggio, che avranno una grande influenza sull’ispirazione di Jules Verne, polizieschi, per i quali egli inventò il detective Dupin, archetipo di tutti gli ‘investigatori dell’intelligenza’ da Sherlock Holmes ad Hercule Poirot, sono ancora gustati con coinvolta apprensione da milioni di lettori di tutte le età, in ogni parte del mondo. Ma Poe non è solo l’iniziatore di ‘generi’ che tanta fortuna hanno avuto dalla seconda metà dell’Ottocento ai nostri giorni: è anche poeta di versi ‘visionari’, “invenzioni di ritmica bellezza e musica pura” e nemmeno è da trascurare il suo epistolario. Soprattutto le lettere d’amore scritte nell’adolescenza quando s’infatuò di Jane Stith Stanard, una sua insegnante, donna già matura e destinata a morire pazza, e quelle alimentate dalla passione del romanziere per la cugina Virginia, minata dalla tisi e sposata nel 1835 in circostanze drammatiche, quando la giovinetta aveva solo 13 anni e ne dimostrava anche meno.

Critici e biografi hanno dedicato centinaia di saggi volti ad indagare tutti i possibili anfratti della sua allucinata fantasia e i motivi che hanno determinato la sua costante sensibilità per l’orrido e il fantastico.

Questi furono forse legati strettamente al dramma umano che egli visse a soli due anni: un mattino del 1811, in un albergo di quart’ordine a Richmond, l’Indian Queen Tavern, in una cameretta angusta, nella quale si respirava un’aria pesante e fetida, su un misero giaciglio moriva Elisabetta Poe, sua madre, donna di grande bellezza e di notevole talento artistico, figlia di attori e vedova di David Poe, un modesto teatrante scomparso qualche mese prima consumato dalla tubercolosi. Nella stanzetta del sordido albergo c’erano solo loro due, madre e figlio: ed Edgar, dei cui pianti nessuno si accorse, abbandonato a se stesso, scrutò il volto emaciato della madre che agonizzò per due giorni accanto a lui, prima di chiudere per sempre quei suoi grandi occhi neri, disperatamente fissi sul piccolo che l’aveva vegliata giorno e notte.

A proposito delle macabre fantasie di Poe, un suo biografo scriverà: “Non è la memoria a ritenere coscientemente fatti ed episodi, ma è il subcosciente, sconosciuto a noi stessi, a determinare quella base su cui si formerà il carattere e il destino. Perciò tutte le donne di Poe saranno malate, avranno il marchio delle immagini che egli ebbe a due anni accanto al letto della madre. Per tutta la vita, Poe subirà attrazione e repulsione per il sangue, che gli ricorderà quel filo di sangue che scendeva dalle labbra della madre “.

Elisabetta Poe aveva una sola, vera amica e sarà lei, Frances Allan, a prendersi cura del bambino e a ospitarlo nella sua grande casa dominata dal marito, commerciante di tabacco e schiavi.
Il piccolo Edgar, insieme alla sorella Rosalba, fu adottato dagli Allan, dai quali prenderà l’altro suo cognome. Visse un’infanzia serena, confortato dall’affetto sincero della madre adottiva, che però morì quando il futuro romanziere era ancora fanciullo. La sua educazione fu assunta allora in prima persona dal signor Allan, un uomo ricco e prodigo, che condusse Edgar non ancora quindicenne in Inghilterra, luogo deputato per ogni educazione degna di questo nome, e lo sistemò in uno dei migliori istituti privati. Per il ragazzo, sensibilissimo, il college sarà soltanto un “ tetro e tristissimo ambiente inglese”. Lì non riuscirà mai ad essere partecipe dello spirito dei suoi compagni di studio, pur affrontando con decisione le difficoltà dei corsi, sempre capace ma mai eccellente.

Negli Stati Uniti il giovane Edgar tornerà solo al termine di questo lungo periodo di preparazione. Con gli Allan frequenta la migliore società, acquista maniere da gentiluomo, si iscrive all’Università della Virginia. Con ingenuità e candore si tuffa nella bella vita: beve, gioca d’azzardo, contrae debiti e, quando il padre adottivo cerca di riportarlo sulla retta via, lascia tutto e tutti e se ne va a Boston dove pubblica un primo libretto di versi, Tamerlano e altre poesie (Tamerlan and other poems, 1827): non gli darà la fama e neppure la notorietà, ma lo renderà consapevole delle sue possibilità di scrittore.

Ma inizia anche la sua esistenza errabonda. Da questo momento vagherà sempre inseguito dai creditori, fino a cercare ospitalità a Baltimora presso una zia, Maria Clemm. Qui conosce Virginia, la fanciulla tredicenne che sposerà senza esitazione, nonostante la giovanissima età della ragazza, sicuro di aver finalmente incontrato il grande amore. Edgar Allan Poe ha allora soltanto ventidue anni. Pubblica un’altra raccolta di versi e nel 1830, dopo essersi arruolato nell’esercito, viene ammesso all’Accademia di West Point, da dove, più o meno un anno dopo, verrà espulso con una sentenza della corte marziale.

Indifferente a tutto, se ne torna tranquillamente a Baltimora e per guadagnare qualche soldo partecipa ad un concorso letterario con un racconto, il celeberrimo Manoscritto trovato in una bottiglia: vince cento dollari. Intuisce che i racconti del brivido sono destinati ad avere una grande presa sul pubblico dei lettori, incoraggiato in ciò dagli editori che vedono nella sua scrittura allucinata e macabra la possibilità di buoni guadagni.
Crea così, come mosso da un’istintiva vocazione all’horror, un genere nuovo che dominerà e domina tuttora la letteratura del brivido, maestro riconosciuto anche dai grandi novecenteschi dell’orrido e del fantastico, da Lovecraft a King.

La sua è un’arte che ha connaturata in sé il demoniaco, con intrecci di una fantasia esaltata e terrificante, che si compiace nei suoi scritti di inventare e sciogliere gli enigmi più complicati. Con il personaggio del detective Auguste Dupin inaugura un genere poliziesco destinata a durare a lungo, influenzando non solo gli scrittori di ‘gialli’ sino ai nostri giorni, ma anche i grandi registi di Hollywood. Per esempio, lo stesso Alfred Hitchcock non esiterà ad ammettere di aver letto e riletto i capolavori di Poe per trovare ispirazione ai suoi film. Nonostante la celebrità letteraria quasi raggiunta, tormentato da costanti problemi psicologici, oppresso da una lacerante malinconia, avvilito da una perenne depressione che cerca di superare con il sostegno e il conforto dell’alcool, Poe conduce un’esistenza dissoluta, stravagante, trasgressiva, costantemente ‘al limite’ e oltre.

Per il denaro manifestò addirittura avversione e passò in un breve volgere di tempo dalla agiatezza economica alla più squallida miseria, una condizione che lo accompagnerà fino alla fine della sua vita, soprattutto dopo aver perduto anche l’affetto della sua Virginia, morta giovanissima dopo un’agonia che gli fece ricordare da vicino quella materna. “Io non sono riuscito ad amare che là dove la Morte mescolava il suo fiato con quello della Bellezza“: così scriveva il romanziere con l’occhio evidentemente rivolto alla tragedia dei suoi affetti privati.

Straordinaria la sua sottigliezza di penetrazione psicologica all’interno dei terrori dell’animo, sapiente la sua preparazione alla catastrofe, di una ingegnosità maniacale i suoi enigmi e i suoi modi per scioglierli. Da questi elementi nascono I racconti del grottesco e dell’arabesco (Tales of the grotesque and the arabesque, 1840), Lo scarabeo d’oro (The gold bug, 1843), Gli omicidi della Rue Morgue (Murders in the Rue Morgue), La lettera rubata (The purloined letter) per ricordare solo i testi più avvincenti e famosi. L’alcool e la penna erano i suoi compagni più fidati, gli unici amici che riuscivano a dargli forza e una qualche sicurezza.

Non ebbe nemmeno la soddisfazione di apprendere che Mallermé aveva tradotto le sue poesie e mai gli venne in mente che Verne, Stevenson e Wilde avrebbero, qualche anno più tardi, tratto non pochi insegnamenti dalla sua ingegnosità speculativa.

Gravato da tare psichiche, da inibizioni sessuali, dall’impotenza dovuta all’uso dell’oppio, dal lacerante e sempre presente ricordo della madre, Poe morì a soli quarant’anni, in una grigia giornata d’ottobre in uno squallido vicolo di Baltimora “mentre accanto a lui un compagno di sbronze gli cantava con voce gutturale una triste nenia d’addio. Se ne andò senza particolari rimpianti, se non per la bottiglia vuota abbandonata al suo fianco dalla quale aveva tracannato anche l’ultima goccia”.


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