31 maggio 2005

Povertà e miseria di Majid Rahnema - Ediz. Einaudi

da Aldo Zanchetta

Premessa

“Coloro che hanno causato i problemi non sono le persone più adatte a risolverli” (Albert Einstein)

Alla vigilia di una nuova grande campagna mondiale contro la povertà legata agli 8 obbiettivi del Millennio fatti propri dalle Nazioni Unite (”No excuse 2015”) - fra questi prioritariamente quello della lotta alla povertà che in Italia sarà lanciato con la Marcia di Assisi dell’ 11 settembre prossimo con lo slogan “stop alla povertà”- una riflessione approfondita sul tema mi sembra del tutto importante.
Non possiamo infatti non interrogarci sul fallimento dei vari megapiani lanciati fino ad oggi a livello mondiale che hanno visto la povertà accrescersi e trasformarsi sempre più in miseria. Ricordate l’ affermazione con cui si chiuse verso gli anni 70 un imponente congresso della FAO a Roma: “entro 10 anni non ci saranno più nel mondo bambini che vanno a letto con la fame” ? Il messaggio attualizzato della stessa FAO all’ inizio del nuovo millennio ci ha detto che le persone che nel mondo soffrono la fame sono “ancora” 830 milioni (e assai, assai di più quelle in povertà) e che l’ unico obbiettivo realistico è il loro dimezzamento entro il 2015, obbiettivo legato però al verificarsi di 3 condizioni che invece non si stanno puntualmente realizzando: se non ci saranno guerre importanti, se non ci saranno grandi disastri naturali, se le nazioni ricche riporteranno allo 0,7% del loro PIL l’ aiuto allo sviluppo.

A questo punto una seria riflessione è consigliabile prima di gettare altre energie nella fornace delle disillusioni. E’ ovvio che questi 8 “obbiettivi del millennio” sono condivisibili e da perseguire. Ma farlo ripetendo politiche già fallimentari o semplicemente riverniciandole e che hanno ottenuto come principale obbiettivo quello di aumentare la ricchezza di una sempre più ristretta minoranza (grosso modo pochi anni fa l’ 80% della ricchezza prodotta nel mondo era appannaggio del 20% della porzione più ricca mentre oggi sempre l’ 80% si avvia ad essere posseduto dal 15%, cioè da un numero ancor più ridotto) potrebbe essere un grave segno di irresponsabilità. Forse non sarebbe male legare il lancio di nuove campagne ad una seria preventiva riflessione che tenga conto delle esperienze fatte in questi anni e soprattutto ascoltare il parere dei diretti interessati, i “poveri”. In occasione del recente “II Forum della solidarietà lucchese nel mondo” la dichiarazione finale, costruita assieme ai circa 30 rappresentanti dei partners coi quali le varie realtà lucchesi lavorano nelle ‘periferie del mondo’, termina così: “Facciamo nostra l’ esortazione di Jean Leonard Tuadì che ci invita, prima di fare cooperazione con i popoli del sud del mondo, ad imparare a camminare con loro.” Mi pare una evidenza fino ad oggi dimenticata e malamente supplita dall’ accordo di presunti rappresentanti cooptati allo scopo e non riconosciuti dalle proprie basi (vedasi la “Dichiarazione finale del II Vertice dei popoli indigeni americani” riuniti a Quito nel luglio 2004).

Il contenuto del libro

Ad oltre 2 anni dalla prima edizione francese il prossimo 31 maggio uscirà nelle librerie edita da Einaudi la traduzione italiana di un libro che certamente farà molto discutere e che a mio avviso ogni persona impegnata nel mondo della solidarietà internazionale e della lotta alla povertà potrebbe utilmente leggere, quale che sia il suo accordo o disaccordo finale con le tesi dell’ autore.
Iniziamo la presentazione traducendo dal testo francese, in attesa di quello italiano ormai imminente, una lunga serie di interrogativi iniziali ai quali l’ autore cerca di rispondere lungo le 322 pagine di tale edizione. (“Quand la misere chasse la pauvreté – Fayard / Actes Sud – 2003)

“Cosa è in effetti la povertà? Una costruzione dello spirito, un concetto, un vocabolo? Un modo di vita, la manifestazione di una mancanza, una forma di sofferenza? Si contrappone alla miseria o ne è il sinonimo? E’ una soglia arbitraria stabilita dagli esperti per distinguere i poveri dai non poveri o ancora una delle frontiere che separano i comuni mortali dai santi o dai ‘poveri di spirito’ che ne hanno fatto una scelta? E quanto al personaggio chiamato arbitrariamente il povero, è esso questo ‘caimano’ ‘fatto con la merda del diavolo’ (Roman de Renart) o il felice sfortunato che trova nella morte l’ unica ricompensa: essere invitato alla tavola di Dio? Che sia l’ uno o l’ atro egli deve essere abbandonato alla propria sorte oppure soccorso? E’ veramente possibile aiutarlo, e come, in un mondo dove l’ aiuto si trasforma spesso in minaccia e non serve troppo spesso che al suo promotore? Infine come spiegare l’ aumento del numero di uomini e donne segnati dalla miseria e dall’ aggravamento della propria situazione proprio quando non cessano di moltiplicarsi i grandi progetti di aiuto ai poveri e allorché l’ economia dispone di tutti i mezzi necessari per assicurare almeno la loro sopravvivenza?”

Il libro nelle parole dell’ autore è “il frutto di una conversazione ad alta voce….non pretende essere il lavoro di uno ‘specialista’ della povertà. Non è il prodotto di alcuna disciplina scientifica. E’ il risultato di uno sguardo personale e di una interrogazione libera e aperta su un mondo complesso, un mondo dove vivono queste persone che, le une e le altre noi chiamiamo a nostro modo, i poveri.” E’ piuttosto il tentativo di “condividere col lettore le prospettive e i punti di vista costruiti nel corso di una vita che mi hanno aiutato a comprendere i silenzi e a decifrare i linguaggi fino ad allora a me sconosciuti.”

Questa la genesi del libro di Majid Rahnema dal titolo italiano malamente “Povertà e miseria” malamente tradotto non rendendo la pregnanza del titolo francese “Quand la misère chasse la pauvreté”. In risposta alle citate domande la tesi centrale del libro, dottamente costruita e documentata, è la seguente: “una economia il cui principale obbiettivo è quello di trasformare la rarità in abbondanza non tarda a divenire essa stessa la principale produttrice di bisogni che generano nuove forme di rarità e, in conseguenza, di modernizzare la miseria.”

Tesi non nuova, già sostenuta da Ivan Illich nei lontani anni ‘70 nel suo libro ‘La convivialità” e splendidamente condensata nella sua conferenza del 1980 a Yokohama “Le paci dei popoli” e riportata nel libro ‘Nello specchio del passato’ (entrambi i libri riediti recentemente e contemporaneamente in Italia da due editori ora in lite giudiziaria fra loro circa i diritti col rischio che essi possano essere fatti scomparire dalle librerie per provvedimento giudiziario dalla vertenza in atto). Di Illich infatti l’ autore si dichiara amico e debitore e il quale “fino alla sua morte che ha coinciso con il termine della scrittura di questo libro fu per me un amico nel senso più esigente della parola e compagno di strada instancabile del quale nulla poteva alterare lo sguardo penetrante che portava sull’ opacità di questo mondo. Molte delle prospettive che ho potuto scoprire nel corso del mio pellegrinaggio in terre di povertà mi sarebbero passate inavvertite senza il suo aiuto fraterno.”

Tesi non nuova, ripeto, ma alla quale Rahnema contribuisce sostanzialmente con una analisi penetrante e riccamente documentata ed alla quale è dedicata la parte centrale del libro, preceduta da una prima parte destinata alla descrizione di come è cambiata nella storia, dall’ età della pietra ai giorni nostri, la percezione della povertà. Infatti “il rispetto del passato è indispensabile alla reinvenzione costante del nostro presente, sia che l’ eredità ci provenga dai tempi antichi o dall’ età dei lumi…..le società del dono o quelle che hanno visto nascere le povertà conviviali ci insegnano tanto quanto quelle che hanno prodotto la rivoluzione industriale, è dunque essenziale per noi il portare uno sguardo ‘archeologico’ su tutte le acquisizioni di questa eredità comune al fine di utilizzare tutto ciò che contengono di arricchente per il nostro presente.”

Nella terza e ultima parte, dopo l’ esame di una casistica di situazioni attuali nelle quali i ‘poveri’ del mondo stanno affrontando dal basso una soluzione realistica e ‘conviviale’ dei propri problemi (Roraima in Brasile, Anand Nagar in India, Dahar in Senegal, Oyo in Nigeria, gli ayllus del Perù etc ma senza dimenticare riferimenti ai maya del Chiapas, i sem terra del Brasile e altre esperienze oggi rilevanti), l’ autore giunge infine alla “riformulazione di certi interrogativi…..volta ad una migliore comprensione della sorte dei ‘poveri’ dell’ epoca moderna e all’ esame approfondito delle soluzioni proposte in un contesto diverso. Se questo libro tenta di effettuare un bilancio dei grandi programmi di lotta alla povertà, il suo obbiettivo è innanzi tutto quello di permettere al lettore di porre la problematica della povertà nel contesto generale dei grandi squilibri nati da un sistema produttivistico sempre più dissociato dall’ ambito sociale”.

Impossibile ripercorrere il lungo e documentato cammino intellettuale ricostruito nel libro dall’ autore, oggi anche caro amico, ma concludo queste note proponendo le righe finali:
“Nelle mie frequenti conversazioni con amici resi sensibili all’ avanzare della miseria e alla degradazione continua della condizione dei poveri, mi si chiede spesso se io sono pessimista o ottimista sull’ avvenire. La mia risposta è sempre la stessa: nessuna delle due posizioni mi sembra ragionevole.
E’ certo che le tendenze attuali rafforzano la tesi di una polarizzazione mondializzata ancor più spint a delle società e delle violenze strutturali che ne sono le conseguenze inevitabili. Noi potremmo quindi andare verso una catastrofe generalizzata e, probabilmente, verso uno sprofondamento violento del sistema che rischierebbe di far scivolare la maggioranza degli uomini e delle donne in una povertà subita o direttamente nella miseria.
In alternativa è anche possibile immaginare che un pullulare di azioni individuali o collettive orientate verso dei modi di vita semplici e verso una povertà conviviale favorisca e rinforzi percorsi opposti. Noi abbiamo visto che le donne e gli uomini che, qua e là, hanno fatto localmente queste scelte sembrano ‘vincenti’ su molti piani: la loro vita più ricca ha loro consentito di sfidare la miseria che li circonda e il loro esempio apporta l’ aiuto più prezioso che vi sia per il loro prossimo.

Aldo Zanchetta

27.05.05


(*) Antico ministro dell’ istruzione del suo paese, l’ Iran, ne è stato successivamente rappresentante all’ ONU per poi divenire membro del Consiglio esecutivo dell’ UNESCO e infine rappresentante residente delle Nazioni Unite in Mali. Da 20 anni si è consacrato ai problemi della povertà. E’ autore con Victoria Bawtree del libro “The Post-Development Reader”, di numerosi studi ed articoli pubblicati in riviste di vari paesi.


Nota : Sul sito della Scuola per la Pace della Provincia di Lucca è reperibile il testo della Lezione di apertura dell’ anno 2004-2005 della Scuola stessa, testo che può essere inviato in forma cartacea su richiesta (www.provincia.lucca.it/scuolapace).

Il numero The Ecologist italiano

da Aldo Zanchetta

PRESENTAZIONE II numero The Ecologist italiano

di Giannozzo Pucci

Questo secondo volume dell'Ecologist italiano è dedicato al criterio con cui è possibile valutare il livello di cultura, costumi, evoluzione morale e materiale di una società. Tale criterio è rappresentabile con termine tecnico "simbiosi", cioè il miglior rapporto possibile fra comunità degli uomini e comunità ecologica, portando quest'ultima allo stadio climax (cioè di massima ricchezza di forme vitali) e mantenendolo con continue variazioni. In altre parole, la presenza umana in simbiosi con la biosfera cura le ferite della terra, moltiplica le forme di vita, arricchisce i mondi animali e vegetali, permette a tutti di avere il necessario per la sussistenza, traendone il migliore nutrimento materiale e spirituale. Si tratta di un argomento che finora ha avuto poca o nulla cittadinanza nel dibattito scientifico, culturale e politico in Italia, anche fra i tanti che parlano di sostenibilità. La nostra economia aumenta sempre più il suo peso erosivo sulla natura, avvalendosi delle iniziative tecnologiche messe in atto per ridurre i danni. Non ci si riferisce soltanto alle mafie dei rifiuti, ma anche a quelle attività di riciclaggio a cui si accompagna un aumento dei consumi. Curare le ferite della terra è possibile solo con un passaggio di ampie fette di attività alle economie di sussistenza, come la produzione alimentare e artigianale su piccola scala per mercati locali. Infatti la simbiosi è realizzabile unicamente nell'ambito di una cultura di sussistenza, l'opposto della globalizzazione dei mercati. Abbiamo iniziato dedicando una riflessione alla tragedia dello tsunami nel sudest asiatico perché è uno dei pochi casi in cui la natura ha conquistato per alcune settimane le prime pagine di tutti i mezzi di comunicazione di massa con il carattere del flagello. È interessante confrontare il modo in cui le culture tradizionali hanno spiegato l'evento con il modo con cui ha reagito la religione scientifica che permea l'ideologia della società tecnologica. Le pr0me hanno dato una giustificazione simile a quella che dette san Francesco al popolo di Gubbio sulla presenza del lupo feroce e di altri disastri naturali: è la cattiveria umana ad attirare il castigo, che impone un cambiamento di vita personale e sociale, una grande conversione. La società tecnologica, invece, non contempla conversioni, errori radicali, l'unico errore è la mancanza di collegamento fra gli scienziati che avevano previsto con ore di anticipo e le popolazioni interessate. Per il resto solo due ritornelli ideologici: la natura matrigna a confronto con la tecnologia salvifica, Dio indifferente a confronto con l'uomo scientifico salvatore. Se si sommano i morti per incidenti d'auto, per malattie dovute all'alimentazione, all'azione degli inquinanti chimici e radioattivi, e per le altre cause dirette della civiltà tecnologica, probabilmente il numero dei morti, ad essere ottimisti, supera nel mondo uno tsunami l'anno, eppure è considerato un costo accettabile per i benefici della civiltà del benessere, la quale non sarebbe mai matrigna. Al beneficio della natura creata invece non si concedono costi. L'intervento di Vandana Shiva chiarisce a questo proposito che lo tsunami è stato una prova generale delle conseguenze naturali degli abusi tecnologici, in primo luogo il riscaldamento dell'atmosfera. L'altra tesi dell'indifferenza di Dio non fa poi che confermare l'impianto ateo della civiltà dei consumi che nemmeno di fronte alla catastrofe in atto è disposta ad ammettere un suo limite, ma progetta nuove megatecnologie di rassicurazione e controllo, evitando ogni redenzione autocritica e il corrispondente cambiamento. Ma soprattutto la reazione progredita è solo razionale e scientifica, non risponde in nulla all'anima, cioè a quelle parti profonde che più sono toccate di fronte alla morte. Infatti il problema ecologico è un problema complessivo, come sottolinea Edward Goldsmith nel saggio introduttivo, cioè di collegamento fra l'anima della comunità e la madre terra. La società tecnologica in realtà, con lo sradicamento dalla natura che ha diffuso a livello delle grandi masse, è estremamente vulnerabile, mentre si dimostrano molto più solide davanti allo tsunami le culture indigene che invece, come la natura stessa, rischiano di avere i loro danni maggiori proprio dagli aiuti economici del mondo sviluppato, con nuove malattie, intromissioni, imposizioni ecc. Questa capacità dei popoli tribali di difendersi dagli eventi naturali per una competenza tradizionale diffusa è la rappresentazione simbolica di una conoscenza democratica che nel mondo moderno è stata soppiantata da una religione scientifica nelle mani degli esperti, i quali trasmettono le loro verità agli ignoranti. Gli incidenti di comunicazione fra scienziati e cittadini costituiscono, molto più di un problema tecnico, il vizio strutturale di una conoscenza antidemocratica che combatte quella tradizionale ed è disponibile a essere guidata solo dai grandi gruppi economici. Dal saggio di Goldsmith che dà il sottotitolo al volume e che è complementare a quello di Haussmann, senza far riferimento alcuno all'etica ebraico-cristiana, si desumono i caratteri essenziali di un'etica della biosfera:

1) prima di tutto la natura è un'autorità morale fondante l'etica umana, per cui l'universo contiene in sé, già prima e indipendentemente dall'esistenza dell'uomo, delle istruzioni intrinseche che hanno un carattere morale, anche se solo l'umanità è capace di fare scelte secondo o contro quelle indicazioni; l'essere della natura è il dovere dell'uomo;
2) le istruzioni della natura sono gerarchiche, cioè alcune sono più generali e altre, a loro sottostanti, più particolari: tutte sono finalizzate a uno scopo, quantomeno quello di mantenere la stabilità della biosfera;
3) i principi etici della natura sono immutabili, almeno nel breve periodo (che nella biosfera comprende parecchi secoli), e ciò è essenziale al mantenimento della stabilità e continuità ecologica;
4) l'intelletto è uno strumento forgiato per lo scopo specifico di stabilire buoni rapporti con le cose;
5) il principio di autorità. Le affermazioni non vengono accettate nel mondo reale, né dagli scienziati, né dai bambini, per il fatto di essere state verificate o perché sono falsificabili, ma perché si adattano a un particolare paradigma o visione del mondo. Ciò che rende accettabili le istruzioni fino ad adottarle come principi etici ispiratori, è il fatto di essere sanzionate, autenticate, convalidate, santificate da qualcosa di più importante di noi stessi e che riconosciamo autorevole;
6) il comportamento etico deve mettere in condizione un essere vivente di inserirsi nel mondo della natura, di comportarsi come parte di essa e perciò rispettarne le leggi e i limiti;
7) l'etica della biosfera ha il compito di razionalizzare e convalidare la tutela e l'arricchimento del mondo naturale da cui dipende in ultima istanza la nostra sopravvivenza;
8) il razzismo non ha posto nell'etica della biosfera e tutti gli uomini hanno la stessa dignità, che siano primitivi o moderni: la conoscenza non comincia con l'uomo moderno ma esiste in altre forme, molto diffuse e profonde fra i cosiddetti primitivi (vedi la conoscenza che ha permesso agli Jarawa di salvarsi dallo tsunami);
9) tutti gli uomini hanno il libero arbitrio della scelta e il male è presente in ogni epoca e società, con la differenza che la tecnologia ne accresce le conseguenze e lo istituzionalizza nella tecnosfera;
10) tutti i benefici e le risorse, l'energia, il cibo, le materie prime derivano dalla biosfera;
11) il mondo naturale è in generale una vasta comunità, rispetto alla quale l'individualismo è una realtà particolare ad essa subordinata.
Questi caratteri, come nota Goldsmith, si ripetono nell'etica di tutti i popoli vernacolari, in quella del mondo greco antico, nel Tao cinese, e possiamo aggiungere che in molti casi corrispondono all'impianto della teologia morale medioevale di santa Ildegarda di Bingen e di san Tommaso d'Aquino. Anche per loro la natura è un'autorità fondante per l'etica umana, cioè l'universo contiene in sé, già prima e indipendentemente dall'esistenza dell'uomo, delle istruzioni intrinseche che hanno un fondamento morale, anche se soltanto l'umanità è capace di scelta secondo o contro quelle indicazioni. ciò corrisponde alle parole della Genesi secondo cui Dio vide che tutto ciò che aveva creato prima dell'uomo era buono, cioè già conteneva un messaggio etico. Il peccato di Adamo non cambia la natura della creazione, che si vela e gli rende la vita più difficile, ma mantiene intatta la propria bontà. Nella sostanza simili concezioni costituiscono la base comune dell'identità profonda di tutti i popoli. Gli scritti presenti nella seconda parte di questo volume aiutano a illustrare la necessità e il modo con cui riprendere la via etica della biosfera e della simbiosi con la natura, pur provenendo dall'interno della tecnosfera. Il modello è l'oasi, perché si parte da una situazione di natura devastata, ma proprio questo è lo scopo principale del lavoro delle prossime generazioni.

La guerra è la malattia non la soluzione di Eugen Drewermann

da Aldo Zanchetta

[Ringraziamo Enrico Peyretti (per contatti: e.pey@libero.it) per questo intervento.
Enrico Peyretti e' uno dei principali collaboratori di questo foglio, ed uno dei maestri piu' nitidi della cultura e dell'impegno di pace e di nonviolenza. E' disponibile nella rete telematica la sua fondamentale ricerca bibliografica Difesa senza guerra. Bibliografia storica delle lotte nonarmate e nonviolente, ricerca di cui una recente edizione a stampa e' in appendice al libro di Jean-Marie Muller, Il principio nonviolenza, Plus, Pisa 2004 (libro di cui Enrico Peyretti ha curato la traduzione italiana), e una recente edizione aggiornata e' nei nn. 791-792 di questo notiziario; vari suoi interventi sono anche nei siti: www.cssr-pas.org, www.ilfoglio.org.

Eugen Drewermann e' un illustre teologo e psicoterapeuta; tra le sue opere segnaliamo almeno: Psicoanalisi e teologia morale; Il vangelo di Marco; Psicologia del profonde e esegesi (due volumi); Parola che salva, parola che
guarisce; Il cammino pericoloso della redenzione; Il messaggio delle donne, L'essenziale e' invisibile; I tempi dell'amore; Cenerentola; Il tuo nome e' come il sapore della vita; Il cielo aperto, Parole per una terra da
scoprire; tutte presso la Queriniana, Brescia; Guerra e cristianesimo, la spirale dell'angoscia, Raetia, Bolzano; La fede inversa di Eugen Drewermann, Edizioni La Meridiana, Molfetta 2033; La guerra e' la malattia non la
soluzione, Claudiana, Torino 2005]

Di questo libro di Drewermann (Eugen Drewermann, La guerra e' la malattia non la soluzione, introduzione di Gianni Vattimo, Editrice Claudiana, Torino 2005, pp. 208, euro 17,50) oserei correggere il titolo: non piu' "La guerra e' la malattia, non la soluzione", ma, addirittura, "L'esercito e' la malattia, non la soluzione".
Molti sono i temi di questo lavoro appassionato del famoso psicoanalista e teologo cattolico: guerra e terrorismo, tecnica e terrore, l'immagine del nemico, l'islam, il pacifismo, Israele e palestinesi, il fondamentalismo, la
cultura di pace, i maschi e la guerra, la nonviolenza, le religioni e la pace, guerra giusta, guerra santa, psicoterapia e violenza, educazione alla pace. Ogni tema e' discusso in dialogo-intervista con Juergen Hoeren, con apertura di orizzonti, sguardo all'attualita' seguita all'11 settembre (l'edizione originale e' del 2002), liberta' critica, impegno umano di liberazione, e forte senso evangelico. Drewermann indica che il discorso della montagna di Gesu' e' praticabile nella storia.
Ma dicevo dell'esercito. Per poter fare la guerra bisogna plasmare gli uomini con lo stampino dell'esercito, che non e' diverso dalla disumanizzazione del fanatico. E' questo il tema psicologico piu' insistito nel libro. "L'esercito, il servizio militare, non consiste in null'altro se non attivare il lato criminale presente negli stessi esseri umani, che viene poi istruito e strumentalizzato per combattere la criminalita' (sia internazionale, sia interna). Cosi', pero', non ci se ne libera, ma la si rende eterna" (p. 58). Papa Pio XII affermo' che "nessun cattolico avrebbe avuto il diritto di
rifiutare il servizio militare appellandosi alla sua coscienza", e teologi cattolici illustrarono nel Parlamento tedesco questa opinione, che un cattolico responsabile deve essere (le parole sono di Drewermann) "disponibile a fare la guerra", deve "imparare a uccidere a comando" (pp. 54-55). Dopo, la coscienza cattolica ha fatto un cammino.
Nell'addestramento militare "non e' solo importante distruggere l'autostima, bisogna anche abbattere l'inibizione a uccidere... L'esercito e' un'arcaica e barbara orda di uomini, un ostacolo alla civilta'" (p. 62).
"Cio' che produce l'esercito non e' sicurezza, ma una paranoia reale, un apocalittico Armageddon, la perpetuazione nella storia del mondo di Caino e Abele" (p. 70). "E' chiaro che, attraverso questo comportamento [la guerra Usa in risposta all'11 settembre] i terroristi troveranno conferme piuttosto che smentite riguardo alla loro visione dell'Occidente... Ripeto, ogni guerra e' di per se stessa terrorismo" (p. 75). Non sono "realiste" le persone che pretendono di stabilire la "pace" con la minaccia di omicidi di massa: "ai miei occhi si ha a che fare con potenziali
stragisti, con criminali del piu' alto rango, con terroristi di Stato, con pazzi di ogni tipo" (p. 73).
"Non appena viene pronunciata la parola guerra, qualsiasi mezzo viene giustificato... Leggiamo, per esempio, che dobbiamo distruggere i talebani "con tutti i mezzi"... Nulla e' cosi' santo da rendere tutto il resto giustificabile, altrimenti avremmo fatta nostra la mentalita' dei terroristi. A quel punto l'ideologia dello Stato sarebbe identica a questa mentalita' e con essa intercambiabile. Sarebbe la stessa follia della coscienza" (p. 99).
Riguardo al conflitto Israele-Palestina, Drewermann osserva che l'apporto delle religione renderebbe possibile "un discredito dell'intero, folle apparato militare, che in effetti gia' solo attraverso la sua esistenza assorbe tutti gli elementi capaci di cultura... C'e' una carenza di parole nel nostro mondo che ci chiude. La violenza e' una lingua sostitutiva motivata dal rifiuto del dialogo" (pp. 102-103).
"La guerra... non e' degna di noi. Ripeto: dovremmo rimuovere in primo luogo i campi di addestramento militare, il lavaggio del cervello fatto nelle caserme di ogni citta', e non solo presso i terroristi in Afghanistan.
Bisognerebbe cominciare qui, da noi" (p. 112). "Rispettando l'obbligo dell'obbedienza all'esercito, gli esseri umani
vengono del tutto annullati come persone in quanto essi si identificano completamente con la centrale di comando. A questo si aggiunge il fatto che viene creato un pensiero sostitutivo, non piu' soggetto al controllo
emozionale" (p. 120). L'autore mostra con vari esempi atroci di quali nefandezze normali in guerra diventano capaci i soldati eccitati ad uccidere, privati dei normali sentimenti umani. "La sola realta' dell'esercito uccide quotidianamente molti piu' esseri umani di quanti non ne possiamo 'salvare'" (p. 122). Sento qui l'eco del grande Kant: "La guerra fa piu' malvagi di quanti ne toglie di mezzo". Il grande valore dell'islam autentico, e delle altre religioni monoteistiche, e' l'affermazione che "Dio e' grande", che e' "piu' grande del potere stabilito". Allora, chiede Drewermann: "Che cosa accadrebbe se ci fossero esseri umani che dichiarassero: proprio perche' Dio e' piu' grande, non prendo ordini per andare in guerra, non prendo ordini per fare il soldato?" (p. 143). Ecco la grande possibilita' e responsabilita' delle religioni, forza eversiva della violenza, liberatrice di umanita' nella storia. Forza non usata. Forza non creduta. Dio e' assoggettato ai poteri stabiliti.
"La violenza distrugge moralmente colui che la utilizza". Fatto l'esempio attuale di un soldato istruito ad essere un killer professionista, l'autore chiede: "Quanti sensi di colpa lo assaliranno? E se non ne ha piu', ancora peggio. Quante reazioni della sensibilita' umana devono essere state eliminate in lui, affinche' possa essere un assassino?" (p. 153). "Chiunque faccia il soldato deve essere pronto a utilizzare veramente le cose che gli sono state insegnate in caserma. L'epoca delle scuse morali e' finita" (p.160).
L'esistenza dei cappellani militari, che assicurano la "consolazione morale" dei soldati, pone il problema: o "religione di popolo", confortato ad obbedire ai potenti, oppure religione profetica, percio' critica dei poteri assolutizzati, e dunque istigante il popolo alla indipendenza morale e alla possibile disobbedienza, percio' perseguitata dai potenti e, probabilmente, rifiutata dalla maggioranza succube (cfr p. 161).
A proposito dei famosi esperimenti di Milgram (dimostrazione che persone normalissime per rispettare l'autorita' e la scienza diventano potenziali assassini), scrive Drewermann: "Nell'esercito non viene semplicemente fatto affidamento a questa 'obbedienza media', ma l'obbedienza viene addestrata duramente, con paura e sotto giuramento, affinche' di fronte ai superiori tutto questo venga continuamente automatizzato in gesti di sottomissione" (p. 174).
Richiamando Freud (ma qui c'e' un errore: non si tratta della lettera ad Einstein, che e' del 1932, ma del saggio del 1915), per il quale "la morale del singolo e' ormai molto superiore alla 'morale' dei potenti", e Einstein nel 1950, per il quale "l'uccidere in guerra non si differenzia per nulla da un omicidio efferato", Drewermann aggiunge: "Tuttavia, raramente si troveranno omicidi con una considerazione di se' pari a quella dei soldati" (p. 175).
Drewermann riferisce l'impressionante testimonianza di un soldato statunitense in Vietnam (1). Era quasi impazzito per le conseguenze interiori dei suoi omicidi a decine, commessi in guerra. Guarito da un monaco buddhista, ora e' monaco lui stesso. Egli riconosce "che il mondo in cui aveva vissuto e' follia pura: addestrare esseri umani a uccidere... e il peggiore aspetto di questa follia e' che esiste una societa' che non solo non vuole alcuna riflessione su queste presunte necessita', ma che le vieta". Il cristianesimo occidentale e' impreparato a curare "questa follia apparentemente normale, perche' si tiene ancora troppo allineato all'autorita' statale" (pp. 181-184). Il primo dei cinque punti che Drewermann propone per educarci alla pace e' la necessita' di liberarci dall'ostacolo che sta "nella disponibilita' all'obbedienza, nella capacita' di cedere la propria responsabilita', di
richiamarsi a ordini dati da altri" (p. 185). "Caratteristica dell'essere soldato e' il fatto che egli si debba annullare
come soggetto per essere disponibile all'annullamento di 'materiale umano' insito nel nemico, e all'omologazione nella propria truppa" (p. 187). "L'esercito e' la condizione marginale o di catastrofe della vita civile, e tanto piu' a lungo questo sopravvive, tanto piu' diviene catastrofe per tutta la nostra vita" (p. 189). Ha scritto Teresa Sarti, di Emergency: "Finche' la guerra sara' tra le opzioni possibili, la guerra ci sara'" ("Il manifesto", 12 marzo 2004). La
principale alternativa alla guerra che Drewermann propone e' il dialogo profondo, preveggente, preventivo, autocritico, col "nemico". Solo la parola seria guarisce i rapporti umani.
*
Vorrei terminare con una orrenda esperienza personale, che ho gia' riferito in numerosi articoli e in piu' di un libro. Il 29 marzo 1996, durante un dibattito sulla guerra in un teatro torinese, pieno di studenti di scuola media superiore, il generale Carlo Jean, allora come oggi alto comandante militare, disse letteralmente (prendevo appunti sotto dettatura): "Nell'esercito e' necessaria la disciplina... perche' combattere significa uccidere. Occorre l'esecuzione automatica dell'ordine". Ora, dove c'e' esecuzione automatica non c'e' coscienza, dunque non c'e' piu' un essere umano. Mi pento di non avere denunciato il generale per corruzione di minorenni. Le tesi di Drewermann (che gia' anticipava Kant, a proposito di eserciti permanenti) sulla disumanizzazione dei soldati, imposta per usarli
come strumenti di omicidio, e' confermata da un alto militare italiano.
*
Note
1. Si tratta, con tutta evidenza, di Claude Thomas, venuto piu' volte in
Italia, di cui abbiamo qualche scritto, come l'opuscolo Un cammino di
liberazione. Dalla guerra in Vietnam alla pace nel cuore, pubblicato da La
Rete di Indra, Roma 1996 (per richieste: e-mail: indra@alfanet.it, tel.:
068079090). Ne ha parlato anche "L'Unita'" del 6 maggio 1997.

24 maggio 2005

30 giugno 1960 - La rivolta di Genova nelle parole di chi c'era

Libro di Alessandro Benna e Lucia Compagnino 
edito da Fratelli Frilli Editori

Nel giugno 1960 Genova risvegliò il suo sentimento antifascista e si oppose attraverso manifestazioni, barricate e scontri all'organizzazione del congresso del Movimento Sociale Italiano proprio nella città medaglia d'oro alla Resistenza.
Il libro narra le vicende e le sofferenze di quei giorni che portarono alle dimissioni del presidente del consiglio Tambroni e la caduta del suo governo.