26 febbraio 2020

"Anche i Pisani sono esseri umani" di Luciano Luciani (8a puntata)


                                                                                 

personalissime memorie di un tempo lontano   
                           che nessun casa editrice - forse a ragione -
 sembra avere interesse a pubblicare.

La goccia che fece traboccare il vaso.
La goccia che fece traboccare il vaso nei sempre più difficili rapporti con l'Enaip di Pontedera... furono due.
 

La prima si riversò fuori dall'orlo il 31 gennaio 1973, festa di san Giovanni Bosco, patrono degli apprendisti: santa Messa in officina alla presenza di religiosi locali - gli stessi che avevano optato per il non aderire, né sabotare quando mi dannavo l'anima per trovare corsisti e a cui avevo avuto l'ingenuità di rivolgermiro nella speranza che volessero aiutarmi -; aclisti in alta montura ben forniti di labari e gagliardetti precettati dalle loro associazioni; pii insegnanti e corsisti devoti; alcuni operai e impiegati Piaggio "per grazia ricevuta". Una consuetudine locale, mi dissero. Io non c'ero. Per carità, niente contro don Bosco, al quale riconoscevo una vocazione sociale sconosciuta ai liberali del nostro Risorgimento, ma non mi sorrideva l'iniziativa di piantare il crocione in un ambiente laico - perché finanziato coi soldi di tutti - e per di più in quell'officina la cui agibilità era anche il risultato delle mie fatiche. Almeno avvertitemi, cosa che nessuno si era preoccupato di fare. Quel giorno festeggiai il patrono degli apprendisti rimanendo a casa mia, ben cosciente che quell'assenza, ignorata dai più, sarebbe stata certamente registrata da alcuni pochi che però in quell'ambiente clerical-pontederese qualche peso lo avevano. 

Gli stessi non poterono poi non cogliere la mia partecipazione - eccola, la seconda goccia! -  a una manifestazione con Livio Labor, ormai inviso a tutti i cattolici conservatori d'Italia, promossa da un circolo culturale locale d'ispirazione socialista. Qui non solo andai, ma mi ritagliai pure una piccola parte in commedia, svolgendo un ruolo che in età matura mi sarebbe toccato tante e tante altre volte, di moderatore della serata. Che vide la presenza di tanta gente e lo svolgimento di un interessante dibattito: il ruolo dei cristiani in politica; la tormentata vicenda delle Acli; le luci e le ombre della Chiesa di Paolo VI; il governo Andreotti-Malagodi e le divisioni interne alla "balena bianca" democristiana... Ricordo anche, e senza false modestie, di essere stato particolarmente brillante in quella occasione. Una luminosità che mi rese particolarmente visibile e che di lì a poco, pochissimo, avrei pagato a caro prezzo.

Primi anni Settanta: la fatica della politica.
Passato dalle Acli alla politica, Labor non aveva avuto particolare fortuna. Probabilmente prematuro il suo tentativo di introdurre l'idea del conflitto sociale all'interno del corpaccione molliccio, vischioso, interclassista del cattolicesimo italiano e del suo partito di riferimento, la Dc; sbagliata, poi, la sua collocazione all'interno di un'area politico-culturale, quella socialista, che non gli apparteneva e che stava già incubando la mutazione genetica craxiana. Il colto conferenziere che intervenne alla partecipatissima assemblea a Pontedera era appena uscito da una sonora sconfitta elettorale: il suo Movimento Politico dei Lavoratori, Mpl, messo in piedi frettolosamente per favorire il distacco e il riposizionamento di settori di mondo cattolico sullo scenario politico italiano, nelle elezioni anticipate del 7-8 maggio 1972 aveva raccolto solo lo 0,4 degli elettori. Quell'esperimento era fallito: le elezioni avevano detto "avanti al centro"e per Labor, almeno come figura significativa della politica italiana, iniziava il tempo di un dignitoso declino.
 

Fuori dalla loro portata l'ex presidente delle Acli, le rappresaglie degli aclisti/democristiani locali si concentrarono su quanti, a torto o a ragione, vennero individuati come suoi simpatizzanti o referenti. Fu proprio quello che mi accadde. Il clima si fece immediatamente pesante e credo che il buon Carlo Ciucci si sia dovuto adoperare al meglio delle sue doti diplomatiche di cattolico di lungo corso per evitarmi rivalse e rappresaglie troppo pesanti e tali da pregiudicare le rifiorenti attività del Centro. Comunque, se fino a quel momento non erano mai mancati gli inviti per noiosissime riunioni di tutti i tipi (organizzative, di programmazione, di coordinamento, pedagogico-didattiche...) ora andarono improvvisamente rarefacendosi; sempre più faticose divennero le comunicazioni con le sedi di Pisa, Firenze, Roma e sempre meno significative le mie relazioni personali con i colleghi di lavoro, che, pure di fronte alla proposta di un caffè insieme al bar, trovavano sempre la scusa di qualche impegno impellente a cui attendere. Insegnavo nei corsi, facevo lezione la sera, mi impegnavo in luoghi e orari per me pendolare proibitivi nei faticosissimi corsi-apprendisti, ma era evidente che per Luciano a Pontedera non c'era più futuro. 

Bene, anzi male, ma forse era il momento di chiedere un trasferimento. Ne parlai con l'allora coordinatore regionale Enaip Marcello Perrotta, destinato negli anni a venire a un percorso professionale di tutto rispetto come sessuologo e terapeuta del mal di coppia, e mi fu proposta una possibilità, l'ultima, in quel di Livorno. Non c'ero mai stato e ne approfittai per visitare la più brutta città della Toscana e prendere contatto con un paio di persone con cui avrei dovuto lavorare. Per fare cosa? Dirigere un Cfp, naturalmente nei pelaghi di mille problemi organizzativi ed economici, amministrativi e di idee... Un déja vu che proprio perché tale non mi preoccupava più di tanto. Anche perché non potevo fare diversamente, accettai.

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