30 marzo 2009

"Alle origini del postmoderno in letteratura: Stevenson e Maupassant"


di Emilio Michelotti

LO STRANO CASO DEL DOTTOR JEKILL E DI MISTER HYDE

Stevenson precorre qui alcuni rami della psicopatologia (fenomeno della scissione dell’Io): “L’uomo non è in verità uno, ma duplice… azzardo l’ipotesi che esso sia infine conosciuto come un conglometato di svariate entità, incoerenti e indipendenti una dall’altra”.

Due figure differenti, l’una simboleggiante il male puro, l’altra l’apparente irreprensibilità vittoriana. Stevenson suggerisce che la moralità è un fardello spaventoso che reprime certi aspetti della natura umana.

Due figure, ma nessun manicheismo: vi è invece delineata la difficile dialettica del relativismo morale. La personalità del protagonista non è equamente scissa in due parti, tra bene e male: al contrario, la storia mette in luce come il male rappresenti solo una piccola porzione dell’individuo.

E’ molto pericoloso soffocare i lati istintivi della propria personalità, questo è il monito di Stevenson. L’altro monito, configurato dal suicidio del protagonista, vuole essere la prova della sconfitta della scienza sul terreno dell’uomo.

Un raddoppiamento dell’Io, una suddivisione dell’Io, una permuta dell’Io: più che di doppio si tratta di metamorfosi, una trasfigurazione visibile attraverso il medium dello specchio.

LE HORLA

E’ lo stesso oggetto che ritroviamo in questo racconto di Maupassant: in quanto elemento di riflessione dell’immagine umana lo specchio esprime il suo essere più intimo. Doppio immateriale, il riflesso permette all’invisibile di manifestarsi non appena il protagonista viene “assorbito” dal vuoto della superficie riflettente, non appena si fa spazio all’apparizione dell’Horla, dell’assenza presente, appunto l’hors-là.

La tecnica stilistica del diario rende il lettore l’unico confidente del protagonista, e lo fa assistere impotente alla lenta decomposizione della sua personalità e al suo terribile destino di morte.

L’iniziale benessere, l’equilibrio e le certezze si trasformano – pagina dopo pagina – in minaccia, ossessione di una Presenza ostile e invisibile, ma in grado di dominare la sua vittima fino al suo completo annientamento, fino alla dissoluzione della sua identità.

Non è un caso che i due libri siano stati scritti contemporaneamente (Stevenson pubblica nel 1885, Maupassant nel 1886). I due autori assistettero, insieme a Freud, alle lezioni del prof. Charcot alla Salpetrière e alle dimostrazioni del dott. Mesmer. Essi testimoniano forse il passaggio al postmoderno: vi sono inclusi alcuni dei tratti distintivi del Novecento come la caduta dei valori assoluti. Questa ha portato dietro di sé – nelle relazioni sociali, nella filosofia, nella politica, nella scienza - il relativismo che, modificando per sempre i concetti di spazio e di tempo, ha inciso profondamente nella considerazione che l’uomo aveva di sé.

Robert Louis Stevenson – Lo strano caso del dottor Jekyll e mister Hyde
Utet – Torino, 1967

Guy de Maupassant – Racconti fantastici – Mondadori, Milano 2004

29 marzo 2009

" India 1950" foto di Cartier-Bresson


di Gianni Quilici

Questa immagine è stata scattata nel 1950 in India da uno dei più grandi fotografi del '900 Henry Cartier-Bresson

Come avrà fatto –si potrebbe pensare- Cartier-Bresson a fermare al volo un insieme di elementi in una situazione rapidissima come questa con questo incredibile equilibrio compositivo: il dettaglio della (bella) mano protettiva sul capo del bambino, da cui sbucano due occhi pensosi e indefinibili e, come contrasto sottile, ma evidente, il dettaglio della “grande” e “pesante” ruota del carro a suggerire una possibile metafora sui bambini di ieri (e ancora di più, oggi) nel terzo e quarto mondo?

E quanto si potrebbe ragionarci ancora, rischiando però di essere troppo pignoli, osservando più da vicino i singoli aspetti ed i loro rapporti?

Come ha scritto Jim Jarmush:” Una immagine unica, statica, diventa il frammento rivelatore di una storia; qualche cosa di ampio e di mobile, un ricordo che dà inizio a un’intera sceneggiatura. Il linguaggio è superfluo”.

Henry Cartier-Bresson. India, 1951  

27 marzo 2009

"Stella distante" di Roberto Bolaño

di Gianni Quilici




Cile, prima, durante e dopo Pinochet.
Un io che racconta e al centro una figura misteriosa, indecifrabile, sfuggente, per certi versi affascinante, certamente abominevole: Carlo Wider dalle molti identità... “un poeta, un aviatore che scrive versi nel cielo, un killer di poeti, un torturatore, un fotografo surrealista delle vittime, poeta d'avanguardia e forse operatore-assassino di film hard core criminali...”

E' un romanzo che si legge con un po' di fatica. Non ha quella concentrazione nella concatenazione di fatti che ti porta via.
L'io narrativo è uno dei protagonisti della storia, ma è soprattutto un cronista, che cerca di ricostruire gli avvenimenti: raccoglie testimonianze, resoconti, ma anche dicerie, storie che si raccontano, ma di cui non esistono prove.

Ma anche ciò che sembra certo è veramente avvenuto? Ed anche lo stesso Carlo Wider è personaggio reale oppure soltanto immaginato?

Ciò che interessa a Bolaño è rappresentare il clima di paura, di delazione, di orrore e di terrore che il Cile ha attraversato con Pinochet; ed anche il ruolo della letteratura e della poesia, in particolare d'avanguardia, utilizzata attraverso il gesto estetico, che nasconde i fatti (i contenuti) per esaltare i modi (la forma).

La forza del romanzo è nello stile che combina insieme la ferocia dei fatti (detti o lasciati presagire) con lo sguardo distaccato del cronista; un cronista che sa e non sa e per questo evidenzia con più efficacia il clima di oppressione, isolamento, incertezza, confusione, di impossibilità a verificare in cui si viveva durante la dittatura di Pinochet.

Ed è anche, infine, la situazione oggettiva dell'esiliato, dello scrittore stesso.
Roberto Bolaño nasce, infatti, a Santiago del Cile nel 1953, partecipa alla resistenza dopo il colpo di stato di Pinochet, viene imprigionato, ma riesce a fuggire e, da allora, vivrà la vita raminga di tanti cileni costretti all'esilio, dapprima in Messico, più tardi in Spagna, precisamente in Catalogna, dove viveva la madre. Lì pratica diversi lavori – vendemmiatore in estate, vigilante notturno in un campeggio, commesso in un negozio del quartiere – prima di potersi dedicare completamente alla letteratura. Bolaño muore il 15 luglio 2003 all’ospedale Valle de Hebrón di Barcellona, lasciando incompiuto il romanzo 2666.


Roberto Bolaño. Stella distante. Traduzione di Angelo Morino. Pag. 169. Sellerio.

18 marzo 2009

"Europa/Occidente": intervista a Felix Duque


di Emilio Michelotti

Come metafora della civiltà europea, per il filosofo madrileno, conviene non pensare a una o più religioni, ma a un foglio bianco. Una pagina che si è arricchita via via di contaminazioni identitarie feconde, spesso sanguinarie.

Se c’è bisogno di una sacralità sulla quale fondare l’autorità della norma (e Duque la riconosce come necessità almeno psicologica), questa è individuata appunto nel bianco del foglio, “ferita, mancanza, possibilità” non ancora pensata – e forse non pensabile.

Occidente è termine ambiguo, terra del tramonto, luogo “uccidente”, che viene ucciso, ma anche che uccide, soggetto a continue fascinazioni intorno alla sua centralità, o purezza, o nobiltà delle origini, delle quali oggi si teme il ritorno come dovere di custodia.

Il modello nord-americano rappresenta una deriva, una attrazione e un’opposizione: società di uniformizzazione inclusiva/esclusiva nella quale un deismo intransigente si è assunto il compito (in qualche modo dichiarato: e pluribus unum) di fare della molteplicità un popolo solo, eletto, assoluto (nel senso di un risultato senza residui), fine hegeliana della storia. E un’umanità autentica sarebbe quella che rivendica a sé questa necessità.

Un progetto, questo sì non dichiarato, che si fonda su due menzogne primigenie:
1)- che ogni coscienza individuale sia il centro del mondo
2)- che esistano valori assoluti

Per Felix Duque, “valore” è un concetto dell’economia capitalista, nasce nella società mercantile e si sviluppa in due momenti: a) – produzione di caos, b)- offerta di rifugio in pensieri forti.

Anni indietro è parso che una società globalmente mercificata non avesse più bisogno degli stati nazionali. Ma ormai lo stato postmoderno si appoggia ancora una volta a terrori irrazionali, come la paura del terrorismo, per ricreare surrettiziamente il bisogno di tutela, utilizzando a questo fine la diffusa cattiva coscienza, l’aleggiante fantasma postcolonialista.

Una tecnologia ancillare accompagna questa nuova ideologia con la creazione di bisogni artificiali, illudendo le masse sull’esistenza di una seconda natura, di un’artificialità ontologica, più autentica e originaria di ciò che un tempo veniva spacciato per naturalità.

Per Duque la speranza hegeliana non è un mito da rigettare “in toto”, a condizione che ne si abbandoni il nucleo eroico che le si connette: la morte può effettivamente “uccidere se stessa”, quando (come sostengono Deridda e Levinas) si è capaci di dare non la propria vita ma la propria morte per evitare la morte altrui.

In altri termini solo l’antico tema precristiano dell’ospitalità è in grado di sfuggire al feroce meccanismo individuato da Nietzsche: Compassione – come volontà di potenza /vergogna/ sterile ribellione come rivalsa. Ospitati e ospitanti sono da sempre non a caso uniti in un sol termine, e gli ospiti siamo noi.

Europa/Occidente- RED tv- martedì 17 marzo 2009- ore 21,30

14 marzo 2009

"Dario Vergassola" di Gianni Quilici



Dario Vergassola non ha la forza di tenere da solo in piedi uno spettacolo come quasi nessuno sa fare in Italia tranne pochi: Benigni, Paolini, Dario Fo, forse Paolo Rossi.

La sua caratteristica peculiare è la velocità, la velenosità, perfino la stupidità della battuta. Non racconta come sa fare Benigni, non deforma genialmente personaggi come sanno fare Corrado Guzzanti, o spesso Sabina Guzzanti e Maurizio Crozza e, a volte, Neri Marcorè e Teo Teocoli.

Vergassola è un “punzecchiatore”, che interviene nello svolgersi di uno spettacolo come spalla o da solo con una gragnuola di battutacce alcune geniali, altre stupide. La stupidità di Vergassola è, però, divertente, perché è, a volte, così assurdamente stupida (penso alle domande agli ospiti del divano di Serena Dandini) e detta in modo così birichinamente autocritico, che fa sorridere.

Infine, diversamente da Piero Chiambretti, che esibisce nelle sue trasmissioni “il sesso” come strumento di audience, Dario Vergassola lo usa per delineare il suo personaggio di desideroso- sfigato, che è poi tipicamente italico.

Non a caso Berlusconi, che non è un comico, ma che ha (smisurate) ambizioni cabarettistiche, lo usa (il sesso) per arricchire il suo profilo di sempre giovane (nonostante l'età) seduttore, da tombeur de femmes. Il Cavaliere, con il suo sorriso insopportabilmente privo di qualsiasi distacco, se ne compiace; Vergassola finge di non riderci. Berlusconi si rivolge ad un pubblico di avanspettacolo. Vergassola (potenzialmente) a tutti.

12 marzo 2009

Walter Siti su Pier Paolo Pasolini


di Gianni Quilici



Sono rimasto stupito da ciò che ha scritto Walter Siti, curatore dell’opera omnia di Pasolini per i Meridiani, nell’ultimo dei due volumi (la poesia), che ha concluso la monumentale opera.

Pasolini –scrive in sintesi Siti- è stato lo scrittore dell’imperfezione per il suo inconcepibile pressappochismo, gli sbagli delle citazioni, la bulimia intellettuale, l’esibizionismo, il plagio e oltre, per l’ambizione sfrenata a pensare in grande con decine e decine di piani di lavoro, per il numero di libri pensati, prefigurando addirittura raccolte di raccolte, non buttando via niente, sapendo che anche l’opera finita non esaurisce e può sempre fecondare scritti futuri ecc, ecc. Conclusione: “pochi suoi testi hanno vinto il confronto con la storia - pochi si reggono se eliminiamo gran parte del contesto,come bisogna pur fare con i classici”.

Ora quelli che descrive Walter Siti sono sicuramente dati di fatto, che egli ha verificato sui dattiloscritti e nei libri di PPP e sottintendono –credo- un’ambizione che non si pone limiti (“non temere di essere ridicolo: non rinunciare a niente” ha scritto PPP).

Ma è questa ambizione sfrenata, uno dei quid più profondi e radicali della personalità pasoliniana:
il desiderio di vivere all’estremo e insieme di rappresentarsi, di vivere, cioè, due volte (nella vita e nella rappresentazione) o forse tre, attraverso la sua opera riflessa negli altri, o addirittura quattro, nel desiderio di immortalità. (si legga la bellissima poesia, nell’ultima pagina del libro Teorema). E c’è un’altra poesia del 3 marzo 1949, pubblicata sulla rivista Poesia e, un po’ diversamente, nei “Meridiani”, che ben rappresenta ciò che vado dicendo.

Ciò che non esprime muore.
Non voglio che nulla muoia in me.
La mia ambizione è dissiparmi
Fino allo splendore della pazzia
(e la mia ambizione è risparmiare…
non perdere una lacrima …) (…)

Dico questo, perché ciò che mi infastidisce nell’intervento di Walter Siti, sommariamente accennato, non è soltanto la mancanza di generosità, ma l’aver eliminato nel ritratto di PPP il cuore e l’intelligenza, abilissima certo, ma anche luminosa.
Ed allora ho pensato di rispondere a questa sensazione fastidiosa non in astratto, ma ragionando su un’opera precisa di PPP.

Gennariello
Ho riletto a distanza di anni da Lettere luterane, la prima parte Gennariello, che è l’inizio di un trattato pedagogico, che andrebbe letto e studiato nelle scuole, innanzitutto dagli insegnanti.

Il primo aspetto che colpisce in questo trattato, e che invece manca molto a Walter Siti, è la cordialità con cui l’autore si rivolge a questo giovane immaginario, che chiama Gennariello, un tono non solo affettuoso, ma complice, di chi, pur essendo diverso, per età e cultura, tuttavia vuole farsi capire e dialoga, un dialogo di tipo socratico, anche se il dialogo è di PPP con un immaginario ragazzo, ossia con PPP stesso.

E questo dialogo ha la forma –ecco il secondo aspetto- di una narrazione. PPP non racconta soltanto, scusate il bisticcio, quando racconta, ma, anche quando fa il critico, almeno a partire dalla metà degli anni ’60, sia esso letterario ( Descrizioni di descrizioni), che sociologico (il Pasolini luterano e corsaro). E perché è narrativo? Perché conduce la critica, cioè il ragionamento, come se fosse (ed è) una scoperta, un continuo disvelamento di livelli.

Questa narrazione tuttavia nasconde, ecco il terzo livello, la poesia, per il grado di temperatura con cui la svolge. Si intuisce che PPP potrebbe facilmente far scaturire versi dalla prosa, perché è anche il cuore che la scrive. Anche nel Gennariello ci sarebbero esempi, che per ragioni di spazio elimino.

Ma se scrivessi “un cuore soltanto” sbaglierei, perché il cuore di PPP è piegato ad un’intelligenza vivissima; con un risultato (soltanto superficialmente) paradossale: che non è essa meno cuore, ma più cuore, perché più vero. Perché non è soltanto l’intelligenza brillante, colta, che troviamo da molte parti, ma diventa in PPP spesso un’intelligenza impietosa, quindi feroce contro il senso comune solidificato.
E perché questo? Perché PPP oggettivizza l’oggetto che analizza, lo mette staccato da sé, lo contempla per quello che è. In questo trattato sono i ragazzi, che lui conosce, perché li sperimenta quotidianamente. Ed infatti, leggendo Gennariello, sono rimasto sorpreso dalla novità, dall’articolazione delle analisi.

Per darne il senso, un esempio. PPP affronta con Gennariello il tema dei coetanei come educatori importantissimi nel loro rapporto e lo affronta sia orizzontalmente (li descrive) che verticalmente (li approfondisce storicamente). Ebbene, i giovani li divide in tre categorie: gli obbedienti, i disobbedienti e i colti. Degli obbedienti fa un elenco impressionante: i destinati ad esser morti, gli sportivi, i futuri executives, i comunisti ortodossi, i repressi non nevrotici, i teppisti, i fascisti, i cattolici attivisti ed infine i puri medi, tenendo presente due avarianti, dice lui, ancora fondamentali: i ragazzi borghesi e i ragazzi operai, i ragazzi del Nord e i ragazzi del Sud. Pasolini parlerà soltanto dei “ragazzi destinati ad essere morti”, perché poi verrà ucciso, ma già in questo capitolo non c’è nulla della mania classificatoria d’una certa sociologia americana. Tutt’altro. Viene fuori invece un tipo di adolescente, visto negli aspetti e nelle ragioni profonde del trauma.

Ecco, a mio parere, l’unicità di PPP è in questa sintesi di altissimo livello, in cui non si può separare il poeta dal narratore, l’intellettuale dall’esploratore.

Con un’aggiunta: la presenza del corpo. Per corpo intendo il suo corpo: la sua voce, la sua passione, la sua furia, i suoi traumi, il suo coraggio. Qui in Gennariello il corpo è una mescolanza tra paternità e fratellanza. Paterno in quanto superiore (conosce e non è conosciuto); fraterno, perché si pone accanto. Ma altrove la presenza corporea di PPP è disperata, furiosa, rivoltosa, esprime, cioè sentimenti diretti ed estremi. Si mette in gioco tutto, privo di mediazioni, se non quelli della razionalità comunque.

Ed è questa una differenza certa tra lui ed altri grandi artisti del secondo ‘900 italiano (Moravia, Fellini, Volponi ecc). Questo corpo disperato e furioso e tra virgolette profetico è il Pasolini che più manca e più è discusso.
Perché è quello che più pragmaticamente ci manca oggi. Pensiamo a cosa scriveva PPP nel marzo del ’75.
“Il primo dovere degli intellettuali, oggi, sarebbe di insegnare alla gente a non ascoltare le mostruosità linguistiche dei potenti democristiani, a urlare, a ogni loro parola, di ribrezzo e di condanna”
Che cosa avrebbe scritto PPP per Berlusconi, di un Presidente del consiglio che non solo non si è fatto (finora) processare dalla magistratura, ma che ha invece continuamente processato lui la magistratura?


Certamente non sarebbe stato sulla difensiva, come ha fatto gran parte dell’opposizione di centro sinistra, avrebbe smontato con le armi della semiologia questa recita mostruosa che ha tolto senso alle parole e al dialogo stesso. Altri comunque lo fanno e lo hanno fatto.
Ma PPP sapeva urlare, perché nel suo urlo c’era lo stile del narratore-poeta-intellettuale, con la sua immaginazione sociologica, le sue metafore illuminanti, con l’uso retorico e suggestivo della propria persona, con la passione e la lucidità di posizioni nette.

Qualcuno potrebbe dire: possiamo quindi santificarlo?
No: diversi film o libri di PPP li trovo a tratti volontaristici, più ideologici che intimamente vissuti o risolti; altri estetizzanti, cioè pieni di una passione che si contempla, che si vuole bene.

Ma non è forse così per ogni grande, che insieme a risultati compiuti ce ne siano di incompiuti? In PPP forse ancora di più, tanto è stata fluviale e versatile la sua opera. Un’opera che vuole fuoriuscire, nell’ultima parte della sua vita, dalle pagine stesse, diventare esempio, azione.

Walter Siti. Post-fazione a " Tutte le poesie (2 tomi)" di Pier Paolo Pasolini. I Meridiani. Mondadori.

11 marzo 2009

"Europa/Occidente": intervista con Vincenzo Vitiello


di Emilio Michelotti


Mi pare poco battuto, e perciò da notare, il sentiero che conduce Vincenzo Vitiello ad indicare la necessità per l’Europa dell’incontro con culture “altre”: Le radici dell’Europa sono nel futuro. In che senso?

Una volta individuato l’ umanesimo come volontà di potenza, il passo successivo sarà ridurre l’antropocentrismo dualistico che tenta di sottomettere il mondo al suo osservatore.

Stare accanto, intercettare gli umori segreti di un’umanità finalmente e di nuovo retrocessa/elevata a natura, contro “l’umano troppo umano” dominante. Ricercare identità e radici può avere un senso se va, da noi, nella direzione di un cristianesimo antipaolino, mai sperimentato fino alle ultime conseguenze.

La fine dell’Europa-estesa – coloniale, imperiale, conquistatrice – ha coinciso (e non poteva che andare così) con l’estinzione della filosofia come potenza e del suo pensare arrogante. Così il saper vivere nel fallimento di Maria Zambrano (una “meridionale” come Vitiello) può essere usato come un rasoio di Ockham : delle tante teorie della realtà che si fronteggiano le più autentiche sono le più semplici, le più facili da capire, quelle che rinunciano a custodire verità ultime, quelle che usano parole disarmate.

Come relativismo e perfino nichilismo che, una volta sottratte alla loro carica negativa, acquistano valenze inedite: concepire tutto ciò che pensiamo come fasciato nel nulla si traduce in consapevolezza della finitudine, in rinuncia ad ogni enunciato assoluto - ossia risolto una volta per tutte - perché nessuna conoscenza può sapere il proprio limite: un “semplice” filo d’erba già travalica le possibilità del conoscere.

Lavorare sul togliere (Celan, Giacometti, Webern), ridursi, negarsi, lasciare spazio, come unica possibilità di stare accanto agli altri e alle cose, si traduce in Vitiello in un elogio del pauperismo, in protesta e in polemica anticittadina (la polis come conflittualità permanente con la naturalità), nel ritrovare l’umoralità terrena originaria e quindi in critica radicale alla modernità intesa come dualismo estremo, come dominio dell’ente (uomo) sull’essere (universo). Farsi più piccoli, a partire dalla consapevolezza della fallibilità e precarietà della nostra idea di sacro, per far posto anche agli altri.


Europa/Occidente – Vincenzo Vitiello intervistato da Massimo Adinolfi. RED tv, canale 890 di Sky, martedì 10, ore 21,30

10 marzo 2009

"Pinocchio" del Teatro del Carretto


di Maddalena Ferrari

Mi colpisce sempre, della compagnia del Carretto ed in particolare della sua ispiratrice, Grazia Cipriani, la profondità della lettura del testo e la stratificazione culturale e metaforica.

Rimango poi sempre sorpresa ( ma è anche un elemento che tengo in conto, avendo seguito, nel corso dei diversi allestimenti realizzati in tanti anni, le creazioni immaginifiche di Graziano Gregori ) e affascinata dalla capacità di evidenziare corporeità e materialità di personaggi, figure, oggetti. Gli attori, corpi atletici ed elastici, sono tutt'uno con qualsiasi “cosa” faccia parte della messa in scena , sostanza e forma. Lo spazio è un non-luogo da sezionare, riempire-svuotare, dilatare-rimpicciolire.

In questo caso, la scena, nuda, ha sul fondo una serie di pannelli neri, in cui si aprono stretti varchi e piccole finestre. In questa scenografia oscura e opaca si muovono o sono mossi personaggi e oggetti; nel fuori campo, suoni e musica inquietanti, perché estranianti; più volte sentiamo l'aria di Puccini “O mio babbino caro”, a sottolineare un rapporto affettivo al tempo stesso coinvolgente e costantemente tradito.

Solo due attori parlano: il Pinocchio-burattino dello straordinario Giandomenico Cupaiuolo, che, senza alcun naturalismo, dice, racconta, immagina, desidera, raramente colloquia e si muove con il suo corpo legnoso e meccanico, capace dei più arditi contorcimenti; e la Fata Turchina, bamboccia vociante e sgraziata, un po' coscienza, un po' mamma,un po'sorella.

E' un Pinocchio, anche, fenomeno da circo-animale. Uomo e animale ( Gatto e Volpe, ma pure Asino-Lucignolo e Asino-Pinocchio ) sono legati da un nesso, che viene percorso ora in un senso, ora in un altro, in un continuo processo metamorfico. Lo stesso si può dire del rapporto corpo vivo- corpo morto, corpo autonomo- pupazzo eterodiretto.

La strana fiaba di Collodi, bizzarra, moralistica e funerea viene letta attraverso la drammatizzazione quasi espressionistica dei contenuti e la chiave psicoanalitica, nel conflitto irrisolto tra edonismo e (auto)punizione, piacere e dolore, amore e morte.


PINOCCHIO
da Carlo. Collodi
Teatro Del Carretto
adattamento e regia Maria Grazia Cipriani
scene e costumi Graziano Gregori
suono Hubert Westkemper
luci Angelo Linzalata

interpreti:
Giandomenico Cupaiuolo, Elsa Bossi,
Giacomo pecchia, Giacomo Vezzani,
Elena Nenè Barini, Niccolò Belliti,
Jonathan Bertolai, Carlo Gambaro.

"Acido solforico" di Amélie Nothomb


di Gianni Quilici


Amélie Nothomb parte da una situazione presente nei paesi opulenti: il reality televisivo e la partecipazione (emotiva) del pubblico; e lo estremizza.
Immagina, infatti, che questo si svolga in un campo di concentramento, che abbia come protagonisti kapò ed internati, rastrellati nelle strade di Parigi, che non solo siano trattati duramente, ma che vengano uccisi davvero.
L'idea del reality non è originale, lo è invece avere scelto il campo di concentramento, ossia la Memoria più atroce e terribile, che il '900 dovrebbe aver lasciato in eredità nella coscienza di ciascuno.

Qui la Nothomb gioca su due elementi:
da un lato sui rapporti nel campo di concentramento tra vittime e carnefici e sui rapporti delle vittime tra loro; dall'altro sui telespettatori, (e l'opinione pubblica), visti attraverso l'audience.

Il mondo dei telespettatori, che diventa la società tout court, ha soltanto un volto, non tante sfaccettature.
Il pubblico -ci fa capire la Nothomb- ha bisogno di identificazione-partecipazione nello spettacolo e, poiché l'identificazione-partecipazione si consuma rapidamente, ha bisogno di stimoli sempre più forti, che lo eccitino, che lo sorprendano fino a coinvolgerlo direttamente. Quindi quanto più lo spettacolo è atroce e diretto tanto più sale l'audience. Il pubblico tuttavia non si riconosce, condanna gli altri (spettatori), si fa innocente.

Quella che ne viene fuori è una rappresentazione ideologica o, se vogliamo, è il sentimento che la Nothomb proietta su una società la cui complessità si riduce a tal punto che la fa diventare completamente omologata, incapace, cioè, di esprimere individualità, rivolta.

Dove invece la scrittrice scava (psicologicamente) è nei rapporti che si intrecciano nel campo di concentramento. Due sono i protagonisti, intorno ai quali scorrono gli altri: la bellissima Pannonique (definita nel campo CK2 114), colei che cerca, sperimentando(si), di conservare intatta la sua purezza, autonomia di giudizio e che, per questo, catalizza in sé amore, ammirazione, consenso, ma anche gelosia, risentimento; e la kapò Zdena, che trova la forza della propria identità nella sua capacità istintiva di picchiare, insultare, imporre, non provare pietà, e, per questo, viene odiata da spettatori e internati, ma che, innamorandosi ossessivamente di Pannonique, cambia e con un colpo di scena.....

Acido solforico è un romanzo che nasce da un'ideologia: l'individuo può essere oggi facilmente manipolato, senza che lo creda e lo pensi; e tuttavia esiste anche una minoranza, che vive criticamente... in molti casi la sua impotenza.
Quanti oggi in Italia rifiutano, infatti, “Il grande fratello” o similari non solo per ideologia, ma perché non vi provano piacere? Una minoranza forse, ma larga.

Ecco il limite che trovo nel romanzo di Amélie Nothomb: che Pannonique non abbia quella complessità simbolico-dialettica, che possa condensare efficacemente questo “rifiuto”, pur avendo una sua credibilità e coerenza; ma soprattutto manca una figura del “male”: non lo sono né quella ingenua della kapò, poco credibile nella sua conversione, né quella diabolica televisiva (come lo era, per esempio, in Truman Show, Christof, il creatore dello show, colui che dirige)

Un romanzo che ha tuttavia una sua originalità con alcuni punti di rilievo (Pannonique che grida il suo nome, Pannonique che accusa gli spettatori di essere loro i veri colpevoli, gli assassini.

Amélie Nothomb. Acido solforico. Traduzione di Monica Capuani. Pag. 131. Voland. € 13,00

09 marzo 2009

"La conquista della malaria" di Frank M. Snowden


di Luciano Luciani


Malaria deriva da “mal aere”, termine che si trova usato per la prima volta nel 1404 dal veneziano Marco Cornaro per indicare l’aria cattiva che si formava alla foce dei fiumi ed era spesso accompagnata “da molta febre”. A Mantova, invece, molti decessi annotati nei registri necrologici a partire dal XV secolo utilizzavano le dizioni generiche di ”febri maligne”, “febre brutta”, “febre cativa” o termini più precisi come “febre terzana” o “febre quartana” ed è solo nel 1571 che malaria entra nel dizionario etimologico italiano per la sua presenza nella Idropica, commedia di un poeta ferrarese, Giovan Battista Guarini (Ferrara 1538 – Venezia 1612).

Certo è che nel quadro relativo alla descrizione e alla classificazione delle malattie che nel corso dei secoli hanno reso il Bel Paese un po’ meno tale, la malaria è sempre apparsa presente sin dall’antichità e in forma tenacemente endemica nelle zone paludose della penisola. Sempre imponenti le sue proporzioni che contribuivano in larga misura agli elevatissimi tassi di mortalità, soprattutto infantile che continuavano a caratterizzare negativamente il nostro paese.

Poco prima della faticata unità d’Italia la malaria appare ancora come un temibile flagello capace di condizionare pesantemente la vita degli uomini e l’economia. Si prenda il caso della Maremma toscana: qui, secondo una stima fatta nel 1844 dal Salvagnoli - Marchetti, la percentuale dei malarici sul totale della popolazione era del 54% a Orbetello, del 59% a Grosseto, del 66% a Gavorrano, del 70% a Santa Fiora.
In alcune zone del Meridione il morbo arrivava a rappresentare tra il 20 e anche il 30% delle cause di morte: è il caso di alcune aree della Calabria come Rossano, Paola, Nicastro e di alcune zone della Sicilia come Sciacca e Piazza Armerina. Né le cose cambiarono granché all’indomani della sospirata unità che svelò la vera realtà delle condizioni socio-economiche del Paese che scontava secolari negligenze nel controllo dei flussi delle acque correnti e nell’imprevidente disboscamento di vaste plaghe collinari e montuose.

A chiamare in causa le responsabilità degli uomini e delle classi dirigenti fu Carlo Cattaneo: lo storico milanese fin dal 1863 evidenziava come la struttura del terreno, anziché essere il prodotto di circostanze transitorie ed occasionali, appariva invece il risultato di uno strettissimo intreccio con le vicende storiche di lungo periodo come dimostravano appunto le aree malariche dalle Maremme toscane alla Campagna romana, alla inospitali terre paludose della Sardegna, il cui degrado era in buona parte dovuto alla trascuratezza e alla insipienza umane. Ancora nel 1878 il termine ‘malaria’ stava a indicare un certo tipo di febbre ricorrente caratteristica di una malattia ben definita: in un testo di Guido Baccelli, La malaria di Roma leggiamo che all’indomani di Porta Pia, nel Lazio, è un flagello che colpisce ogni anno da cinquemila a diecimila persone, specialmente nell’Agro Pontino e nell’Agro Romano. I dati che riguardano quest’ultima area risultano davvero preoccupanti negli anni 1888/1889/1890 quando ammontano a 5005 i casi di individui colpiti da febbri, pari al 21,6 dell’intera popolazione della zona; negli anni 18991/1892/1893 scendono a 2880, il 12,1 della popolazione; nel 1894/1895/1896 risalgono al 16,1 con 4132 casi e ridiscendono al 7,4 nel 1897/1898/1899 con 2200 casi.

Intanto, la scienza muoveva faticosi, ma sempre meno incerti, passi in avanti, individuando non più nell’aria, ma nell’acqua il veicolo della malattia. Come è noto, solo alla fine del XIX secolo il suo agente eziologico venne individuato nel plasmodium e ne furono scoperte le origini anofeliche: si cominciò così a fare definitivamente giustizia delle vecchie teorie che ne attribuivano la causa essenzialmente ai ‘miasmi palustri’, ovvero l’aria malsana che esalava dalle acque stagnanti delle paludi.

Forte di sempre più consolidate certezze scientifiche nell’ultimo trentennio del XIX secolo prese l’avvio anche un largo e vigoroso intervento riformatore Nel 1882 l’ufficio centrale del Senato del Regno pubblica la Carta della malaria in Italia, elaborata dopo accuratissimi studi e tenendo presenti un gran numero di osservazioni e ricerche. Secondo tale Carta soltanto 6 province erano interamente immuni dalla malaria, 13 contenevano territori con malaria debole o grave e 21 presentavano zone colpite diversamente secondo i luoghi da malaria debole, grave o gravissima. La malaria gravissima allignava in zone più o meno grandi di 21 province, di cui non meno di 10 facevano parte del Mezzogiorno. Nei quattro anni che vanno dal 1887 al 1890 la statistica delle cause di morte attribuisce alla malaria ben 68.838 vittime. Né erano migliori i Risultati dell’inchiesta istituita da Agostino Bertani sulla condizione sanitaria dei lavoratori della terra in Italia, Roma, 1890: in Italia su 8257 comuni soltanto in 2677 con una popolazione di 6.036.623 abitanti la malaria era completamente ignota. Così a questa “funesta infezione che è il mistero di tutta la nostra storia passata e di gran parte delle nostre condizioni presenti” (Nitti) risultavano esposti il 70% di tutti gli abitanti del Regno e l’80% degli abitanti del Mezzogiorno d’Italia (Campania, Basilicata, Calabria, Sicilia). Dal sud al nord: nel 1901 sono ben 2695 i casi di malaria rilevati a Mantova da un’apposita commissione.

“Quantunque la malaria sia una malattia mondiale, l’Italia ne è una figlia purtroppo beniamina. Si calcola che il numero dei colpiti nella penisola sia di circa 2 milioni all’anno, con circa 15 mila morti. Ed è una malattia lunga, che può continuare per anni. La perdita di lavoro e di produzione e le spese necessarie per questa malattia sommano a parecchi milioni. S’aggiungono… i danni indiretti: larghe estensioni di terreno restano incolte per opera della malaria, in altre plaghe la coltivazione, sempre per colpa della malaria. è fortemente imperfetta. E dal punto di vista della solidità nazionale, sappiasi che le regioni in cui più infierisce la malattia sono tra quelle che danno il maggior tributo alla emigrazione”: così, ancora nel 1913, Alessandro Canestrini.

Da allora per mezzo secolo malaria e società italiana si fronteggeranno con alterne fortune: una lotta che fece acquistare ai medici italiani una posizione di leadership mondiale in questo campo. Una guerra che sarà vinta definitivamente solo alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso perché quei medici e un pugno di uomini politici e amministratori intelligenti compresero che la malaria era insieme causa e conseguenza dell’arretratezza e del sottosviluppo. La storia, per tanti aspetti sorprendente, di quella mobilitazione che fu non solo scientifica, ma anche civile e politica e che nel secondo dopoguerra permise di sradicare la principale malattia endemica del nostro Paese, è raccontata in un documentatissimo libro di Frank M. Snowden, La conquista della malaria Una modernizzazione italiana 1900 – 1962: l’Autore, docente di storia contemporanea e storia della medicina all’università di Yale, non ci racconta solo la storia affascinante della dura battaglia intrapresa dalle migliori intelligenze di un intero Paese, il nostro, contro la malaria e di come questa mobilitazione rivestì un ruolo fondamentale nella promozione dei diritti delle donne, dei lavoratori e dell’alfabetizzazione su larga scala. Sembra indicarci anche, in maniera esplicita, che finché non si creeranno condizioni di disponibilità di mezzi tecnici, crescita umana ed economica, stabilità politica e un minimo di giustizia sociale sarà difficile non solo sconfiggere la malaria, ma anche le altre grandi endemie del nostro tempo come la tubercolosi e l’Aids.


Frank M. Snowden, La conquista della malaria Una modernizzazione italiana, Einaudi Storia, Torino 2008, pp. 319, Euro 25,00

07 marzo 2009

"Donne Donne" di Marco Vichi


di Gianni Quilici


Marco Vichi è conosciuto soprattutto per la (fortunata) serie sul commissario Bordelli, di cui nulla ho (finora) letto.

Leggo invece Donne Donne e penso immediatamente a Bukowski (pure all'Henry Miller parigino, però, più barocco, più filosofeggiante) per il desiderio ossessivo verso le donne come corpo, come idea e perché il protagonista vive nel pieno della precarietà (a corto continuo di soldi, in un caseggiato malandato della periferia fiorentina, con romanzi e racconti non pubblicati), bevendo di continuo, fumando e scrivendo.

Poi, ancora di più, ci ho trovato John Fante per quella felicità esistenziale del vivere e del voler vivere con quel briciolo di ingenuità quasi adolescenziale di chi vede comunque, anche tra le precarietà e la depressione, un avvenire luminoso di scrittore famoso ecc, ecc.

Questa presenza di John Fante è confortata poi dallo stesso io narrante, Filippo Landini, che lo esplicita come modello e mito. Marco Vichi comunque non è imitatore, ma narratore vero, uno scrittore che ha in sé l'arte del raccontare. Uno scrittore vitalistico del filone che da Knut Hamsun arriva fino a Bukowski (e oltre). Per due ragioni.

Una stilistica. Nella prosa di Vichi c'è una tensione continua, che è lo stesso desiderio di vita del protagonista. I fatti si succedono spesso veloci in frasi brevi, spezzate. E' il tempo della ricerca del piacere, che ha come fulcro luminoso la donna, le donne: la donna scontrosa e fuggitiva, spregiudicata e seduttiva, attraente e verginale, annoiata e desiderosa, libera e trasgressiva, tragica e misteriosa.

Una costellazione di donne cercate, desiderate, inseguite, volute, possedute, lasciate. Non soltanto, però, un romanzo sulle donne, ma anche un romanzo sull'impossibilità di un piacere vero, profondo, che si sviluppi attraverso una storia che trasformi. In questo senso è un romanzo molto attuale, perché rappresenta nel profondo un processo ciclico di desiderio-consumo-dolore/indifferenza. Un consumo continuo, che lascia nevroticamente inappagati.

Non c'è però serialità in questa galleria di donne. C'è uno scrittore che conosce i suoi personaggi, li sa descrivere e far vivere nella loro carnosità e psicologia, anche quando sono fugaci comparse. Alcuni di questi personaggi sono indimenticabili: Aznavour e Porciatti, che, essendo figure maschili, hanno pure una maggiore continuità, ma anche le figure femminili si stampano nell'immaginario: Marina, l'amore irraggiungibile, scontrosa, selvaggia, imprevedibile, misteriosa o Barbara, colta, agiata, aperta, libera...

La seconda ragione del suo vitalismo è, per così dire, filosofica.
L'ideologia che percorre il romanzo è la vita come flusso di desideri da cogliere voracemente e da rappresentare. Vivere e scrivere insomma in uno spazio in cui muoversi liberamente. Senza gerarchie sociali, ma semmai con una fraterna (ma anche acida) solidarietà nei confronti dei più vitali tra coloro che vivono ai margini. Non esiste invece una responsabilità più collettiva. Non esiste la società organizzata, la società politica. Il mondo sembra racchiuso tra queste coordinate: l'io-le donne-lo scrivere-il successo. Qui dentro c'è luce, bellezza, movimento, disperazione.

Curioso il finale. Il romanzo sembra finito. Filippo Landini si trova a Parigi. Cerca Marina, fuggita a sua insaputa. La cerca. Non la trova. Incontra qualche altra donna. Compra un dolce arabo, arancione e appiccicoso. Lo mangia. “Nella mia testa non c'era più nessuna donna” racconta. “Se n'erano andate tutte. Tutte... tranne Anna”.
Qui potrebbe finire anche il romanzo. Il protagonista è rimasto solo e frustrato, però all'orizzonte c'è un nuovo desiderio. Invece no. Inizia un nuovo capitolo, inutile. “Alcune donne di Filippo Landini”, che mentre non aggiunge nulla toglie invece la risonanza del finale.

Marco Vichi. Donne Donne. Guanda. Pag. 295. Euro 16.00

"Il principio antropico" di John D. Barrow e Frank J. Tipler


di Emilio Michelotti


Stimolante librone a doppia lettura, una per “esperti” e una per chi, come me, ha solo curiosità “scientifiche”. Che ci raccontano i due insigni fisici? In primis che è necessario essere consapevoli dell’effetto di selezione conseguente alla nostra esistenza come homo sapiens: questo principio di selezione –esiste solo ciò che ci è possibile cogliere dal nostro punto di vista spazio-temporale-, è la versione basilare del principio antropico -nota come principio antropico debole (PAD). Questo, dicono, è in un certo senso un perfezionamento del principio copernicano: gli epicicli di Tolomeo sono superflui in quanto l’apparente anomalia del moto retrogrado dei pianeti era semplicemente dovuta a un effetto di selezione antropocentrico, determinato dal riferimento peculiare alla terra in movimento.

L’esistenza della vita sarebbe, se ci si basa sul principio antropico debole, strettamente connessa alla struttura globale dell’universo, alla sua grandezza, alla sua espansione, alla sua “età”: quindici miliardi di anni dal big bang permettono (obbligano?) la nascita della vita. Come il teorema dell’incompletezza di Godel e il teorema della fermata di Turing, anche il principio antropico mostra che la struttura osservata dell’universo è soggetta a restrizioni, dovute al fatto di essere osservata da noi; al fatto, per così dire, che l’universo osserva se stesso, e questo induce un effetto di selezione.

Ma perché le dimensioni del cosmo –e le nostre- non sono né casuali né il risultato di una selezione fra moltissime possibilità, ma sono obbligate? Perché sono conseguenze necessarie dell’equilibrio fra forze attrattive e repulsive, che possono essere considerate costanti di natura?

Se, ad esempio – spiegano gli autori - le intensità relative delle interazioni nucleare ed elettromagnetica fossero anche leggermente diverse da quelle osservate, in natura non esisterebbero atomi di carbonio e quindi neanche noi. Qualcuno (Carter) azzardò l’idea più metafisica che scientifica che l’universo deve esser tale da ammettere, a qualche stadio del suo sviluppo, la presenza di osservatori al suo interno – idea che rappresenta una dilatazione del principio antropico alle sue estreme conseguenze (il nostro è il migliore dei mondi possibili).

Tre tipi di universi possono essere pensati sulla base del principio antropico forte (PAF), ossia dell’idea già accennata che l’universo deve poter consentire lo sviluppo della vita, a qualche stadio del suo sviluppo:

1)- Condizioni iniziali diverse per il big bang portano necessariamente ad un universo diverso da quello da noi osservato dopo quindici miliardi di anni di espansione.

2)- Qualunque cosa abbia probabilità non nulla di accadere accadrà da qualche parte, anzi si verificherà un numero infinito di volte. Tutti i possibili universi –invisibili o non osservabili- distanti da noi oltre quindici miliardi non ci possono essere accessibili, ma potrebbero essere accessibili alla evoluzione di altri osservatori. Le teorie inflazionarie predicano che un universo infinito deve essere estremamente non uniforme oltre il nostro orizzonte degli eventi.

3)- La terza ipotesi è puramente speculativa, fondata sul considerare variabili i valori delle costanti fondamentali. In un universo ciclico-oscillante i valori potrebbero cambiare ogni volta che esso collassa nel big crunch (grande sgretolamento) prima di riemergere in una nuova fase di espansione.
Le teorie caotiche di Gauge tentano di dimostrare che un universo sufficientemente vecchio e freddo contiene inevitabilmente apparenti simmetrie o costanti di natura, che non esistono affatto nelle condizioni iniziali di alta temperatura.

Vi è una quarta classe di mondi possibili, che cerca di sfuggire ai paradossi connessi all’interpretazione della meccanica quantistica a partire dal ruolo dell’osservatore (se presupponga o sia incompatibile con un’impostazione cartesiana, questo non l’ho capito): è quella a molti mondi di Everett e Wheeler. Essa prevede la simultanea esistenza di infiniti universi, tutti ugualmente reali e tutti causalmente disgiunti.

Coincidenze fortuite o conseguenze inevitabili dei particolari valori assunti dalle costanti? Il fatto che la massa di un corpo umano sia la media geometrica tra la massa di un pianeta e la massa atomica, e che la massa di un pianeta sia la media geometrica tra la massa atomica e la massa dell’universo osservabile è sorprendente, ma queste apparenti coincidenze, secondo Barrow e Tipler, sono in realtà conseguenze dei particolari valori numerici delle costanti fondamentali che definiscono le interazioni gravitazionali ed elettromagnetiche. Al contrario, il rapporto tra raggio terrestre e distanza terra-sole sarebbe pura coincidenza, eppure, se tale rapporto fosse solo leggermente diverso, sulla terra non vi sarebbero osservatori.

Il nuovo “principio antropico ultimo” si lega all’ipotesi che la vita sia inestinguibile. E’ una teoria dalle implicazioni fantascientifiche: prevede la colonizzazione dell’intero universo/i ad opera del pensiero umano, sotto l’aspetto di macchine autoreplicanti cui la mente creatrice dell’uomo ha dato il via. Scienza e mito tornano a darsi la mano?

John D. Barrow/ Frank J. Tipler – Il principio antropico. Feltrinelli, Milano - 2002

06 marzo 2009

"V a u r o" di Gianni Quilici




Vauro (Senesi) è un vignettista geniale. Come lo è, per altri versi, Altan.
La genialità di Vauro è che la sua risata o sghignazzata o sorriso diventa ritratto psicologico ed insieme giudizio politico e morale, mai moralistico.

A differenza di Forattini, la sua vignetta non esprime odio o comunque astio, non è mai freddamente ideologica, perché ha un rapporto con i suoi “nemici” molto più complesso: li smaschera, li fa vedere per quelli che sono, oltre la maschera, nella loro cinica e spesso paradossalmente divertita spregiudicatezza.

Prendiamo la vignetta qui sopra: Berlusconi che scappa con la Costituzione.
Innanzitutto c'è un rapporto felice da fumetto appunto, tra il titolo (scatta l'allarme democratico) e la battuta di berlusca (cazzo, ero sicuro d'averlo disattivato), come pure nel disegno di un Berlusconi ladro, che fugge con la refurtiva sotto il braccio, mentre sta suonando l'allarme.
Un testo da fumetto, con un sottotesto invece da analista politico, che rappresenta l'attacco alla Costituzione italiana.

Il sentimento di Vauro verso il Cavaliere è però, scusate il termine, dialettico.
Per un verso affettuoso, perché coglie la furbizia, ma anche la disperazione del ladro; per un altro, e soprattutto, è spietato, perché ne coglie la mediocrità e la bassezza nel sotterfugio e nel raggiro.

Ne viene fuori paradossalmente un'indicazione politica che l'opposizione (quella che ha ed ha avuto potere) non ha forse capito e comunque non ha mai utilizzato.
Berlusconi, dice Vauro, è certamente astuto, ma pure è, in sé e forse anche per scelta, un mediocre. Come persona mediocre e ignorante andrebbe e andava trattato.

In conclusione: vignetta diretta, si capiscono subito testo e sottotesto, si sorride e la riflessione ha spesso un valore anche simbolico.

Vauro è, infatti, un vignettista militante che interviene con la matita e con il corpo sui giornali, in TV ( “Annozero”), nei paesi più disastrati ( Palestina, Afghanistan...). La feroce umanità dei suoi interventi nasconde (quando non esplicita) amore.

05 marzo 2009

Due testi-autori a confronto: Sigmund Freud e Franco Rella


di Emilio Michelotti


Ciò che infine ci custodisce
è il nostro essere senza protezione

Rainer Maria Rilke



A partire dallo scoppio della prima guerra mondiale e fino alla sua morte, avvenuta nel 1939, Freud, accanto alla revisione della dottrina delle pulsioni, va elaborando, con scritti come Psicologia delle masse e analisi dell’io, Il disagio della civiltà, Mosè e il monoteismo, una sorta di psicoantropologia, per la quale aveva già gettato le basi teoriche in saggi come Totem e tabù e, appunto, queste Considerazioni, del 1915.

Per Freud, almeno fino a questa data del tutto in controtendenza, l’istituzione statale, come tale, non è intrinsecamente violenta. Le radici della guerra vanno ricercate nella psiche individuale, nei moti pulsionali che albergano in ognuno di noi. Pulsioni, egli dice, né buone né cattive: è la “coercizione educativa” a combattere quelle che la società considera inclinazioni egoistiche e crudeli.

Ma l’educazione non sarebbe sufficiente se non trovasse un fondamento nell’erotismo, nel bisogno di amore, che insegna ad apprezzare di essere amati come un vantaggio, per il quale vale la pena di rinunciare ad altri vantaggi. Così le pulsioni egoistiche si trasformerebbero in pulsioni sociali.

Nel corso della storia l’azione della costrizione esterna avrebbe finito per costituire una predisposizione alla trasformazione dell’egoismo in socialità, che potrebbe essere progressivamente in aumento con l’evoluzione della civilizzazione. Ma, attenzione, la “buona condotta” è una “ipocrisia”, perché costringe a reprimere e ad inibire istinti basilari, che restano disponibili a cogliere ogni opportunità per manifestarsi. Potremmo, insomma, credere di essere più civili di quanto realmente siamo.

E’ nota la posizione freudiana sulle civiltà di massa: allorché le folle si riuniscono, è come se tutte le conquiste morali dei singoli fossero cancellate, “sicché rimangono solo gli atteggiamenti psichici più primitivi, più antichi e più rozzi”. Il carattere stesso dell’originario imperativo “non uccidere” non farebbe che dimostrare quanto forte sia la tendenza ad annullare l’altro, il nemico.

La guerra mette a nudo i desideri inconsci, ci libera dalle tarde conquiste della civiltà e lascia riapparire l’uomo primitivo e con esso l’odio dal “carattere primordiale”. Perché, ed è un punto decisivo, l’aggressività, stornata da oggetti esterni, si rivolge al soggetto sottoponendolo a una forte pressione interna. La guerra, l’aggressione verso l’altro, potrebbe essere una difesa contro la conflittualità interna, contro la sofferenza e lo squilibrio provocati da questa ed emersi al livello della coscienza.

Il tema freudiano della coscienza come territorio di scontro, come scudo protettivo contro gli stimoli interni ed esterni è ripreso ed ampliato da Rella: “Le pulsioni interne cercano di raggiungere una meta antica, seguendo vie ora vecchie ora nuove”. Vi sarebbero due gruppi di pulsioni, alla base dell’aggressività: uno che spinge al ripristino della condizione inanimata originaria, all’odio e alla morte, l’altro che spinge alla vita e al mutamento.

Il sistema della percezione cosciente sarebbe dunque nient’altro che una costruzione difensiva nei confronti degli stimoli esterni che potrebbero turbarne l’assetto. Anche gli stimoli interni (il ritorno del rimosso) verrebbero proiettati all’esterno e riconosciuti come stimoli esterni: “Questo”, dice Rella, “è il tempo della scienza e del progresso come noi lo conosciamo” (p.123). Figlia diretta del ritorno del rimosso – di ciò che pareva superato e vinto – è la coazione a ripetere che, invece, “ignora questo tempo, il tempo lineare e cumulativo della scienza”, ed è portatrice delle ragioni della sfera pulsionale inconscia, legata alle spinte verso la morte e l’inorganico.

“Se vuoi la vita prepara la morte”. Freud così conclude le Considerazioni attuali . Ogni formazione contiene di fatto anche ciò che vuol negare: la coscienza è anche il luogo dell’inconscio, del conflitto e della tensione. Riconoscere che le due pulsioni (i “due tempi” nella visione di Rella) – di vita e di morte – coesistono, significa riconoscere e articolare la morte non come conclusione di un percorso lineare, ma all’interno dello spazio vitale.

E’ una concezione che implica per la morte il riconoscimento di una co-presenza nel cuore stesso della vita. La meta di tutto ciò che è vivo è la morte, la quale sarebbe dunque lo stato di quiete cui tutti gli organismi tendono.

Si apre un territorio inesplorato: una “realtà che sfugge alla ragione della costanza e alla temporalità attraverso cui essa ha esercitato il suo potere” e si esprime per mezzo di un “turbamento”, uno “sgomento”, che è prodotto dal ritorno del rimosso, dal “costante ritorno dell’uguale”, dal prodursi e dall’irrompere della memoria involontaria sul presente

Questo ritorno del passato è “perturbante”: essendo pensato come superato e vinto, si presenta con la forza di una perversione delle leggi naturali. Esso è, invece, una “fuoruscita dall’ordine secondo cui veniva organizzata una rappresentazione del mondo, ritenuta per secoli (dalla ragione cartesiana in poi, potrei aggiungere) la sua immagine fedele”.

La rottura del tempo lineare, insiste Rella, diventa “spaesamento” con la scoperta della coazione a ripetere, una forza tanto potente (“demoniaca”, “più originaria”, “più elementare”, “più pulsionale”, dice Freud) da imporsi sopra il principio freudiano per eccellenza, il “principio di piacere” stesso.

Freud, sostiene Rella, si avvede che la perdita di fiducia nella linearità del progresso e della temporalità storica non può essere riparata ricorrendo al tempo ciclico: l’eterno ritorno nietzcheano non può uscire, dice Rella, dalla concezione di tempo storico, con le sue perdite e i suoi recuperi.

Ciò che emergerebbe, attraverso la figura della ripetizione del tempo operata dalla memoria involontaria (e il nesso con La Récherche proustiana mi pare evidente), dal ritorno del rimosso che è figura del doppio e del sosia, è la morte dell’io come principio ordinatore unitario del mondo. Il tempo del ritorno del rimosso agisce spaventosamente, perché oppone al soggetto parti di sé che l’Io pensava aver definitivamente dominato. E queste parti non agiscono come memoria rassicurante del passato, ma penetrano dolorosamente nella nostra esistenza presente.

Il ritorno agisce come natura collettiva e sociale: è lo spaesamento che si produce quando convinzioni primitive, pulsioni antisociali, aggressività mimetiche trovano nuovi canali di esternazione, ossia quando la legge del “così fu” sembra infrangersi.

Ecco come interviene la scrittura nietzscheana nella convinzione – ancora legata alla “ragione classica”, dice Rella, - che l’indicibile (ciò che è “il peso più grande”) debba far ricorso alla letteratura e all’arte, al linguaggio e alla parola di una “via trasversa”, perché non esistono parole per formulare un altro pensiero.

Se il passato superato e vinto ritorna vuol dire che non è stato annientato. Ma la possibilità di redenzione del passato che si basi su una “volontà di volere” (nella definizione di Heidegger) a ritroso, risulta a Nietzsche il più arduo dei pensieri. In effetti il tempo ciclico, insiste Rella, non è alternativo alla linearità: nella storia tempo lineare e tempo ciclico si sono alternati o sono addirittura coesistiti.

Zarathustra ha sperimentato il tempo della ripetizione temporale e ne è rimasto sgomento, ma uno sgomento ancora più grande è l’impossibilità di costruire un sapere su questa esperienza. Il tentativo di Freud è nel segno di un ritrovamento del tempo perduto che sciolga a livello di coscienza il conflitto fra le divaricanti pulsioni di vita e di morte, entrambe legate ad eros e ad una aggressività interna proiettata come esterna.

La via della scelta pacifista, di una “intolleranza costituzionale alla guerra” non sarebbe dunque né “naturale” né facile. L’interiorizzazione dell’aggressività, uno dei caratteri psicologici collettivi indotti dalla civiltà, è irto di pericoli, ma di fronte al “timore degli effetti di una guerra futura” (ora siamo perfino di fronte alla possibilità della catastrofe nucleare), non c’è tensione interna per quanto dolorosa che non sia accettabile.

Sigmund Freud – Considerazioni attuali sulla guerra e la morte.Roma, Editori Riuniti, 1982
Franco Rella – Il silenzio e le parole. Il pensiero al tempo della crisi. Milano, Feltrinelli, 1981

01 marzo 2009

"Meno male che i conigli non parlano" di Anna Maria Bagordo


di Luciano Luciani


Genere letterario antico, la favola. Affonda le sue radici nel mondo greco, in brevi narrazioni risalenti al VII-VI secolo a. C. Sembra ne fosse autore Esopo, uno schiavo frigio che, dopo un’esistenza avventurosa e vagabonda, sarebbe stato condannato per furto sacrilego e giustiziato in quel di Delfi. Un’accusa falsa e una fine ingiusta che, come narra la leggenda, mosse addirittura lo sdegno di un dio, Apollo, il quale volle risarcire l’umile affabulatore diffondendone la fama e rendendo immortali i suoi scritti. Un dono divino confermato ancora mezzo millennio più tardi dalla imitazione dei testi esopiani operata da Fedro, anch’egli greco di origine ma romano d’adozione, in un latino semplice e popolare.

Palese l’intenzione pedagogica dei due autori; pratica la morale enunciata, fondata su un’idea di giustizia tanto semplice quanto ostile a ogni arbitrio dei potenti; simpatici e accattivanti i protagonisti in genere, ma non solo, gli animali della vita quotidiana a cui tocca il delicato compito di simboleggiare i vizi e le virtù degli uomini. Queste le caratteristiche in cui la favola si riconosce e con cui si prepara ad attraversare i secoli.

E se il medioevale Roman de Renard ci offre una rappresentazione vivace e penetrante della società del suo tempo e dimostra di essere in grado di criticare i costumi feudali e le convenzioni religiose e giuridiche, le Favole di La Fontaine bussano senza complessi alle porte del ‘secolo dei lumi’, condividendone razionalismo e pedagogismo. Non si trascuri, poi, la facilità e felicità con cui questo genere letterario riesce a contaminarsi della modernità del Novecento nei versi romaneschi facili e moraleggianti di Trilussa.

Anna Maria Altamura, è una scrittrice che, beata lei, non ha perduto il gusto della favola, non ha rinunciato ai diritti della fantasia e, secondo la migliore tradizione del genere, ama ancora “immaginare animali che parlano per insegnarci un comportamento civile e corretto”.

Attori riconosciuti delle sue pagine, i conigli, raccontati in una maniera nuova e originale: non le bestiole inermi, figurazione esemplare della timidezza se non della pavidità e neppure gli animali rivisitati in chiave epica e agonista dal celebre romanzo di Richard Adams, La collina dei conigli, a metà strada tra Tolkien e Orwell.

No, i protagonisti indiscussi della favola aggiornata all’oggi raccontata dall’ Altamura sono due conigli di ceto medio, due piccoli borghesi in tutto e per tutto intrisi dei modesti difetti e delle mediocri qualità morali della classe sociale attualmente maggioritaria nella parte fortunata del pianeta. Si tratta di animali sinantropi che vivono in relazione all’uomo, con esso e per esso e senza sarebbero perduti. Certo, più saggi, più equilibrati, più generosi, appaiono migliori dei loro ‘umani’ di riferimento sempre superficiali, disattenti, egoisti. Le donne e gli uomini si mostrano solo capaci solo di proiettare un cono d’ombra di negatività sull’ordinaria epica quotidiana che coinvolge tutti gli animali di casa: Arturo e Clotilde, innanzitutto, gli eroi di questa storia, una coppia di conigli “uno grigio e l’altra nera con il musino, la codina a ventaglio, le zampe e il contorno degli occhi bianchi”; Pucci, “una coniglietta tutta nera,con un pelo arruffato dietro la testa che sembrava un pavone, vivace e caotica” destinata a diventare la tragica eroina di questa nostra storia; Matilde, cagna “di una razza strana, piccola e tutta bianca con due orecchie che sembravano finte e un pelo folto come un peluche”; e poi, Jago, il gatto certosino, ambiguo e aggressivo; Oreste la Peste, topino senza complessi; i passeri Cipo e Cicci; Anselmo il pesce rosso; i piccioni Tartaglia e Gastone; Gustavo il pappagallo…Un vero e proprio zoo domestico, che ora esiste e si muove autonomamente secondo dinamiche proprie, ora, anche attraverso alcuni pungenti riferimenti all’attualità, si rimodella sui comportamenti del mondo degli uomini come sono o come sono diventati, qui e ora.

E sotto gli occhi di un Lettore sempre più incuriosito e partecipe, l’Autrice fa vivere e morire i suoi piccoli animali, liberi o in gabbia, altruisti o meschini, sciocchi o assennati, coraggiosi o vigliacchi…Proprio come gli uomini!
Una favola adeguata ai nostri tempi Meno male che i conigli non parlano…E che, quindi, non può risolversi in un improbabile lieto fine. Tocca a Pucci, la coniglietta nera che nel suo cuore non aveva mai cessato di accarezzare un irrealizzabile sogno di autonomia dalla gabbia e dai padroni, il compito di porre al lettore la ‘morale della favola’: la libertà, quella larga, piena, senza vincoli né limiti, è impraticabile? Forse ai conigli (ai conigli?) non rimane che rassegnarsi a un destino di supina, satolla subalternità?

Una filosofia, quella proposta dall’Altamura, che potrebbe apparire sconsolata e malinconica se, quasi a correggerla e a ridimensionarne la portata negativa, l’Autrice non avesse chiamato a interpretarla proprio i conigli, animali da sempre e in tutte le mitologie simbolo del rinnovamento perpetuo della vita, e quindi della speranza, in tutte le sue forme.

Anna Maria Bagordo Altamura, Meno male che i conigli non parlano, Giovane Holden edizioni, Viareggio (Lu) 2008 , Euro 10,00


Anna Maria Bagordo Altamura, leccese d’origine, lucchese d’adozione, ha insegnato per molti anni nella città toscana. E’ autrice di romanzi, racconti, favole, poesie, confortata nella sua attività letteraria da numerosi premi e importanti riconoscimenti. Nel 2001 per Manni ha pubblicato E venne Angelo…, nel 2006, per Maria Pacini Fazzi Acquerugiola, una silloge di poesie; nel 2007 per Giovane Holden edizioni di Viareggio, Mercante di parole, una raccolta di racconti e, in questo 2008 e sempre per la casa editrice viareggina, Vecchio?... No, grazie!, un viaggio tra emozioni, pensieri, riflessioni in libertà per non invecchiare.

Maurizio Gasparri


di Gianni Quilici


Non è vero che Maurizio Gasparri non sia intelligente.
La sua è un'intelligenza rassegnata.
Rassegnata alla stupidità. Filosoficamente, si potrebbe definire, una falsa coscienza.

Lui sa che deve assumere un ruolo, quel ruolo. Assumere le opinioni da bar quelle più becere, eliminando qualsiasi minimo confronto con la propria onestà intellettuale.
A Gasparri, infatti, non interessa quello che tu pensi (cioè che tu lo possa consideri stupido); non parla con te, non si confronta, parla con quel senso comune di cui, oggi più di ieri, sa di poter avere il consenso. Qui paradossalmente sta la sua forza...

A volte, però, esagera: le sue dichiarazioni sono così becere, che forse stupiscono pure i suoi colleghi, che lui (ben) rappresenta. Come quando, dopo la vittoria di Obama, dichiarò: “Con Obama alla Casa Bianca Al Qaeda forse è più contenta». E non ha il potere e l'abilità di Berlusconi, che nella volgarità è imbattibile, ma pure nel rabberciarla.

E infine il suo volto esprime come pochi altri la leggerezza dell'inconsistenza con un sorrisino che, ogni tanto, affiora come per dire all'occasionale avversario: “Te l'ho fatta!”

Faccio autocritica. Gasparri non è intelligente, è furbo, anzi vuole essere furbo. Ed è un'altra cosa. Di quella furbizia disgustosa...