08 marzo 2011

" Storia del carciofo e delle sue suggestioni" di Luciano Luciani

Amarognolo, ma salutare


Amarognolo ma salutare, il carciofo. Spinoso e pungente nella sua bella veste esteriore, ma adattabile ad ogni tipo di terreno appena fertile, sembra convalidare la bontà del precetto evangelico giovanneo, Nolite iudicare secundum facies: non giudicate secondo l’apparenza. Insomma, come “la barba non fa il filosofo” così il sapore amaricante e le spine non rendono il nostro ortaggio necessariamente degno di biasimo. Magari ne hanno complicato l’affermazione sulle tavole, se è vero che il carciofo, apprezzato dagli Egiziani e dai Greci, ampiamente diffuso nell’area mediterranea al tempo dei Romani che lo importavano dalla Spagna e dall’Africa settentrionale, fu poi dimenticato almeno fino alle soglie dell’età moderna. Solo nel 1466, infatti, Filippo Strozzi il Vecchio (1428-1491), rientrando a Firenze dopo il lungo esilio cui l’avevano costretto i Medici, ne avviò la riscoperta in Toscana, introducendone semi e coltura dal regno di Napoli dove gli uni e l’altra erano giunti attraverso le tradizionali relazioni con i Mori di Spagna: lo testimonia il nome di origine araba, harshùf, con cui si era soliti designare questa pianta.

Tutti i suoi nomi

Anche il nome botanico del carciofo, Cynara scolymus, merita qualche attenzione. Il termine che designa il genere, Cynara, secondo Lucio Giusto Moderato Columella, scrittore latino di origini spagnole del primo secolo d.C. e autore del più completo trattato di agricoltura dell’antichità, il De re rustica, deriverebbe da cinis, cenere, e sarebbe legato alla consuetudine dell’uso della cenere per rendere più fertili i terreni destinati a ospitare la coltura di questa pianta. Più poetica la spiegazione legata al mito: Cynara, una bella ninfa dai capelli color cenere avrebbe fatto innamorare nientemeno che il sommo Giove e sua moglie, Giunone, gelosa e a dir poco irritata dall’ennesima scappatella extraconiugale del marito, l’avrebbe trasformata in una pianta di carciofo, spesso caratterizzata proprio da questa sfumatura cromatica tra il grigio e il verde. Per altri, invece, dal greco classico kunara avrebbero origine sia il latino cynara sia il greco moderno agcynara e il turco enginar. Scolymus, invece, deriva dal greco e significa appuntito e fa riferimento alla forma non di rado allungata di alcuni tipi di carciofo.

In Spagna il carciofo è alcachofa, derivato sempre da harshùf, ma preceduto e unito all’articolo arabo al. Tutti vocaboli che sottolineano l’antica origine mediterranea del carciofo che quando si diffonde verso il nord Europa diventa artichaut in Francia e artichoke al di là della Manica, probabilmente dal greco-siciliano arcton da cui sarebbe disceso il neo-latino articacton.

Prende origine dal cardo

Famiglia delle Compositae, ignoto allo stato selvatico, il carciofo, grossa pianta erbacea perenne, deriva da progressive selezioni del cardo (Cardo Cardunculus) e la botanica lo conosce, appunto, come Cynara scolymus. Si presenta con un fusto eretto, che può raggiungere il metro e anche più d’altezza, con lunghe foglie lanceolate e pendenti e termina con un ‘capolino’, ovvero un’infiorescenza soda, piena e non ancora aperta, che costituisce la parte commestibile. E’ formato da un ricettacolo carnoso, tenero e bianco compreso tra brattee di color verde violaceo, giallognole alla base, chiamate comunemente e impropriamente foglie, che in alcune varietà possono terminare con una spina. Ogni anno, alla base del fusto, si formano nuovi polloni detti ‘carducci’ utili alla riproduzione.

Come il maiale: non si butta niente

Un po’ come succede per il maiale nel mondo dell’allevamento animale, anche del carciofo non si butta via nulla:

i suoi ‘capolini’, infatti, cotti o crudi, sono impiegati nella preparazione di antipasti, primi piatti e contorni e non si contano le ricette che li riguardano. L’industria conserviera, poi, li utilizza sotto forma di carciofini sott’olio, di cuori di carciofo in salamoia o al naturale, senza dimenticare la produzione di surgelati, disidratati, liofilizzati, oppure li trasforma in creme e purée;

i germogli, imbiancati mantenendoli sotto terra, sono spesso adoperati in cucina per il loro sapore molto simile a quello dei cardi;

le foglie, invece, oltre a risultare utili per l’estrazione dei principi attivi per i liquori, i prodotti farmaceutici, i cosmetici, i dolcificanti ipocalorici, costituiscono un ottimo alimento per il bestiame per il loro basso costo unito a un alto valore nutritivo. La fitoterapia le utilizza per decotti amarissimi al gusto ma capaci di abbassare, e non di poco, il tasso di colesterolo e di trigliceridi presenti nel sangue;

le sue radici e i suoi rizomi risultano utili nella preparazione di infusi per stimolare le funzioni epatiche, diuretici e leggermente lassativi;

gli scarti della lavorazione industriale del carciofo sono impiegati per l’estrazione di fibre, per la produzione di alcol, come mangime per il bestiame.

Carciofi greci, etruschi, romani

L’intero bacino del Mediterraneo, da occidente a oriente, dalle Canarie alle isole Egee, da Cipro alla Turchia, senza trascurare l’Africa settentrionale compresa l’Etiopia, avrebbe fatto da culla al carciofo, alla sua coltura e al suo uso alimentare. Ne parlano fin dall’ VIII secolo a. C. i testi greci, mentre la presenza di remote e abbondanti popolazioni selvatiche in prossimità degli insediamenti etruschi di Cerveteri hanno permesso di ipotizzare che proprio nel nord del Lazio e proprio a opera degli Etruschi abbia potuto avere origine il carciofo come pianta coltivata. Nella sua Naturalis historia Plinio il Vecchio documenta l’uso commestibile del carciofo, confermato dal De re rustica di Columella che, chiamandolo col nome latino di Cynara, ne conferma l’utilizzo a scopo sia medicinale, sia alimentare. Nel De re coquinaria Marco Gavio Apicio, crapulone e buongustaio dell’età di Seneca, parla di ‘cuori’ di cynara che, a quanto pare, i Romani apprezzavano lessati in acqua o vino. Altrimenti, nella Roma neroniana, i carciofi si preparavano “sfibrandoli, cuocendoli in acqua e poi pestandoli con farro, insaporendoli con pepe e legandoli con uova.” Il composto così ottenuto serviva “per farne dei salsicciotti guarniti con pinoli da grigliare, avvolti nell’omento e bagnati col vino.”

La lunga marcia del Cynara scolymus

Segnalato in Toscana col nome di ‘frutto di Napoli’ a partire dal 1466 e a Venezia dal 1493, il carciofo da principio non godette di eccessivo favore, tanto che ancora ai primi del Cinquecento Ludovico Ariosto affermava che "durezza, spine e amaritudine molto più vi trovi che bontade". Ma, proprio in quell' epoca, il nostro ortaggio iniziò a ricomparire frequentemente nei trattati di cucina, dove si spiegava anche come trinciarlo, e la stessa Caterina de’ Medici (1519 – 1589), divenuta regina di Francia, ne divenne estimatrice e consumatrice tanto golosa da rischiare una pericolosa indigestione. Così, in data 19 giugno 1578, annota Pierre de l’Estoile, cronista francese dell’epoca a proposito di un inconveniente in cui incorse la regina in occasione di un banchetto di nozze: “La Regina madre mangiò così tanto che si sentì male come non le era mai successo prima. Corse voce che il malanno fu dovuto all’aver mangiato troppi cuori di carciofo… di cui era molto ghiotta.”

Riguardo alla preferenze nel modo di consumare i carciofi, Michel de Montaigne (1533 – 1592), nel suo Diario di viaggio in Italia, scritto negli anni 1580 - 1581, annota che
"in tutta Italia vi danno fave crude, piselli, mandorle verdi, e lasciano i carciofi pressoché crudi".

Spagnoli, francesi e italiani introdussero il carciofo nel Nuovo Mondo dalla California, dove oggi si concentra circa l’80% della produzione a stelle e strisce, alla Louisiana: qui nei ristoranti tradizionali ve l’ammanniscono come contorno a un piatto di ostriche o di frutti di mare. Un’accoppiata gastronomica che dicono azzeccata, ma che è messa a repentaglio dalla devastante marea nera che dalla primavera del 2010 avvelena l’intero golfo del Messico.

La marcia trionfale di questa pianta non conobbe soste neppure nei secoli successivi, tanto che ai primi dell’Ottocento il grande gastronomo Grimod de La Reyniere ribadisce: “Il carciofo rende grandi servigi alla cucina: non si può quasi mai farne a meno, quando manca è una vera disgrazia. Dobbiamo aggiungere che è un cibo molto sano, nutriente, stomatico e leggermente afrodisiaco.”

Al servizio di Venere

Sì, probabilmente al ritorno dell’utilizzo del carciofo sulle nostre tavole giovò la fama afrodisiaca che per lungo tempo lo circondò, derivante con molta probabilità dal suo aspetto fallico. Certo è che tale nomea era già ben radicata nel 1557, se il Mattioli nei suoi Discorsi scrive: “la polpa dei carciofi cotti nel brodo di carne si mangia con pepe nella fine delle mense e con galanga per aumentare i venerei appetiti”. Un anno più tardi anche un’altra autorità in materia di cibo e buona salute, Costanzo Felici da Piobbico concorda attestando che i carciofi:
“servono alla gola e volentieri a quelli che si dilettano de servire madonna Venere”. Una convinzione ribadita anche da Bartolomeo Baldo che nel suo Libro della Natura, 1576, conferma che “Il carciofo ha la virtù di provocare Venere sia nella donna che nell’uomo: la donna la rende più desiderabile, mentre dà una mano all’uomo un po’ ‘pigro’ in queste cose…”

Le donne, beate loro, invece “non sono giammai minacciate da simile sventura, perché tutti i mesi, tutte le stagioni, tutti i tempi sono loro propizi.” A sostenerlo è un’autorità assoluta in materia, quel Pietro di Bourdeille, abate e signore di Brantome che con le sue ‘dame galanti’, o meglio Vies des dames galantes, 1584, inaugurò quel genere letterario tra il mondano e lo scandaloso che tanto successo avrebbe avuto nei secoli successivi e fino ai nostri giorni. La superiorità delle donne dipende da fatto che le donne sanno nutrirsi in maniera tale da sostenere sempre e comunque il desiderio: “… se pur vi sono alcuni frutti che possono recare refrigerio, altri ve ne sono che riscaldano terribilmente, ed è a questi cui le dame ricorrono più sovente, come gli asparagi, i carciofi, i tartufi… E, da quanto ho udito dire, alcune dame fan gran consumo di pasticci composti con le minutaglie dei galletti e cuori di carciofi e tartufi e altre simili leccornie”.
Una convinzione questa condivisa anche dal dottor La Framboisière, medico personale di Luigi XIII di Francia (1601 – 1643), per il quale: “I carciofi scaldano il sangue e spronano in modo naturale al gioco amoroso di Venere…”

Ancora oggi, usato metaforicamente e in senso burlesco, il carciofo – così come il cardo – può indicare il membro virile, oppure l’ano se ci riferiamo al suo cuore nascosto.

Carciofo versus colesterolo

Ampiamente note, fin dall’antichità, le sue virtù salutifere. Ricco di calcio, ferro, sodio, fosforo e potassio e vitamine A, B1, B2, C, PP, tonico e digestivo, grazie alla cynarina il carciofo provoca un aumento del flusso biliare e della diuresi, svolgendo un’importante funzione coleretica. Epatoprotettore ed epatostimolante è di grande aiuto nelle diete finalizzate a ridurre il tasso di colesterolo nel sangue, l’incubo di questi nostri tempi sedentari e satolli. Insomma, stimola il fegato, purifica il sangue, fortifica il cuore, dissolve i calcoli e sembra che contribuisca anche a calmare la tosse.

Doti terapeutiche che non erano sfuggite all’occhio attento dell’autorevole medico cinquecentesco Castor Durante da Gualdo (1529 – 1590), che nel suo Il tesoro della sanità, un diffuso breviario del ‘mangiar sano’ e ‘star bene’ d’età tardo rinascimentale, definisce i carciofi “aperitivi”, ovverosia capaci di ‘aprire’ lo stomaco al cibo, stimolarne la secrezione gastrica, e risultare “grati al gusto”. Essi provocano l’urina ma puzzolente, muovono la ventosità, e aprono l’opilazione e accrescono il coito; mangiati… fan buon fiato e levano ogni noioso odore del corpo.” Tra i “nocumenti”, ovvero le controindicazioni, lo studioso umbro nota che i carciofi “generano… umori malinconici. Sono molto ventosi, nuocono alla testa, gravano lo stomaco e tardano la digestione.” Si tenga allora presente che “cotti nel brodo e mangiati con pepe e sale in fin della mensa, sono manco nocivi e più grati allo stomaco.” Insomma, luci e ombre, che, mezzo millennio or sono, non arrestarono, però, la progressiva diffusione di questa pianta poliennale sulle mense dell’intero continente europeo.

Così, quando nel 1586 apparve il trattatello del medico umbro, già da almeno un secolo il carciofo aveva conquistato il titolo di alimento degno d’attenzione gastronomica studiato con interesse anche da Pier Andrea Mattioli, (Siena, 1500 – Trento, 1577), una delle massime autorità del tempo in materia di botanica applicata alla medicina e medico alla corte degli imperatori Ferdinando I (1503 – 1564) e Massimiliano II d’Asburgo (1527 – 1576): “Veggonsi a’ tempi nostri i carciofi in Italia di diverse sorti imperoché di spinosi, serrati e aperti e di non spinosi ritondi, larghi, aperti e chiusi se ne ritrovano.”


Capolini di tutti i tipi

Coltivato fin dall’antichità in ambienti anche molto diversi il Cynara scolymus conosce diversi tipi di produzione per forme, dimensioni e spinescenza dei capolini. Se i consumatori sardi, liguri, piemontesi e lombardi preferiscono orientarsi verso lo ‘Spinoso sardo’, nel Lazio e nella Campania sono apprezzati di più i tipi ’Romanesco’, senza spine, e ‘Campagnano’ dalle dimensioni maggiori, mentre in Toscana si preferisce il tradizionale ‘Violetto di Toscana’, anche questo dal capolino privo di spine. Il carciofo più largamente coltivato nell’Italia meridionale è il ‘Catanese’ o ‘Violetto di Sicilia’, oggi il più diffuso nel nostro Paese che conosce un’infinita varietà di nomi (‘Gagliardo’, ‘Niscemese’, ‘Siracusano’, ‘Di ogni mese’, ‘Liscio di Sicilia’, ‘Liscio sardo’, ‘Locale di Sibari’, ‘Precoce di Mola’, ‘Violetto del Salento’, ‘Brindisino’… e così via) ed è coltivato soprattutto nelle carciofaie della Puglia, attualmente la regione italiana maggiormente interessata alla cinaricoltura.

Tifosi del carciofo

Caterina de’ Medici, regina di Francia per il matrimonio con Enrico II, non fu l’unica testa coronata ad apprezzare il nostro spinoso ortaggio. Prima di lei lo aveva gradito Enrico VIII d’Inghilterra (1491 – 1547) che lo faceva coltivare nel suo giardino privato nel Newhall e dopo ne saranno entusiastici estimatori sia Luigi XIII, sia il Re Sole, Luigi XIV di Francia, nelle vene dei quali da parte di Maria de’ Medici (1573 – 1642), rispettivamente madre e nonna, scorreva un bel po’ di sangue italiano.

I carciofi e l’Italia: un’accoppiata sempre presente nel senso comune diffuso fino ai nostri giorni. Sigmund Freud, il padre della psicanalisi era un goloso mangiatore di carciofi e li gradiva al punto da… sognarli spesso. Li interpretava come un simbolo dell’Italia e li definiva “i miei fiori preferiti”.

Anche Marilyn Monroe (1926 – 1962), la più famosa sex-symbol del cinema hollywoodiano, molto probabilmente apprezzava il carciofo. Sì, perché nella preistoria della sua tormentata carriera, nello stesso anno a cui risalgono alcuni nudi fotografici da togliere il fiato, il 1949, la troviamo insignita del titolo di Artichoke Queen, regina del carciofo, ottenuto in occasione dell’Artichoke Festival, che si svolge tutti gli anni a Castroville in California, in un’area a fortissima presenza italiana. Quasi la prefigurazione in negativo di un destino: infatti, le brattee protettive del successo, della fama, della notorietà non riuscirono a tutelare il tenero cuore di un’attrice tanto bella quanto brava e sensibile, splendida nel film-commedia dai toni insieme candidi, erotici e ‘amaricanti’.

Carciofi dipinti

Frutta, fiori, libri, armi conchiglie… Questi gli elementi utilizzati dal pittore milanese Arcimboldo (1527 – 1593) per creare le sue bizzarre teste allegoriche in cui, come è stato scritto, l’Artista lombardo “scarta completamente l’uomo e trattiene gli oggetti che lo definiscono, per sostituirli a lui” (Sluys).

Non fa quindi meraviglia ritrovare il Cynara scolymus come ingrediente discreto ma significativo di un paio di quadri dell’abilissimo manierista: L’estate e il Vertumnus, il dio dei cambiamenti, dell’avvicendarsi delle stagioni, dei fiori e dei frutti, marito di Pomona.

Anche il meno famoso Vincenzo Campi (1536 – 1591), pittore cremonese sensibile sia al naturalismo della scuola bresciana, sia alle influenze fiamminghe, nella sua opera più nota L’ortolana, non disdegna di usare il carciofo come dato decorativo e narrativo.


Un carciofo poetico

Il più bell’elogio letterario del carciofo? Senz’altro quello che possiamo leggere nelle Odas elementales di Pablo Neruda, premio Nobel per la letteratura nel 1971: così, attingendo al suo sentimento appassionato per la natura e a una concezione materialista dell’esistenza, il poeta cileno trasfigura poeticamente il nostro simpatico ortaggio riuscendo a trovare più e meglio che per altri motivi ispiratori accenti di rara semplicità e intensità:


Ode al carciofo

Il carciofo dal tenero cuore si vestì da guerriero,
ispida edificò una piccola cupola,
si mantenne all'asciutto sotto le sue squame,
vicino a lui i vegetali impazziti si arricciarono,
divennero viticci,
infiorescenze commoventi rizomi;
sotterranea dormì la carota dai baffi rossi,
la vigna inaridì i suoi rami dai quali sale il vino,
la verza si mise a provar gonne,
l'origano a profumare il mondo,
e il dolce carciofo lì nell'orto vestito da guerriero,
brunito come bomba a mano,
orgoglioso, e un bel giorno, a ranghi serrati,
in grandi canestri di vimini,
marciò verso il mercato a realizzare il suo sogno:
la milizia.
Nei filari mai fu così marziale come al mercato,
gli uomini in mezzo ai legumi coi bianchi spolverini erano i generali dei carciofi,
file compatte,
voci di comando e la detonazione di una cassetta che cade,
ma allora arriva Maria col suo paniere,
sceglie un carciofo, non lo teme, lo esamina,
l'osserva contro luce come se fosse un uovo,
lo compra,

lo confonde nella sua borsa con un paio di scarpe,
con un cavolo e una bottiglia di aceto finché,
entrando in cucina,

lo tuffa nella pentola.
Così finisce in pace la carriera del vegetale armato che si chiama

carciofo,
poi squama per squama spogliamo la delizia e mangiamo la pacifica

pasta
del suo cuore verde.




Carciofi politici

Locuzione ricorrente nel linguaggio degli uomini politici prudenti, “portare avanti la politica del carciofo” indica la realizzazione di obbiettivi strategici attraverso modesti ma costanti progressi così come una foglia dopo l’altra si mangia tutto il carciofo.

Sembra che la paternità di questa espressione tocchi a Carlo Emanuele III, re di Sardegna (1701 – 1773), che, non riuscendo a impadronirsi dell’agognata Lombardia e di Milano fece di necessità virtù accontentandosi delle molto meno significative Novara e Tortona e del consolidamento dei confini al Ticino. La fertile e operosa pianura lombarda e la città di sant’Ambrogio sarebbero diventate sabaude solo molti anni e molti carciofi più tardi.


Carciofi televisivi

Correva l’anno 1957. Per l’esattezza erano le ore 21,00 del 5 febbraio, quando con Carosello nasceva in Italia la pubblicità televisiva. Allegra, incalzante la musica che lo annunciava era la rielaborazione di un brano napoletano di autore anonimo; sigla e siparietti ispirati alla Commedia dell’arte; messaggi pubblicitari della Shell italiana, Oreal, Singer e, per quello che interessa queste pagine, il Cynar: un amaro allora assi diffuso nei bar, sulle tavole e nelle consuetudini alimentari di fine pasto degli italiani. Ebbene sì, il carciofo, o meglio il liquore estratto dalle sue foglie e radici, partecipa a questo evento aurorale destinato a entrare nella storia del costume e dello spettacolo di intrattenimento leggero: i lettori meno giovani ricorderanno senz’altro un brevissimo film (due minuti e 15 secondi), interpretato da quel gran signore e attore che è stato Ernesto Calindri (1909 - 1999) che si chiudeva invariabilmente con la battuta: “Cynar, contro il logorio della vita moderna.”

La parola stress oggi usata e abusata era ancora di là da venire.

Indimenticabile !

Carciofi e numeri

Interpretare i piccoli fatti della vita quotidiana, oppure i grandi avvenimenti della cronaca nazionale e internazionale, per ricavarne combinazioni di numeri da giocare al Lotto è sempre stata una caratteristica del costume popolare, spiccatamente dei Napoletani: si leggano in proposito le illuminanti pagine, oscillanti tra l’ispirazione verista e un’attenzione ai dettagli degna di un’antropologa culturale, che la giornalista e scrittrice Matilde Serao (Patrasso, 1856 – Napoli, 1927) dedica al gioco de lotto nel suo celebre Il ventre di Napoli, 1884. E per mettere in relazione i fatti e le vicende dell’esistenza di ogni giorno, sogni compresi, con i numeri basta consultare La Smorfia (deformazione popolare di Morfeo, dio del sonno) o Libro dei Sogni.

Lì apprendiamo che il carciofo fa 58, ma se sono più di uno allora il numero in questione è il 44. Attenzione, però: se i nostri ortaggi sono fritti o arrostiti allora bisogna fare riferimento all’87, se fritti e indorati al 64, se appena appena scaldati il vostro numero è il 15. Qualora, poi, non si parli di carciofi ma solo di carciofoletti selvatici allora ritorna il 64.

L’autore di queste note declina qualsiasi responsabilità circa il valore effettivo di tali indicazioni.


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