27 dicembre 2008

"L'anulare" di Ogawa Yoko


di Gianni Quilici

Ciò che affascina in questo breve romanzo di questa giovane giapponese Ogawa Yoko (Okayama 1962) sono due elementi in apparente contrasto tra loro: da una parte c'è una scrittura lineare, essenziale e tradizionale in una storia che può apparire anche dimessa, perché resa al massimo grado naturale e, seppure strana, verosimile; dall'altra invece questa stessa storia si fa sempre più enigmatica ed inquietante fino a sfiorare immaginativamente, senza però mai rappresentarlo, l'horror, e, ciò che più conta, a prefigurare una metafora aperta a diverse letture (cioè ambigua) della società contemporanea e nipponica innanzitutto.

Ogawa Yoko tratteggia benissimo la protagonista: una giovane ragazza, timida e sottomessa, che ha subito una piccola amputazione all’anulare e che si trova segretaria di un laboratorio alquanto strano; invece il signor Deshimaru, proprietario del laboratorio rimane, enigmatico e inquietante, nell'ombra: forse mostruoso orchestratore, forse dotato di potere ipnotico. Il laboratorio, un palazzo fatiscente, carico di ricordi e di stanze, è lo scenario in cui il signor Deshimaru trasforma oggetti normali della vita quotidiana, che persone normali portano al laboratorio, in “esemplari” simili, simboli a testimonianza imperitura.

Un romanzo che ci trascina dentro un'atmosfera allucinata e folle nel modo più efficace: lasciandoci alla soglia e facendoci soltanto immaginare...
Immaginare non soltanto “cose orripilanti”, ma ciò che noi siamo o ciò che possiamo diventare: strumenti in mano a “qualcuno”, che può soggiogarci e da cui desideriamo essere soggiogati. Qui ci si potrebbe “perdere” in un reticolato di discorsi sociologici...

Ogawa Yoko. L’anulare. Traduzione di Cristiana Ceci. Pag. 103. Adelphi, Milano 2007. € 9.

25 dicembre 2008

"Un terribile amore per la guerra" di James Hillman


di Emilio Michelotti

Gli estimatori di James Hillman sanno che dal grande vegliardo della psicoanalisi americana non devono aspettarsi rigore e scientificità. Anche in questa recente fatica balzano in primo piano più che ineguaglianze e ingiustizie, nazionalismi e imperialismi, figure archetipiche capaci, a suo dire, di condizionare l’umano agire.

Come in René Girard, l’opzione per la pace di Hillman non nasce da una visione ottimista della ‘natura umana’, anzi. Per entrambi, seppure – mi pare - con differenti scrupoli di legittimità, antropologica, violenza e sacro – considerati costruttori della civilizzazione della ‘scimmia nuda’ – si identificano.

L’invito provocatorio è quello di aprire gli occhi su questa terribile verità: la guerra sarebbe pulsione primaria e ambivalente, dotata di una carica libidica al pari dell’amore e della solidarietà. Ogni scelta pacifista sarà vana finché Ares non verrà riconosciuto come forza primordiale accanto ad Afrodite.

Più che un’incarnazione del Male la guerra è, per Hillman, una costante costitutiva dell’umanità, in grado di determinare il nostro comportamento tanto più potentemente quanto più ne rinneghiamo la cogenza.

James Hillman, Un terribile amore per la guerra, traduzione di Adriana Bottini, Adelphi Edizioni, Milano 2005.

22 dicembre 2008

"Franny e Zooey" di J. D. Salinger


di Gianni Quilici

Confesso una prevenzione. La prevenzione che Salinger avesse scritto un solo (forse perché mitico) romanzo “Il giovane Holden”; e che gli altri si potessero ignorare.

Mi è successo di trovare su una bancarella questo Franny e Zooey per pochi euro; l'ho comprato comunque curioso, non capivo se erano due romanzi brevi o uno solo, ho iniziato subito a leggerlo e ne sono rimasto subito attratto.
[L'attrazione nasce da questo: il romanzo ti tira, non sei tu che devi tirarti il romanzo].

Eppure la storia è esilissima, non c'è una vera trama, non succede niente di rilevante da un punto di vista drammaturgico. C’è la crisi mistica di Franny, una ragazza appartenente ad una numerosa famiglia di origine irlandese composta di ex bambini prodigio. Ci sono i dialoghi tra Franny e suo fratello Zooey, tra Zooey e sua madre e l’impalpabile presenza degli altri fratelli e sorelle.

Ma cosa mi ha attratto?
Lo scandaglio psicologico. Franny, la ragazzina fragile e bellissima che Lane, il (suo) ragazzo aspetta alla stazione, non è soltanto rivelata nella sua profondità, ma questa profondità è radicale, costretta quasi senza volerlo a non accettare le approssimazioni concettuali e esistenziali di Lane. Salinger ce la presenta nella sua impossibilità dolorosa di comunicare con il ragazzo, a cui pure tiene-teneva tanto.
Con il fratello di lei, Zooey, la radicalità si moltiplica fino a diventare quasi delirante. Zooey è spietato nello smontare e distruggere sadicamente le ragioni che stanno dietro le parole ed i comportamenti falsamente intellettuali, falsamente religiosi fino, però, a diventare esso stesso vittima della sua capacità introspettiva.
Ciò che emerge in generale è la famiglia Glass, non omologabile, anzi “unica” con una madre volitiva e petulante, ed una serie di figli, oltre Franny e Zooey, di cui si parla, ma che non appaiono, uno di essi, non potrebbe: si è suicidato.

Questo scandaglio psicologico è intrinseco a uno stile inconfondibile, di cui vorrei sottolineare almeno due elementi:
i dialoghi, che sono spesso concettuali, investono la cultura, la psicologia, la religione;
e la scomposizione in dettagli di sguardi, movimenti, pensieri con una successione foto-cine-fotografica di immagini visive o psichiche, che vanno in zone oscure della psiche, poco definibili.

Se non si coglie questa psicologia comportamentale la narrazione può apparire pesante o poco scorrevole; in realtà fornisce invece quegli elementi di psicologia del profondo, che rendono articolati, sorprendenti e appassionanti i personaggi e le vicende stesse.

Jerome D. Salinger. Franny e Zooey. Traduzione di Romano Carlo Cerrone e Ruggero Bianchi. Einaudi 1979, 176 pag. € 13.50.

Il pianoforte come solista

di Nicola Amalfitano

In epoca preromantica, il clavicembalo perde gradatamente importanza come strumento solista, dal 1750, poi, viene definitivamente soppiantato dal pianoforte che realizza i nuovi ideali stilistici di valorizzazione dell'intensità e della cantabilità dei suoni.

Dal punto di vista tecnico, in quanto strumento a corde percosse, il clavicordo, piuttosto che il clavicembalo, è l'antenato del pianoforte; tra i costruttori si sperimentano innovazioni per adeguare il clavicembalo alle nuove esigenze dei compositori e, infine, Bartolomeo Cristofori, ai primi del '700, inventa il "gravicembalo col piano e forte". Si tratta di un clavicembalo opportunamente modificato nella tavola armonica e nella tastiera, le corde non vengono pizzicate, ma sono colpite da appositi martelletti in modo da adeguare l'intensità sonora in funzione della forza applicata. La strada è ormai segnata e il pianoforte, in breve tempo, assume forma e struttura ben definite, pressoché simili a quelle attuali. Nel corso degli anni si apportano migliorie per irrobustirne la struttura e rendere più efficiente la cassa armonica, le corde aumentano di spessore e di lunghezza; risultano essenziali le modifiche introdotte verso il 1780 da Silbermann e da Andreas Stein, suo allievo.

Intorno al 1750 non esiste ancora una scrittura specifica per pianoforte, i compositori si limitano a trascrizioni di brani originariamente scritti per clavicembalo; i due figli di Bach, Johann Christian e Carl Philipp Emanuel, rappresentano una prima fase tendente al rinnovamento, ma le loro partiture ancora risentono dello stile galante.
Haydn e ancor di più Mozart, riservano una maggiore attenzione virtuosistica al nuovo strumento.
Muzio Clementi è, finalmente, il primo compositore a dare una connotazione propria alla scrittura per pianoforte; il suo stile ricco di sonorità, dinamismo, contrasti, segna il passaggio dall'età di Haydn e Mozart a quella di Beethoven; significativa è l'opera "Gradus ad Parnassum".
Con Beethoven, il pianoforte acquista una dimensione "orchestrale". Come nelle sinfonie, Beethoven cerca nel pianoforte sonorità altrimenti impensabili nel clavicembalo, va alla ricerca di nuove e poderose forme espressive, le scale, gli arpeggi, gli accordi a volte lasciati in sospeso, non sono virtuosismo di moda, ma esprimono tensioni e sentimenti di un animo che cerca nella musica la sua liberazione.
Il romanticismo rappresenta il periodo d'oro per il pianoforte: i compositori sperimentano nuove espressioni, vanno alla ricerca di sonorità sempre più raffinate, si cimentano in ardui virtuosismi, caratteristica di questo periodo è la figura del virtuoso, interprete e compositore, come Chopin e Liszt.
L'impressionismo pone fine alla figura del virtuoso e porta alla ribalta musicisti tra i quali spicca Debussy: il pianoforte è come un pennello, con tratti brevi, fuggitivi, quasi indefiniti, si trasmettono all’ascoltatore impressioni, emozioni, sensazioni legate alla natura.
Sul finire dell'ottocento, nel mentre si riduce l'interesse dei compositori, il pianoforte solista trova nuove affermazioni nelle nascenti espressioni musicali del ragtime, del blues, del jazz.

17 dicembre 2008

"Il mondo è una prigione" di Guglielmo Petroni


di Gianni Quilici

Sorpresa! Un romanzo scritto da Guglielmo Petroni (Lucca 1911- Roma 1993) nel 1945 e pubblicato, dopo diverse traversie editoriali, nel 1948 da Mondadori, che non è stato -per quello che ne so- “letto”, “stampato” “caldeggiato” per le scuole, come si dovrebbe, e che conserva intatto, dopo 60 anni dalla sua comparsa, la sua forza visiva, morale e politica.

Ed è proprio per questo -per la sua asciutta, profonda, inesorabile ricerca della verità innanzitutto in se stessi- che il romanzo è stato criticato e osteggiato dalla cultura della sinistra. Qualcuno disse che trattava la lotta di liberazione «con un'ombra di disfattismo». Per Petroni fu un colpo durissimo: «Ciò rappresentò un dolore per me che la Resistenza l'avevo fatta nel segno del Partito comunista. La rivista Rinascita pubblicò addirittura un articolo dove si affermava che questo libro era una specie di denigrazione della Resistenza».

È un breve romanzo, composto da dodici capitoli titolati. Ogni capitolo, una sequenza.

A leggerlo si rimane colpiti da due aspetti, che integrandosi, sono oggi segno della modernità del romanzo, mentre allora venivano condizionati dalla “ideologia resistenziale”.

Il primo aspetto: la rappresentazione cruda e nello stesso tempo ricca di personaggi.
Due esempi. Il ritorno a casa dopo la prigionia, da Roma a Lucca. Qui si colgono la miseria e la distruzione diffusa dalla guerra, fino a toccare l'apice: sopraggiunge la notte, lo scrittore affamato, sfinito con le gambe che gli si piegano, con il freddo crudele, non trovando nessuno che lo ospiti, neppure in una capanna, decide di sdraiarsi all'aperto sotto una tettoia, quando improvvisamente appare un cane nero enorme, ringhioso, che gli si avventa addosso...
E poi, i capitoli sulle (luride) carceri in cui viene rinchiuso, dove è sottoposto a interrogatori e a torture interminabili. «Furon tre giorni d'interrogatorio quasi ininterrotto - scrive Petroni nel romanzo - tre giorni snervanti i quali mi diedero stranamente una specie di forza che mi pareva di avere del tutto perduta dentro la cella. Ora erano cortesi e perfino affabili, ora chiamavano un energumeno col petto ricoperto di medaglie e di croci, mi mettevano bocconi su una scrivania e mi frustavano ridendo come se facessero per giuoco»

Il secondo aspetto è quello più originale e moderno: ed è il malessere di vivere. Quando Petroni, il 3 giugno, esce dalle carceri, paradossalmente non sente nessuna soddisfazione, anzi, sente la nostalgia dei giorni trascorsi, uguali, lenti, pieni di noia e di sonnolenza in prigionia. Perchè dietro la libertà c'è una vita tutta da rifare, perché la guerra e le tragedie sociali non erano soltanto fuori di lui, ma pure dentro, in mezzo ai segreti più intimi. Il primo passo per ritrovare la vita era da ricercarsi, secondo Petroni, nella profondità della nostra tradizione e storia.

Insomma Guglielmo Petroni scrive un romanzo politico (sulla Resistenza attraverso la prigionia) ed insieme esistenzialista. Un romanzo che non dice soltanto, ma rappresenta, dietro cui si scorge un esistenzialismo radicale di chi non rinuncia alla verità con se stesso. Ecco la ragione per cui si può leggere oggi, dopo 60 anni, e sentirlo vivo come allora.

Guglielmo Petroni. Il mondo è una prigione. Postfazione di Stefano Giovanardi. Universale Economica Feltrinelli. Pag. 118. € 7,00.

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11 dicembre 2008

L'opera buffa

di Nicola Amalfitano

L'opera buffa vede le sue origini in Italia, con Napoli e Venezia fra i maggiori centri di sviluppo; grazie all'introduzione di significative innovazioni quali il canto simultaneo di vari personaggi, la valorizzazione dei diversi ruoli vocali, il dinamismo del discorso musicale, svolge in tutta Europa un ruolo importante nel processo di evoluzione del teatro d'opera.

I primi tratti dell'opera buffa, detta anche commedia per musica, si manifestano agli inizi del 1700 quando, tra un atto e l'altro del melodramma, si intrattiene il pubblico con "intermezzi", ovvero brevi spettacoli a soggetto popolare accompagnati da musica allegra.

Dapprima sono brevi dialoghi con spunti comici, a volte grotteschi, che coinvolgono il pubblico borghese in quanto propongono i semplici modelli della vita quotidiana; presto, però, gli intermezzi si strutturano in genere teatrale a se stante. A differenza dell'opera seria che adotta stereotipi aristocratici e mette in mostra il potere e la ricchezza, l'opera buffa porta sulla scena personaggi che il pubblico ben conosce perché fanno parte della sua realtà quotidiana. I cantanti non impersonificano eroi mitologici o cavalieri di corte, bensì raffigurano persone vere, tratteggiate nel loro usuale modo di vivere. Si evidenziano le caratteristiche e gli aspetti tipici delle figure messe in scena e le forme musicali, vivaci, briose, tengono ben desta l'attenzione del pubblico. I personaggi sono oggetto di enfasi ironica ed i singoli ruoli vocali vengono calzati sulla tipicità del personaggio per rappresentarlo nel modo più comico possibile; ecco, quindi, apparire sulla scena il servo imbroglione, il vecchio avaro, la servetta che vuole spadroneggiare, il maestro di musica intrigante. Alla struttura fastosa e imponente dell'opera seria, la "commedia per musica" contrappone forme e strutture snelle e vivaci, orchestrazione ridotta, contrasto tra le voci e l'uso predominante del recitativo sulle arie.

Tra le prime espressioni dell'opera buffa è da menzionare assolutamente "La serva padrona" di Giovanni Battista Pergolesi; ancora sono da ricordare Niccolò Piccinni con "La Cecchina" su libretto di Carlo Goldoni, Giovanni Paisiello con "Nina ossia La pazza per amore" e Domenico Cimarosa con "Il matrimonio segreto". Sul finire del 1700, l'opera buffa attenua le sue caratteristiche di comicità con l'inserimento di momenti di malinconia e di lirismo; nel 1780 si parla ormai di melodramma giocoso e a questa tipologia possiamo riferire "Le Nozze di Figaro" e il "Don Giovanni" del grande Mozart. Con "L'elisir d'amore" del 1832 di Gaetano Donizetti, possiamo considerare ormai definitivamente chiusa l'esperienza dell'opera buffa; Gioacchino Rossini, con "L’italiana ad Algeri", "Il barbiere di Siviglia" e "La Cenerentola", costituisce il trait-d'union tra l'opera buffa e il melodramma ottocentesco.

10 dicembre 2008

"Come le mosche d'autunno" di Irène Némirovsky


di Gianni Quilici
Iniziandolo a leggere ho pensato “non mi piace”, perché d'istinto non amo la nostalgia, che trovo un sentimento che falsa il passato e che fa, quindi, vivere in un presente discutibile.
Tuttavia a fine lettura mi sono ricreduto.

“Come le mosche d'autunno” è un romanzo autobiografico e non lo è.
Per un verso, infatti, Irène Némirovsky sceglie come protagonista una vecchia nutrice e questo le consente di filtrare la sua storia attraverso altri occhi. La vediamo all'inizio benedire i giovani rampolli di quella famiglia quando partono baldanzosi per la guerra, assistere all’uccisione di uno di loro durante la rivoluzione russa; correre, con i gioielli cuciti nell’orlo dell’abito, dai padroni a Odessa, dove sono scappati; ed infine trasferirsi a Parigi in un mondo che non riconosce, da cui si sente profondamente estranea.

Per un altro verso, però, questa è anche la storia della scrittrice stessa, nata a Kiev nel 1903, fuggita con la famiglia in Francia nel 1919 e morta ad Auschwitz nel 1942.

La figura della vecchia nutrice consente tuttavia a Irène Némirovsky di proiettare sentimenti e pensieri che in buona parte, sono stati anche dell'autrice, ma tenendoli a distanza.

La Némirovsky dà alle stampe, in Francia nel 1931, Come le mosche d’autunno, scolpendolo in pochi capitoli di nemmeno 100 pagine.
La forza di questo breve romanzo risiede in almeno tre ragioni.

1) La protagonista è ben delineata nei suoi sentimenti dominanti:
l'amore di chi si identifica totalmente nella famiglia aristocratica, che ha sempre servito da due generazioni e che le consente di schierarsi, senza alcuna ombra, contro la rivoluzione russa; la nostalgia profonda verso un passato che non c'è più e l'impossibilità di poterlo far risorgere; l'angoscia infine per non ritrovare più a Parigi ne' gli inverni russu con la neve, con il fiume ghiacciato, ne' la vecchia famiglia nobile e fiera, che aveva vissuto e che ora era inesorabilmente cambiata: rumorosa e sciatta.

2) Il finale con la morte della vecchia nutrice, è splendido sia per la sua lapidarietà, sia perché delinea una fine più grande: la morte di un mondo, quello aristocratico ebreo-russo.

3) Infine, scegliendo come protagonista l'occhio della nutrice, Irène Némirovsky costruisce un romanzo per sottrazione, eliminando moltissima parte degli avvenimenti storici (guerra e rivoluzione), ma facendoceli percepire intimamente.

Irène Némirovsky. Come le mosche d’autunno (Les mouches d’automne). Traduzione di Graziella Cillario Adelphi, 2007.

08 dicembre 2008

Tra Barocco e Romanticismo

di Nicola Amalfitano

Intorno al 1750 si diffonde in Europa il cosiddetto stile classico, che mira a valorizzare l'armonia con forme semplici ed ordinate; si parla anche di classicismo viennese in quanto la città di Vienna diventa il punto di riferimento per tutti i musicisti dell'epoca.

Abbandonando le ultime espressioni della musica barocca, lo stile galante o “Rococò”, in Francia e lo “Stile Espressivo”, in Germania, i compositori classici puntano all'equilibrio delle parti ponendo nuova attenzione all'armonia e alla melodia. Nel periodo barocco, il singolo movimento era rappresentato da un soggetto che veniva enunciato all'inizio e poi elaborato e articolato mediante ripetizioni in sequenza; adesso, invece, siamo in presenza di fraseggi più articolati, capaci di generare nel singolo movimento un'ampia gamma di contrasti. Il Classicismo ingloba e supera le strutture e le forme del Rococò e dello stile Espressivo; pone l'accento su forme pacate esprimendo un linguaggio organico, rispettoso delle proporzioni. La melodia, il ritmo, l'armonia, sono trattati con equilibrio secondo lo schema strutturale noto come “forma sonata”. Da questo schema si sviluppano le sonate, i quartetti e le sinfonie. Anche nella musica vocale i compositori mirano all'equilibrio fra musica e dramma, sicché i cantanti lirici non hanno più grande libertà di improvvisare virtuosismi.

In pieno Illuminismo, la musica, oltre al pubblico rappresentato dalle corti aristocratiche, vuole raggiungere una platea molto più vasta di ascoltatori, soprattutto quelli provenienti dalla borghesia emergente, che sempre più peso acquista nella vita pubblica. Il Classicismo semplifica le strutture musicali liberandole dalle complicazioni tecniche allo scopo di farsi comprendere da tutti, non solo dai tecnici; la musica deve raggiungere il cuore e la mente degli ascoltatori. Assistiamo, quindi, non solo alla formazione di un nuovo pubblico, ma anche alla nascita di un mercato musicale determinato dal declino del mecenatismo musicale. Aumentano i luoghi deputati all'esecuzione musicale; oltre che nei teatri, nei palazzi nobiliari, nelle chiese, adesso si fa musica anche nei caffè, nei salotti della borghesia e nelle sale da concerto. Gli organici strumentali devono tener conto delle nuove esigenze, di conseguenza si ampliano in funzione degli spazi e delle nuove forme musicali; nell'orchestra scompare il clavicembalo, sostituito prima dal fortepiano e poi, definitivamente, dal pianoforte; l'orchestra sinfonica si arricchisce di nuovi strumenti: i clarinetti e i timpani.

Tra i tanti compositori di questo periodo sono da ricordare gli italiani Boccherini, Cherubini, Paganini e ancora Stamitz e C.P.E. Bach. Le figure dominanti sono costituite da Haydn, Mozart e Beethoven; quest'ultimo per il suo carattere di libertà e indipendenza e per l'uso frequente delle tonalità minori in senso tragico, anticipa quello, che dopo il congresso di Vienna, sarà il romanticismo musicale.

"BATTLE COMPANY" di Tim Hetherington

di Gianni Quilici

Quando entro nei sotterranei di Villa Bottini per la mostra “Battle company”di Tim Hetherington ho già visto dell'autore lo scatto premiato come migliore foto dell'anno 2008, dal World Press Photo. Di questa immagine avevo pensato che sì, è certamente una buona foto, perché attraverso lo sbadiglio di un soldato sul fronte di guerra si intuisce tutta la stanchezza e desolazione di essa, ma allo stesso tempo mi era sembrata troppo minimalista rispetto ad altri scatti presenti nella Mostra, che presentano una maggiore complessità di segni fotografici e di senso esistenziale. E devo dire che “Battle Company”, 2° battaglione aviotrasportato della fanteria americana impegnato in Afghanistan, ha suffragato, almeno in parte, questa mia impressione.

D'accordo, le foto di Tim Hetherington sono scattate nel teatro di una guerra tra le più atroci, l'Afghanistan al confine con il Pakistan, “epicentro della lotta americana contro i militanti dell'Islam”. Sono, quindi, immagini non soltanto coraggiose, ma importanti, perché rappresentano un conflitto che le grandi potenze hanno interesse a celare.

D'accordo, ci sono altri buoni scatti: i ritratti, i soldati che in circolo scavano la terra, l'uomo che tiene in braccio il bimbo gravemente ferito, il soldato che fugge...

Ma nel complesso mi pare che, in molti casi, non si vada oltre la semplice documentazione. I soldati che si arrampicano, i bimbi sdraiati per terra vicino alla scuola, il soldato che osserva la casa distrutta, la Valle del Pesh River in campo lunghissimo ecc, ecc, sono foto che descrivono situazioni fuori dall'ordinario, ma senza interpretarle, senza darne un senso più alto.
Basta fare una controprova: eliminiamo un oggetto senza grande importanza, che richiami la guerra come la semplice divisa. Quello che rimane ( i volti, il taglio dell'inquadratura, il contesto ambientale, i contrasti cromatici ) non è che prenda, che in qualche misura ti colpisca, che ti faccia pensare oltre, che ti commuova. Documenta. Informa.

Tim Hetherington. "Battle company". Mostra fotografica del LUCCA Photo DIGITAL fest.
Villa Bottini, Lucca. 22 novembre-8 dicembre 2008.

"FOTOGRAFIE" di Alex Webb

di Gianni Quilici
E' un piacere degli occhi e di una mente, che non si accontenta di un primo superficiale sguardo, la Mostra “Fotografie”, che il grande fotoreporter americano Alex Webb ha presentato in anteprima nazionale a Villa Bottini per il LUCCAphotoDIGITALfest.

Lo si intuisce anche da ciò che lo stesso Webb scrive nella presentazione della mostra:
“L'unica cosa che so fare, è saper affrontare un luogo camminando. Questo è ciò che fa un fotografo della strada: cammina, osserva, aspetta, parla, e poi guarda e aspetta ancora un po', cercando di non perdere mai la certezza di trovare subito dietro l'angolo qualcosa di inatteso, di sconosciuto, oppure di nascosto di cose che conosce già”.

Ci sono qui alcuni aspetti che bene lo evidenziano come fotoreporter: la strada, il camminare, i luoghi, la pazienza e lo sguardo. Lo sguardo è formidabile. Ci sono delle foto che hanno del prodigioso. Perché l'autore è riuscito a cogliere in un attimo (velocissimo) la sincronizzazione di molti aspetti: oltre ai colori, ombre, geometrie, sopratutto persone in movimento, che per un momento si incrociano in situazioni particolari, sotto una luce particolare,ognuno con una sua misteriosa storia.

In Alex Webb ogni elemento fotografico viene esaltato ai massimi livelli: i colori (rosso, giallo, verde, azzurro, viola) sono accesi, sguargianti, ma naturali; le ombre e le geometrie nette; e le persone sono soggetti, per lo più inconsapevoli, di un teatro quotidiano, in cui mostrano loro stesse nel loro silenzio più che la maschera che inevitabilmente si portano addosso.

E' l'intreccio tra questa umanità povera, ma non affamata, viva ed espressiva nella sua immediatezza; è la molteplicità dei punti di vista, compresi le ombre e gli specchi; è la luce calda trasparente dei paesi tropicali come Haiti, Cuba, Nicaragua, Messico, oppure Istanbul che fa di “Fotografie” una mostra solare, senza che ciò diventi estetismo, e realistica, nella sua complessità esistenziale e sociale. Una mostra assolutamente da non perdere.

Alex Webb. "Fotografie". Mostra fotografica, organizzata da LUCCA photo DIGITAL Fest. Villa Bottini (Lucca). 22 novembre-8 dicembre 2008.

05 dicembre 2008

ORIGINI DELLA CULTURA E FINEDELLA STORIA di René Girard

di Emilio Michelotti

Ricordate l’inizio di “2001 odissea nello spazio ”? La guerra fra le scimmie antropomorfe – una crisi mimetica radicale, innescata dal desiderio di due individui di possedere lo stesso oggetto – si placa con l’arrivo, chissà da dove, del monolito. Se al posto di questo simbolo pacificatore poniamo un linciaggio, l’omicidio di un capro espiatorio, abbiamo sintetizzato la ricerca ossessiva che da quarant’anni René Girard va svolgendo sulle origini violente delle istituzioni, delle norme etiche e della scienza, come è tratteggiata nello splendido libro-intervista "Origine della cultura e fine della storia".

Un’unica struttura ambivalente, l’imitazione, e il desiderio mimetico che ne consegue consentono l’incanalarsi della violenza collettiva verso la colpevolizzazione di un solo individuo, che diventa doppio mostruoso da sacrificare. La vittima è al tempo stesso l’altro, l’alieno, l’intoccabile che il sacrificio rituale riveste di sacralità: il mostro è anche il dio.

Centrale è il carattere inconscio del meccanismo sacrificale: la categoria usata è méconnaissance, conoscimento inconsapevole dell’ingiustizia connessa alla colpevolizzazione della vittima, vicina al doppio vincolo di Bateson (imitatemi-non imitatemi – modello-ostacolo), un autoinganno – tutti stanno mentendo e nessuno lo sa.

Da qui, dalla convinzione di stampo darwiniano della religione come motore primo della civilizzazione, nasce lo status di antropologia privilegiata che Girard riserva al cristianesimo. Il suo approdo al religioso è “ateo”, “scientifico”: il mito cristiano, riletto radicalmente, è rovesciato: esso dà delle origini mitiche la lettura che permette di smitizzare e sdivinizzare la natura omicida del meccanismo mimetico.

La nonviolenza è tutta da costruire, essendo la violenza il nostro elemento costitutivo. “Conversione” è allora la scoperta del nostro essere persecutori inconsapevoli: critica e discrimine, base del progresso culturale sono azioni di espulsione, divisione, vittimizzazione. Se, al termine dell’indagine, scopriremo che i colpevoli siamo proprio noi, continueremo ad abitare questo limite che conduce all’autodistruzione?
Sic transit gloria mundi.

René Girard. Origine della cultura e fine della storia. Dialoghi con Pierpaolo Antonello e João Cezar de Castro Rocha. Raffaello Cortina, 2003. € 22.00.

26 novembre 2008

IL BALLO di Irène Némirovsky

di Gianni Quilici

Scopro soltanto ora Irène Némirovsky (nata a Kiev nel 1903 e morta a Auschwitz nel 1942) e il suo straordinario romanzo (breve) “Il ballo”, pubblicato a soli 25 anni .

La storia non va raccontata. Solo l'inizio. Protagoniste Antoinette, una ragazzina 14enne e la mamma, madame Kampf, moglie di un ebreo arricchito, che, smaniosa di affermazione sociale, decide di organizzare un grande ballo per consacrare il suo nuovo status, da cui viene, però, categoricamente esclusa Antoinette...

E' un piccolo gioiello, che le adolescenti per prime dovrebbero leggere, perchè crea piacere per il pathos della storia e un processo di partecipazione e/o identificazione (alta), che aiuta a capire e a capirsi.

C'è, infatti, l'adolescenza, quella vera: acuta e spietata nel cogliere la pochezza e le ipocrisie degli adulti; e però desiderosa di vivere un “altrove”, che ancora non si conosce, che soltanto si immagina, ma che si vuole provare immediatamente.

C'è una società ormai decrepita al tramonto -quella aristocratica più che borghese – ma la cui scala di valori è sempre presente almeno nei sogni della piccola borghesia diventata ricca.

C'è una scrittura non da educande, come sostiene Alberto Bevilacqua, ma diretta, fluida, essenziale, che diventa, per i contenuti, affilata e atroce.
Il ballo acquista una risonanza metaforica ed insieme dialettica: per un verso solitudine e vuoto, dolore e catastrofe di un mondo alla fine; per un altro, e come contrappunto, desiderio di un futuro che non si intravade di un'adolescente però viva e vitale, che questo futura ardentemente desidera.

Irène Némirovsky. Il ballo (Le bal). Traduzione di Margherita Belardetti. Piccola Biblieteca 527. Adelphi. Pag. 83. € 7.

24 novembre 2008

Aspetti della musica nel periodo Barocco.

di Nicola Amalfitano

Tra il XVII e il XVIII secolo, pur con sfumature e intensità diverse, in Europa si diffonde il fenomeno stilistico definito Barocco.
Caratteristica di questo nuovo movimento artistico, dalle forme esuberanti ed esasperate, è la ricerca dello stupore, della meraviglia. Gli artisti attingono anche a temi mitologici e della natura, si esprimono in modo ampolloso, magniloquente e spesso il loro stile esagerato risulta stravagante, bizzarro e grottesco.
Il Barocco, in ambito musicale, si colloca tra il 1600 e il 1750. Dalla fine del 1500, con la codifica definitiva delle regole dell'armonia ad opera dello Zarlino, si affermano i due modi principali della musica moderna: la tonalità maggiore e la tonalità minore; il sistema modale, non più in grado di assolvere alle esigenze di un completo cromatismo, viene man mano sostituito dal sistema tonale.
In Europa si assiste ad uno scambio intenso d’influssi stilistici, mentre si affermano nuove forme espressive: la monodia accompagnata dal basso continuo, la sonata a tre da chiesa e da camera, l'oratorio, il concerto, l'opera, le musiche per strumenti a tastiera.
Se i musicisti del Rinascimento privilegiano sonorità nitide, ben definite, allo scopo di tenere distinte le linee della polifonia, i compositori del Barocco adottano timbriche più morbide, idonee a creare impasti sonori sempre più complessi e arzigogolati.
Il contrappunto e la fuga, i cambi repentini di tempo, i virtuosismi strumentali e vocali, l'improvvisazione come prassi esecutiva, caratterizzano la produzione musicale; lo scopo essenziale è quello di stupire e divertire l'ascoltatore.
Si sperimentano nuove tematiche e nuove forme espressive, molti compositori trovano ispirazione nella mitologia e negli elementi della natura; l'ultimo periodo del Barocco è caratterizzato dalla ricerca di equilibri matematici, di simmetrie tendenti a determinare una suddivisione logica dei ruoli solistici e di gruppo.
Anche gli strumenti musicali si adeguano alla nuova realtà e si modificano per meglio interpretare partiture dense di sfumature e di contrasti.
Il modo ampolloso di fare musica, la ricerca della spettacolarità ad ogni costo, determinano l'immediato aumento degli strumentisti annessi alle cappelle; assume grande importanza la figura del virtuoso solista, vocale e strumentale. Adesso, molto più che in passato, si scrivono brani per un preciso strumento e se ne mettono in risalto la resa cantabile e gli aspetti virtuosistici; nel canto, l'improvvisazione ornamentale è lasciata alla discrezione dei cantanti e questo, a volte, dà luogo a virtuosismi fine a se stessi.
Per grandi linee, possiamo definire tre tipologie di indirizzo: lo stile concertante italiano, lo stile contrappuntistico tedesco e lo stile strumentale francese; in questa tripartizione distinguiamo, poi, la produzione strumentale da quella vocale.
Lo stile italiano presto si afferma in tutta Europa: il concerto grosso, il concerto solistico, la cantata sacra, l'oratorio, l'opera, sono modelli e fonte di ispirazione per molti autori. Nei paesi dell'area tedesca sorgono importanti scuole dove il contrappunto raggiunge altissimi livelli. La Francia vede l'affermarsi di nuove forme autonome; in campo strumentale la suite di danze sostituisce il concerto grosso, in campo teatrale si sviluppa la "tragédie-lyrique", che obbedisce a regole metriche più rigide rispetto al recitativo italiano.
Tra i musicisti più rilevanti di questo secolo e mezzo di storia, ricordiamo capiscuola quali: Carissimi, Corelli, Vivaldi, Monteverdi in Italia, Rameau e Couperin in Francia, Buxtehude e Telemann in Germania, Purcell in Inghilterra.
Fra tutti giganteggiano Bach e Haendel.

15 novembre 2008

POTERE E SALVEZZA di Jan Assman

recensione di Emilio Michelotti

L’analisi del rapporto fra politica e redenzione nelle società antiche dà modo a Jan Assmann (Potere e salvezza – Einaudi, 2002) di delineare un percorso che, per cenni e suggestioni, giunge, attraverso il cristianesimo, l’assolutismo e gli universali della modernità, fino a noi.

Poststrutturalismo e poststoricismo, estenuati dall’abbraccio del XXI secolo, generano, attorno all’idea di una contemporaneità culturale fra epoche anche lontanissime, figure emblematiche di studiosi, come Assmann in Germania e Carlo Ginzburg in Italia.

Le due tesi di fondo, innovative e sorprendenti, del volume, hanno implicazione neoaristotelica l’una – sarebbe la politica a fondare il bisogno di soprannaturale, “inventando” la religione, e non semplicemente usandola, come nella tradizione marxista - , antiplatonica e antikantiana l’altra – ogni sistema cultuale possiederebbe un segreto nucleo ateistico, ossia non troverebbe riscontro in verità esterne a noi (e neppure inscritte dentro di noi) ma in contingenze storiche impostesi come necessità.

Negli antichi culti indagati – egizio, mosaico, delfico-eleusino, ecc. – la duplex religio emerge infatti non come una costante universale ma come la costante ossimorica di una politica volta all’ ‘identico rinnovamento’, che si fa forte dell’ ‘accomodatio dei’ perché una religione di per sé sconvolgente e pericolosa (“immotivabile”, secondo Maimonide) possa divenire socialmente utile e produrre solidarietà, introducendo ricompense e punizioni.

Come i testi di Freud sull’età del bronzo, da Assmann ampiamente citati, come il suo recupero del mito arcaico, anche questo, che va inteso come una narrazione storico-letteraria, tende più a decodificare il nostro tempo che quello antico, introducendo forti elementi psicoanalitici nell’indagine storica.

Jan Assman. Potere e salvezza. Einaudi 2002

14 novembre 2008

La musica rinascimentale.

di Nicola Amalfitano

Il termine "musica rinascimentale" definisce la musica colta, composta in Europa tra il XV e XVI secolo. Nel Rinascimento, mentre giunge a maturità la polifonia vocale, si intensificano i processi che porteranno alla definitiva affermazione della musica strumentale come espressione artistica autonoma. Lo sviluppo della polifonia determina il nascere di nuovi strumenti in grado di accordarsi ai vari, definiti, registri vocali. Il liuto, con le varianti arciliuto, tiorba, chitarrone, domina incontrastato nelle corti; nuovi strumenti vengono costruiti applicando una tastiera al salterio: il cembalo, il virginale, il clavicordo.

In questo periodo si affermano la Frottola, il Madrigale, il Mottetto e la Messa. La Frottola è una composizione di genere popolaresco, di solito a quattro voci; nata in piazza e fiorita nelle corti italiane, si evolve nel Madrigale polifonico, una forma più artistica, basata su testi di autorevoli poeti e rispettosa della metrica. Tra i più grandi madrigalisti italiani dobbiamo, assolutamente, ricordare Gesualdo da Venosa e Claudio Monteverdi. Il Mottetto, in origine di carattere profano, diventa di genere religioso quando i polifonisti attingono a testi biblici o evangelici. La Messa polifonica è una forma musicale di ampio respiro; comprende tutte le parti della liturgia in lingua latina, l'esecuzione è vocale ed è denominata "a cappella" in riferimento al luogo dove si disponevano i cantori. Le musiche sono generalmente composte per quattro voci, soprano, alto, tenore, basso e sono eseguite da complessi vocali con o senza accompagnamento; iniziano a formarsi anche complessi solo strumentali organizzati per "famiglia" (fiati, archi). La nascente musica strumentale, che dalla polifonia vocale assimila la struttura, acquisisce dai movimenti della danza i contenuti ritmici e dinamici che le consentono di potersi proporre e affermare come espressione artistica a sé stante. I vari ritmi lenti e veloci che si alternano nelle composizioni musicali danno poi il nome ai movimenti che noi conosciamo come Suite, Partita e Sonata.

L'avvento della stampa rappresenta un formidabile propellente per la divulgazione e la conoscenza della musica; nascono trattati musicali, raccolte monografiche e antologiche,metodi didattici. Nel 1511, a Basilea, si pubblica l'opera del monaco Sebastian Virdung "Musica getusch und angezogen", che descrive gli strumenti dell'epoca e li classifica in base al modo di riprodurre i suoni. Un altro importante trattato è "Musica instrumentalis deudsch" di Martin Agricola, pubblicato nel 1529. Ricordiamo ancora il "Fronimo" di Vincenzo Galilei, pubblicato nel 1568 per lo studio del liuto. Notevole è l'opera di Michael Praetorius "Sintagma Musicum", un trattato in tre volumi destinato soprattutto ai musicisti ed ai costruttori di strumenti musicali; caratteristica unica di quest'opera è il supplemento "Theatrum instrumentorum seu Sciagraphia", dedicato alla raffigurazione degli strumenti musicali attraverso una serie di accuratissime xilografie.

Nel Rinascimento, la musica profana è soprattutto musica di corte. Spicca in questo
periodo la figura del mecenate. Il "signore" ospita e mantiene alla sua corte letterati,musicisti, pittori per tenere alto il prestigio della casata. Le corti dei Medici, dei Visconti, degli Estensi, dei Gonzaga e dei Montefeltro sono centri di esecuzione musicale e diventano punto di riferimento per tutti i musicisti d'Europa. È il periodo delle "Accademie" che, sotto nomi diversi, riuniscono scienziati e artisti. Giova mettere in evidenza la "Camerata de' Bardi" o "Camerata Fiorentina": da essa trae origine una nuova forma di rappresentazione teatrale, il "recitar cantando". I versi del poeta Ottavio Rinuccini sono messi in musica da Jacopo Peri e Giulio Caccini: è questo il primo germe del teatro musicale moderno.

La musica sacra trova i massimi riferimenti nelle sedi di Roma e Venezia. Alla Scuola Romana sono legati musicisti della Santa Sede e della Cappella musicale pontificia; lo stile riflette ancora la tradizione gregoriana e vede in Giovanni Pierluigi da Palestrina il suo più grande e significativo rappresentante. La Scuola Veneziana, sorta presso la Basilica di San Marco, instaura uno stile innovativo con l'apporto di musicisti fiamminghi e veneziani. Adriano Willaert, ma soprattutto Andrea e Giovanni Gabrieli, zio e nipote, adottano la tecnica dei "cori battenti" (disposizione contrapposta e sovrapposta di voci) per creare effetti sonori di grande solennità.
Alla fine del 1500, mentre stiamo per entrare nel periodo barocco, il trattato "De Institutioni Harmonicae" del veneziano Gioseffo Zarlino, codifica in maniera definitiva le regole dell'armonia con la suddivisione dell'ottava in intervalli di dodici toni; un sistema basato su scale di maggiore e minore che è alla base del moderno sistema musicale.

12 novembre 2008

"LA VITA FA RIMA CON LA MORTE" di Amos Oz

recensione di Gianni Quilici

L'inizio del romanzo è questo:
“Tali sono le questioni fondamentali: perché scrivi. Perché nella fattispecie scrivi proprio in quel modo. Ti interessa influenzare i tuoi lettori e in caso affermativo – in quale direzione cerchi di influenzarlo. Qual è il compito delle tue storie. Cancelli e correggi continuamente o scrivi direttamente per ispirazione. Com’è essere uno scrittore famoso, che effetto fa alla tua famiglia. Perché descrivi quasi esclusivamente gli aspetti negativi. Che ne pensi di altri scrittori, chi ti ha influenzato e chi non sopporti. Fra parentesi, come definisci te stesso?”

E' il romanzo del rapporto dello scrittore con se stesso, con la propria immaginazione. E' lo scrittore che vivendo non si dimentica che scrive. E' lo scrittore che vive come se stesse scrivendo, mescolando lo sguardo, le impressioni con una storia, con più storie che si intersecano, che si fermano, che mutano.

Siamo a Tel Aviv: è estate. E' una sera calda e umida.
Alla vecchia Casa della Cultura sta per iniziare la presentazione del libro dello Scrittore.
Lo scrittore si trova, lì vicino, in un piccolo caffè. Qui osserva: una cameriera con la minigonna e il seno alto, un paio di belle gambe piene, viso carino, luminoso con le sopracciglia che si toccano e sotto la gonna il contorno delle mutande. .. Mentre aspetta l'omelette lo scrittore prova a tratteggiare il primo amore di questa cameriera....osserva due tipi loschi... una vecchia signora con le gambe gonfie...
Lo Scrittore compare in sala con ritardo. Seduto appare distaccato, con un camiciotto leggero,dei pantaloni kaki e un paio di sandali. Assorto osserva il suo pubblico, attento, sudato, quasi volesse borseggiarlo. E tra il pubblico la ragazza esile, intimidita, bella ma non attraente, il giovane poeta depresso, il responsabile della Casa della Cultura, l’esperto di letteratura, l’appassionata di letteratura, l’anziano insegnante, la donna curiosa e non colta, l’impiegatuccio occhialuto e spigoloso e sua madre, l’accordatore di pianoforti.

Su questi personaggi imbastirà una storia passeggiando fino a notte fonda per le vie.
Funziona?
No, non funziona. C'è dentro troppo tavolino, troppa presenza dello scrittore che elabora, inventa. Per funzionare forse avrebbe dovuto perdersi e perdere (di più) la storia, divenire flusso più incontrollato tra presente-immaginazione-ricordo. C'è invece troppo ordine, troppa cronologia, troppo controllo.

Amos Oz. La vita fa rima con la morte. Trad. Elena Loewenthal. Pag. 106. Feltrinelli, 2008. € 10.

11 novembre 2008

EVARISTO BASCHENIS. Un pittore per la musica.

di Nicola Amalfitano

Il pittore bergamasco Evaristo Baschenis (7 dicembre 1617 – 16 marzo 1677)riveste un ruolo molto importante nel panorama musicale del XVII° secolo. Non si hanno notizie certe riguardo ai suoi maestri ed alla sua formazione artistica; di certo sappiamo che dal 1643 è noto come "Prevarisco" per il suo stato sacerdotale.
Il nuovo genere di natura morta a soggetto musicale, da lui ideato e codificato, costituisce, di fatto, una fonte sicura e autorevole per lo studio e la ricerca in ambito musicologico, in quanto nei suoi dipinti troviamo raffigurati gli strumenti normalmente in uso nell'Italia del nord, nel corso del 1600.
Di grande abilità pittorica, cura con attenzione anche i più piccoli particolari,tanto che i suoi lavori sono straordinariamente realistici: un'atmosfera misteriosa circonda gli oggetti, gli strumenti musicali sono definiti in ogni minimo dettaglio ed è anche possibile leggere le note sugli spartiti.
Dai dipinti, quindi, non solo possiamo trarre moltissime informazioni circa gli strumenti usati, ma possiamo anche stabilire con certezza che la "sonata con basso continuo" era il genere musicale più in voga in quel tempo.
Nelle opere di Baschenis, la figura umana è quasi sempre assente. Il Trittico Agliardi, considerato il suo capolavoro, comprende, invece, due doppi ritratti di suonatori; nella pala centrale del trittico sono raffigurati strumenti musicali, nelle due laterali è rappresentata l'Accademia musicale formata dai tre fratelli Agliardi e dallo stesso Baschenis alla spinetta. Alcune sue opere sono esposte a Bergamo, Milano, Bruxelles.

Musei on-line

Metropolitan Museum of Art, New York City
Museum of Fine Arts, Boston
Galleria sul WEB

09 novembre 2008

LINEA NOTTE - Tg 3 -

di Gianni Quilici

“Linea notte” è l'approfondimento del TG3, che sostituisce "Primo Piano".
Pensavo che fosse un modo per eliminare uno spazio politico “vivace”, presente poco dopo le 23, per sostituirlo con un altro “soporifero”, in onda poco dopo le 24.
Non è così.

Quali sono, allora, gli aspetti decisamente positivi di “Linea notte” in una congiuntura politico-culturale, in cui la necessità dell'opposizione si fa sempre più stringente?
1) L'approfondimento delle notizie;
2) uno sguardo che va oltre l'Italia;
3) un collegamento continuo con le notizie fresche, che arrivano dall'ANSA;
4) la presenza in studio di personaggi (da giornalisti a intellettuali, da artisti a uomini e donne di spettacolo), che non sono i soliti politici-giornalisti, che saltano da uno studio all'altro, onnipresenti.

Provate, infatti, ad andare su "Porta a porta", che è più o meno in contemporanea.
Un odore di muffa: il salotto dove si chiacchiera con i soliti personaggi, i soliti vetusti riti con un conduttore la cui ipocrisia è pari solo alla sua acidità.

08 novembre 2008

L'ABICI' DELLA GUERRA di Bertolt Brecht

di Gianni Quilici

69 poesie di Brecht, che poetizzano a latere altrettante fotografie.
Poesie e immagini che diventano racconto. L'orrore della guerra e del nazismo secondo Brecht.

Come nasce?
"L'Abicí della guerra" nasce come convergenza di due interessi di Bertolt Brecht: le immagini e la poesia epigrammatica. Da qui nacque un genere letterario inedito, l' “epigramma fotografico”, al quale il poeta si dedicò in particolare negli anni dell'esilio. Nel dopoguerra, Brecht diede poi una precisa struttura al materiale, e lo articolò cronologicamente e tematicamente dal riarmo della Germania fino alla sconfitta del nazismo. Superate le resistenze della Rdt, la raccolta venne pubblicata a Berlino est nel 1955.

Sono poesie intense che si intersecano magnificamente con l'immagine. Brecht sa cogliere quello che Roland Barthes in “La camera chiara” definisce il “punctum”, ciò che punge. Inoltre spesso si fa personaggio della foto e l'uso di un lessico semplice e della rima baciata o alternata, per la loro immediatezza, attraverso la bella traduzione di Roberto Fertonani, diventano quindi “esemplari”.

“L'abicì della guerra” fornisce molti spunti sulla 2a gerra mondiale: cause, conseguenze, fatti, ideologie ed in più consta di un'appendice con una nota per ogni foto-poesia.

Un libro utilissimo anche didatticamente. L'epigramma fotografico consente, infatti, di avvicinarsi forse più da vicino di un libro di testo all'interno di questa epoca, sia per le immagini, che hanno una loro forza, che per le poesie, che colpiscono nelle profondità.

Bertolt Brecht. L'abicì della guerra (“Kriegsfibel”), a cura di Renato Solmi e del CCM di Torino. Pag. 162. Einaudi.

31 ottobre 2008

La musica al tempo delle crociate

di Nicola Amalfitano

Deus vult! Dio lo vuole!, così Pietro l'Eremita, chiamando alle armi per la difesa del Santo Sepolcro, dava inizio alla prima Crociata, nota come "Crociata dei poveri".
Nei secoli XII e XIII il tema delle Crociate si aggiunge a quello amoroso, religioso ed epico, appartenenti alla tradizione trobadorica, e si adottano nuovi strumenti musicali sull'influsso delle sonorità orientali, principalmente arabe.
L'organo è ancora lo strumento principe per l'accompagnamento liturgico; le corti risuonano della melodica arpa e in esse si diffondono, per la loro facile portabilità, la viella ad arco, la ghironda e il liuto; si fa uso anche di strumenti più tipicamente militari quali il flauto traverso, la tromba diritta, il tamburo.
In quegli anni le forme musicali si modellano sul canto piano e il dramma liturgico, senza che il canto profano abbia guadagnato ancora una identità ben definita.
La Chiesa con la liturgia, la preghiera, il canto dei salmi quotidianamente offre occasioni di canto. Il canto "gregoriano" è preghiera: l'Antiphonarium Cento, un grande libro di canti liturgici raccolti da papa San Gregorio Magno, era legato con una catena d'oro all'altare di San Pietro per la libera consultazione di tutti i pellegrini.
Il dramma liturgico rappresenta eventi delle Sacre Scritture e talvolta episodi di vita dei santi; è una struttura con dialoghi in canto piano dove gli strumenti hanno il mero compito di sostenere la voce, accompagnandola e ripetendone la melodia.
Intorno al 1100, gradualmente si sviluppa la polifonia liturgica: all'unica linea melodia gregoriana si sovrappone una voce spostata di un intervallo di quarta o quinta, le due voci poi chiudono all'unisono. Questa tecnica di abbellimenti diventa via via sempre più sofisticata con la sovrapposizione di parti e voci diverse, dando così origine al mottetto ed alla polifonia vera e propria. Un ruolo considerevole in questo processo di evoluzione appartiene alla Scuola di Notre-Dame con i due maggiori rappresentanti, Leonin e Pérotin.
La polifonia richiede regole precise, una scala di toni esatta ed invariabile, un metodo di scrittura efficace e dettagliato che tenga conto delle armonie sempre più complicate e impossibili da ritenere a memoria.
È merito del monaco benedettino Guido d'Arezzo la codifica della moderna notazione musicale che, insieme al tetragramma, sostituisce la notazione neumatica allora in uso.
Nel XII secolo la musica profana risente ancora dell'influenza liturgica tanto da ricorrere spesso alla tecnica detta "contrafactum": si ripropongono melodie sacre dove il testo religioso viene sostituito da versi licenziosi o burleschi; ne sono massimo esempio i Carmina Burana, raccolta di canti tedeschi del 1230.
Frattanto, grazie all'opera dei menestrelli, trovatori, jongleurs, minnesänger, presso le varie corti si afferma la lirica cortese in lingua volgare; non si scrive solo secondo le convenzioni dell’amore cortese, ma si mettono in risalto anche temi guerreschi ispirati alle Crociate. I canti di crociata danno voce ai diversi aspetti del pellegrinaggio: le pie devozioni lungo il cammino, l'esortazione alla conquista del Santo Sepolcro, le dame in attesa del ritorno dei loro cavalieri. Il mottetto diventa anche strumento di satira.
Tutto questo fermento costituisce una forte spinta propulsiva che determina, finalmente, l'affrancazione della musica profana da quella liturgica; ne è testimonianza l'abbondante produzione di ballate e madrigali in Italia e Francia.

Ancora, comunque, la musica strumentale, intesa come espressione artistica autonoma, non legata a funzioni di accompagnamento, non esiste; intorno al 1325 datano i primi arrangiamenti per tastiera di composizioni vocali.

IL RACCONTO DELL'ISOLA SCONOSCIUTA di José Saramago

recensione di Gianni Quilici

Per la prima volta un uomo aspettò tre giorni alla porta del re per essere ricevuto. Alla fine sorprendentemente il re andò da lui.
“Datemi una barca, disse l'uomo.
E voi, a che scopo volete una barca, si può sapere, domandò il re.
Per andare alla ricerca dell'isola sconosciuta, rispose l'uomo.
Sciocchezze, isole sconosciute non ce ne sono più. Sono tutte sulle carte.
Sulle carte geografiche ci sono soltanto le isole conosciute.
E qual è quest'isola sconosciuta di cui volete andare alla ricerca.
Se ve lo potessi dire allora non sarebbe sconosciuta”.

E' una fiaba del premio Nobel José Saramago.
Protagonisti l'uomo che cerca l'isola che non c'è e la donna delle pulizie (che apriva e chiudeva la porta del re e che, d'impeto, decide di seguire l'uomo in questa avventura ).

E' una fiaba dal timbro leggero e incantato, dato da un linguaggio elementare e cadenzato per bimbi e dall'utopia, che sottende la stessa ricerca.
Perché la ricerca dell'isola che non c'è appare subito inevitabilmente votata alla sconfitta, ma già la predisposizione alla ricerca è, in qualche modo, “abitarla”.
In questo senso la ricerca dell'isola che non c'è è presente nel modo insolito che l'uomo ha di predisporsi di fronte al re, nella sua ostinazione, in quello sguardo che lui posa sulla donna delle pulizie e lei posa su lui, in un sogno che si confonde con la realtà fino a diventare colpo di scena finale: essi stessi isola che non c'è alla ricerca di se stessi.

Ecco, José Saramago riesce ad armonizzare il linguaggio semplice e ripetitivo della fiaba in un'avventura che sotto l'incanto del paradosso e del mistero diventa anche avventura psicologica e poesia. Perché riesce a trovare quel timbro leggero in cui sentimento e ragione con molta semplicità si incontrano. Viene in mente Brecht: “La semplicità che è difficile a farsi”.

José Saramago. Il racconto dell'isola sconosciuta.(O Conto da Ilba Desconhecida), a cura di Paolo Collo e Rita Desti. Einaudi.

30 ottobre 2008

MEIN FÜRER di Dani Levy

La veramente vera verità su Adolf Hitler

di Ilaria Sabbatini

«La misura della soluzione finale, non la deve prendere come una cosa personale» si giustifica Goebbels con Adolf Grünbaum, attore di fama internazionale nella Germania degli anni venti. Solo che il professor Grünbaum - come lui pretende di essere chiamato dai vertici del reichtstag- è ebreo. Si può ridere di Hitler e capovolgere in grottesco il terrore che lo ha accompagnato nella sua perversa parabola politica? Secondo Dany Levy, sì. Non solo si può farlo ma si può proporlo scientemente come provocazione e come catarsi. «Veniamo a conoscere continuamente dei fatti nuovi. Però una vera discussione morale sull'epoca viene sempre evitata» dice Levy. Questo film non ha avuto riconoscimenti né cerimonie, eppure è uno di quelli che, finita la visione, lascia senza parole. Viene da chiedersi cosa si sia svolto in realtà davanti ai nostri occhi, quale sia il sottotesto e non ci sono rispose semplici. Mark Twain sosteneva: « The human race has one really effective weapon, and that is laughter». Questa è in effetti l'essenza dell'opera di Levy. Un'arma incruenta contro la disumanizzazione e le soluzioni manicheistiche. Ricco di citazioni autoriali, il film si pone ad un livello di speculazione molto più complesso di quello che appare, come se avesse molteplici livelli di significato. Le trovate di un fürer impotente, affetto da mille vizi maniacali e vezzi grotteschi sono solo il contorno del vero nodo del racconto. Eppure Levy non mira a caso perché quando gioca sulla difficile infanzia del gerarca si basa sul libro di Alice Miller che, ne "La persecuzione del bambino", ha documentato i maltrattamenti psico-fisici subiti da Hitler per mano del padre. Se questo è lo sfondo dissacrante, in primo piano c'è un altro fatto altrettanto documentato: Hitler ha realmente avuto un maestro di recitazione che gli insegnava la respirazione e i gesti della sua oratoria. Levy da un volto al mentore del dittatore, immagina così che dietro alla sua terribile figura si celi un piccolo attore ebreo che insegna i segreti della retorica al grande demagogo. Di lui il padrone dell'Europa ha bisogno per recuperare la fiducia in sé stesso proprio nel momento più critico della sua tremenda avventura militare. E' il gioco del disvelamento la sempiterna favola che rivela la nudità del re, il quale assume le sembianze insolite del più angoscioso protagonista del Secolo Breve. Onestamente si fa fatica a collocare Mein Fürer tra le commedie perché non corre verso l'epilogo fulminante come il virtuosistico Train de vie, non intenerisce come La vita è bella, non usa la caricatura come The producer, non fa tanto ridere insomma. O meglio non fa ridere programmaticamente bensì trattiene sempre il riso sul confine dello stupore. «Tutto rimane doloroso e fa paura. Il film non offre soluzioni a questo» glossa l'autore. Del resto, visti i tempi che corrono, dubito che ormai faccia ridere perfino il capolavoro di Chaplin cui evidentemente l'intreccio di Levy deve molto. E' una storia la sua che non fa sconti a nessuno: l'ebreo non riesce a uccidere l'incarnazione dell'antisemitismo, fallisce nel tentativo di salvare gli ebrei del proprio campo e può a malapena sottrarre al lager la numerosa famiglia. L'equilibrio del film va cercato altrove, non nella riproposizione di fughe impossibili, storie patetiche o ucronie fantastiche. L'ironia a tratti feroce della sceneggiatura fa piazza pulita di ogni buonismo e pone sarcasticamente domande mirate a scuotere la coscienza civile della nostra epoca. "Perché l'ebreo non si ribella? Niente coraggio? Non avete rabbia?" Grünbaum replica con un diretto micidiale, ma la domanda rimane, oltrepassando l'appartenenza, interpellando tutti indistintamente. Si può ridere del fürer? Certo, si può, perché decostruendo la retorica di regime, di ogni regime, rivelandone l'implicita contraddizione, si scaraventa il mito più oscuro del novecento giù dal podio degli eroi negativi e lo si offre allo sberleffo generale capace di riportarlo alla dimensione di un banale essere umano, meschino nella sua stessa abiezione.

29 ottobre 2008

L'UOMO A ROVESCIO di Fred Vargas

di Gianni Quilici

Leggo questo romanzo del 1999 (pubblicato da Einaudi nel 2006), di Fred Vargas, scrittrice francese, tradotta in 22 paesi, considerata l'anti-Patricia Cornwell. Leggo e attraverso diversi stati d'animo, che certo hanno a che fare con il romanzo, ma riguardano anche e forse sopratutto la mia soggettività.

La prima impressione è superficialmente negativa. Leggo il risvolto di copertina: si parla di un lupo che uccide, ma forse, si scrive, non è una bestia, potrebbe essere un lupo mannaro. La storia non attira il mio immaginario...

Tuttavia inizio a leggere (mi ricordo una recensione entusiasta di uno scrittore-critico-filosofo, Beppe Sebaste, che mi spinse a comprare alcuni dei romanzi della Vargas), fino ad arrivare al punto in cui scatta la seconda impressione: mi avvince.
Essere avvinti è una delle ragioni del leggere. Non l'unica, ma importante. Si legge, perché si vuole conoscere anche lo sviluppo e la conclusione di una storia. A volte perché c'è un enigma; a volte, per l'intensità che trasmette. Qui c'è una visione, che diventa concatenazione, suspence: nel Mercantour, nel Sud della Francia, la presenza dei lupi non è strana, ce n’è un gruppo intero e ognuno di loro ha un nome. C’è pure un giovane canadese che è venuto apposta per fare delle ricerche su di loro. Ad un certo punto, però, iniziano le stragi di pecore negli ovili - gli squarci sulla gola delle bestie fanno pensare a un lupo di enormi dimensioni. Può essere il grosso Crassus che non è stato avvistato da tempo? Finché muore una donna, il che è strano, perché i lupi non attaccano le persone e Suzanne non era certo così stupida da averlo provocato. E i sospetti cadono su un macellaio, che non ha peli ed è un solitario ...

Infine la terza ultima impressione: Fred Vargas è un'abilissima narratrice, non a caso sforna un best seller quasi ogni anno. Il viaggio a tre della ragazza, del vecchio che si sente in colpa per non aver saputo difendere Suzanne e del ragazzo nero, che è stato adottato dalla ruvida e generosa Suzanne, è efficace sia scenograficamente: l’arrancare del camion per bestie sulle stradine nello scenario vasto e impenetrabile della montagna; che per i dialoghi e i pensieri sotterranei che corrono tra loro. Però alla Vargas più che la vericidità della storia, della sua profondità, interessano i colpi di scena e la costruzione di personaggi buoni o simpatici che finiscano per generare partecipazione e identificazione. Il segnale più significativo è come l'assassino sia poco plausibile psicologicamente e come invece sia sconvolgente narrativamente. E come tutto venga spiegato con una banale e deterministica storia. Mi resta difficile immaginare, infatti, che un romanzo come questo si abbia il desiderio di ri-leggere.

L'uomo a rovescio (L'homme à l'envers) di Fred Vargas. Traduzione di Yasmina Melaouah. Einaudi 2006. € 15.50

28 ottobre 2008

Classica. Un approccio consapevole

di Nicola Amalfitano

L'ascolto della musica richiede un approccio consapevole per saper riconoscere e valutare i diversi elementi di una composizione.
Elementi contrappuntistici quali le sovrapposizioni di vari disegni melodici.
Elementi armonici quali:
gli accordi, sovrapposizioni di note in vario rapporto fra loro;
le modulazioni, passaggi più o meno complessi e rapidi fra tonalità diverse.
Elementi sonori, timbrici e tonali in relazione alle voci degli strumenti.
Tutti questi elementi, nel loro insieme, determinano la Forma mediante la quale quale il musicista costruisce la sua composizione e ci trasmette emozioni.
È basilare l'educazione musicale nelle scuole; la lettura di manuali, testi e riviste di settore aiuta a capire tecniche e strutture musicali; questo, però, non è sufficiente per formare gusto e sensibilità.
Bisogna ascoltarla la musica; ascoltarla in casa, nelle chiese, in piazza, nella sale da concerto e nei teatri.
La sensibilità si affina con l'esercizio; possiamo, così, scoprire, individuare e valutare gli elementi strutturali della composizione musicale: gli intervalli, i toni e i modi, gli accordi e le modulazioni, le varie voci che si intrecciano nella polifonia, i timbri vocali e strumentali.
Mi limito ad aprire una piccola finestra sullo sterminato panorama musicale, per proporre un punto di partenza utile a formare una significativa conoscenza di base.

Vivaldi

Le quattro stagioni, concerti per violino, archi e basso continuo.
Un concerto per ogni stagione; sono le composizioni più note, uno dei primi esempi di musica descrittiva.

Concerto n.1 op.10 "La tempesta di mare"
- Concerto n.2 op.10 "La notte" - Concerto n.3 op.10 "Il gardellino"
Libertà formale e fantasiosa di grande presa emotiva, giocata sulla contrapposizione tra soli (concertino) e tutti.

Händel

Musica sull'acqua.
Una suite vigorosa dove danza e concerto si fondono in un insieme ricco di contrasti.

Concerti per organo e orchestra op.7 n. 8-9-10.
È l'organo ad assumere le funzioni di concertino e dialoga con grande libertà espressiva con gli archi.

Il Messia
Oratorio per soli, coro e orchestra: momenti delicati e pieni di suggestione sfociano in brani dalla forza interiore che avvince; il poderoso "Alleluiah" genera emozioni senza fine.

Bach

Concerti brandeburghesi.
Sei concerti grossi differenziati, ciascuno, per l'organico; tutti, però, caratterizzati da una ricca elaborazione tematica e contrappuntistica.

Ouvertures (Suites) n.2 e n.3
Movimenti di danza che rappresentano efficacemente l'aspetto frivolo di Bach; molto conosciute e di grande effetto la Badinerie della suite n.2 e l'Aria della suite n.3.

L'arte della fuga - Il clavicembalo ben temperato - Le Variazioni Goldberg
La vetta della scienza contrappuntistica del barocco musicale.

Toccata e fuga in re minore.
L'arte contrappuntistica di Bach si esprime ai massimi livelli in una continua ricerca di espressioni e sonorità tendenti all'infinito.

Corali di Lipsia.
Anche questi corali, basati su temi della liturgia luterana, sono ai vertici dell'opera bachiana.

L'offerta musicale.
Da un tema fornitogli dal re Federico II di Prussia, Bach trae uno dei suoi capolavori.

Magnificat
Brano esuberante, solenne; atmosfera brillante ricca di forti contrasti.

Passione secondo Matteo
Capolavoro di tutti i tempi, si caratterizza per la complessità e la maestosità dell'organico.

Haydn

Concerto per violoncello e orchestra
Alle soglie del romanticismo viennese, questo concerto presenta ancora una struttura tardo barocca.

Sinfonia n. 103 in mi bem magg "Rullo di timpani"
Rappresenta la maturità compositiva per il disegno formale e l'accurata dinamica orchestrale.

Mozart

Sinfonia n.41 Jupiter.
Al vertice della produzione mozartiana; il titolo ne evoca il carattere grandioso.

Concerto per pianoforte e orchestra n.20
Dalla notevole forza espressiva, è considerato il primo concerto preromantico.

Serenata in sol magg. Eine kleine Nachtmusik
Piccola serenata notturna, semplice nella struttura e ricca di melodia.

Sinfonie n.38 "Praga" e Sinfonia n.40
Pagine forti, ricche di contrasti con sviluppi anche drammatici.

Messa da requiem
Maestosa, drammaticamente solenne; momenti di malinconia struggente si alternano a ritmi implacabili che rinconducono l'animo alla realtà inquietante degli ultimi momenti di vita.

Beethoven

Sinfonia n.3 "Eroica"
Sinfonia in origine dedicata a Napoleone, dalle proporzioni ampie e maestose.

Sinfonia n.5
Quattro note in apertura, "Ecco il destino che bussa alla porta".

Sinfonia n.6 "Pastorale"
Beethoven fa rivivere in musica la vita campestre, egli stesso per ogni movimento fornisce la descrizione dell'immagine che vuole evocare: "Risveglio di lieti sentimenti all’arrivo in campagna", "Scena al ruscello", "Lieta brigata di campagnoli", "Temporale", "Sentimenti di gioia e di riconoscenza dopo il temporale".

Sinfonia n.7
Definita da Wagner "l'apoteosi della danza" per la ricchezza dei movimenti e dei ritmi.

Sinfonia n.9 "Corale"
Ultima sinfonia del genio titanico che inserisce nel finale l'Inno alla gioia di F. Schiller. Idee nuove che si traducono in forme espressive che rompono gli schemi della tradizione; l'ultimo movimento, finale presto, è quello che presenta maggiori sconcertanti novità sia sul piano tecnico che su quello formale.

Concerto per pianoforte e orch. N.5 "Imperatore" op.73
Dedicato all'arciduca Rodolfo d'Asburgo-Lorena, è il più imponente fra i concerti composti da Beethoven.

Concerto in re magg. per violino e orchestra op.61
Lirismo e cantabilità; Beethoven fa raggiungere allo strumento le più alte vette espressive.

Sonate per pianoforte n.8 "Patetica", n.14 "Al chiaro di luna", n.23 "Appassionata".
Di grande forza espressiva, sono un altro esempio dell'originalità, dell'inventiva di Beethoven che, ancora una volta, rompe e riamalgama gli schemi tradizionali.

Schubert

Sinfonia Incompiuta
Composizione dai forti accenti drammatici, è considerata la più originale e matura tra le sue opere.

Quintetto per pianoforte e archi "La trota".
Partitura allegra e briosa dove le variazioni del IV movimento rappresentano il movimento della trota che, a tratti, emerge dalle acque del fiume e poi ci si rituffa dentro.

Berlioz

Sinfonia Fantastica
I cinque movimenti descrivono episodi immaginari di vita di un artista. Brani di grande presa, che alternano malinconia, furore e angoscia. Chiude un vorticoso fugato che rappresenta un sabba di streghe.

Mendelssohn

Sinfonia Italiana
Opera scritta durante il soggiorno in Italia, fissa le vivaci impressioni suscitate dai paesaggi mediterranei; l'impianto sinfonico e le melodie riflettono uno stile italiano, e nel finale è inserito il tipico "salterello" dell'Italia meridionale.

Chopin

Equivale a dire pianoforte, quindi Studi, Notturni, Valzer, Sonate etc.

Concerto n.2 per pianoforte e orchestra op.21
È la sua prima opera che lo caratterizza stilisticamente. Il pianoforte è assolutamente in primo piano, con l'orchestra in mera funzione d'accompagnamento.

Andante spianato e grande polacca brillante op.22
Un brano molto poetico con l'orchestra in secondo piano per dare il massimo risalto al pianoforte solista.

Brahms

Sinfonia n.4 op.98
Il capolavoro di Brahms che con questa pagina chiude il periodo romantico della sinfonia.

Concerto per violino e orchestra op.77
Opera prettamente lirica, trae ispirazione dal folclore ungherese; per l'elaborazione tematica, si riallaccia in qualche modo al concerto per violino di Beehtoven.

Borodin

Danze polovesiane dall'opera " Il Principe Igor".
Una serie di danze scritte per coro e orchestra; vengono eseguite spesso in forma di concerto mantendendo inalterate le caratteristiche ritmiche e melodiche che le hanno rese famose.

Paganini

Concerto n.1 per violino e orchestra
Scrittura ricca di virtuosismo per il solista, l'orchestra accompagna in forma discreta.

Le Streghe, per violino e orchestra.
Un brano dalle difficoltà tecniche incredibili.

Liszt

Rivoluziona la tecnica pianistica

Concerto n.1 per pianoforte e orchestra
Uno dei più popolari, un pianismo travolgente di forte impatto.

I Preludi, poema sinfonico.
Ispirata alla vita dell'uomo, quest'opera alterna con grande senso dell'equilibrio brio, pace e mestizia.

Wagner

Tannhäuser - Ouverture dall'opera.
L'autore rappresenta con grande forza il conflitto interiore dell'eroe alla disperata ricerca del perdono.

Lohengrin - Preludio dell'opera.
L'autore lo descrive come la "miracolosa discesa del Graal scortato dalla schiera degli angeli, e la sua consegna agli uomini eletti".
Un sentimento ultraterreno, espresso con il sapiente dosaggio dei tempi.

Parsifal - Preludio dell'opera.
Wagner tratta i temi della cristianità: amore, fede, speranza; una pagina ricca di espressività.

Ciaikovski

Suite dai balletti: Lo schiaccianoci - Il lago dei cigni

Sinfonia n.6 "Patetica"
Pervasa da pessimismo, da sfiducia nella vita, è il testamento spirituale dell'autore.

Musorgskij

Quadri di una esposizione
Originariamente scritti per pianoforte, i brani rappresentano le sensazioni provate di fronte alla forza espressiva dei dipinti.

Una notte sul monte calvo
Poema sinfonico "a progamma" dove si immagina un sabba di streghe ai piedi del Monte Triglav, vicino Kiev.

Rimskij Korsakov

Capriccio Spagnolo op.34.
L'autore si rifà al folclore spagnolo introducendo ritmi e sonorità tipiche; è un lavoro brillante dove l'orchestra è tenuta ad esprimersi con grande virtuosismo.

Grieg

Peer Gynt suite n.1 e 2
Scritte su richiesta di Ibsen, queste musiche di scena evocano paesaggi nordici, hanno una struttura melodica molto semplice ma d'effetto.

Mahler

Sinfonie
Autore post romantico innova in maniera molto singolare la sinfonia con l'uso sistematico della voce umana, inoltre allunga in maniera inusuale la durata della esecuzione.

Debussy

Prelude à l'après midi d'un faune - La Mer
Inaugura in musica il periodo impressionista; non più pagine esteriormente descrittive, ma impressioni, sensazioni che l'autore ci trasmette.

Respighi

Le fontane di Roma
Un poema sinfonico sul modello classico con influenze impressionistiche; probabilmente una delle sue migliori composizioni.

24 ottobre 2008

SUPERVITA di Marco Bacci

di Maurizio Della Nave

Tratto dall’introduzione: …un gruppo di partigiani viene aiutato nella lotta contro i tedeschi da un aviatore venuto da molto lontano; una macchina permette di viaggiare nello spazio-tempo ma lascia dietro di sé le “ombre” delle persone che l'hanno utilizzata; un mondo parallelo quasi identico al nostro, tranne che il tempo è sfasato di una cinquantina d’anni, i nazisti hanno vinto la seconda guerra mondiale e Philip Kindred Dick è solo il personaggio di un romanzo; un software al cui interno viene conservata l’identità neuronale delle persone decedute in attesa di reimpiantarla in un altro corpo...

Uno straordinario romanzo avant-pop, caleidoscopico, carnale, virtuale. Un ingegnoso e appassionante tour-de-force narrativo che trascende i generi e in cui si mescolano e confondono Beppe Fenoglio e gli X-Files, Philip K. Dick e Jorge Luis Borges, William Gibson e Alexandre Dumas...

Marco Bacci è un giornalista e critico cinematografico, abbastanza sconosciuto come scrittore anche se ha scritto quattro o cinque libri niente male ( tra gli altri “Giulia che mi sfugge”, anch’esso particolare e fresco nello stile)...

“Supervita”. Marco Bacci. (Marsilio Editore. 16,00 euro).

PASSAGGI DI CARRIERA ( "Career Move" ) di Martin Amis

recensione di Gianni Quilici

Il progetto editoriale una volta tanto (è stato) utile, non parassitario: allegare ai giornali La Repubblica e l'Espresso un racconto in versione originale con traduzione a lato. Libretti smilzi (Short stories, appunto) da leggere (e meditare) nell'arco di una sera o di un viaggio...
Uno di questi è “Passaggi di carriera” (Career Move), tradotto da Massimo Bocchiola, di uno degli scrittori inglesi contemporanei più noti, Martin Amis.

Racconto di due “intellettuali”: un poeta di successo, che vive in una bella casa e si accompagna con ragazze bellissime; l'altro uno sceneggiatore sfigato, costretto a fare un altro lavoro, che invia ad una rivista semi-clandestina sceneggiature su sceneggiature, spesso, senza alcuna risposta. Anche il poeta di successo deve comunque penare, perché vive in un ambiente superficialmente formalista con tutte le meschinità del caso.

Il racconto non mi “prende”. A fine lettura constato: poca tensione, nessuna emozione. Perché la critica che Martin Amis fa di questi ambienti è fin troppo facile. Nessuno si salva: ne' i due co-protagonisti, ne' tantomeno il mondo editoriale con le sue conversazioni sul niente.. Ed è appunto in questo generale deserto che non trovo appigli. Non perché non c'è positività, ma perché questa negatività generale è, per così dire, priva di dialettica: troppo lineare, troppo leggera. Come se l'autore stesso non fosse molto diverso da loro. Consapevole certo, ma, più che altro, dello strato comportamentale e delle conseguenti chiacchiere. Si legga di contro “L'integrazione” di Luciano Bianciardi, dove sotto l'ironia sarcastica palpita una autentica disperazione.

Martin Amis. Passaggi di carriera (Career move). Traduzione di Massimo Bocchiola. La biblioteca di Repubblica-L'Espresso. Pag. 71.

15 ottobre 2008

TRISTE, SOLITARIO E FINALE di Osvaldo Soriano

nota di Gianni Quilici

La storia sorprende: è un grande sogno pop, dove incontriamo un vecchio Stan Laurel, celebre, ma ignorato sull'orlo della fame, Marlowe povero e imbiancato,un John Wayne muscoloso e borioso,un Chaplin fragile e vigliacco e lo stesso Soriano, giornalista argentino ad Hollywood.

La bellezza del romanzo è nella malinconia, nel malessere, nel vuoto di orizzonti, in cui l'azione da noir poliziesco: cazzottate, sparatorie, inseguimenti, non hanno senso; sono solo un turbinio dietro cui leggiamo il vuoto, di una Hollywood morta.

Osvaldo Soriano. Triste, solitario e finale. Vallecchi.

Musica classica: solo uomini i compositori?

di Nicola Amalfitano

"Non ci sono donne compositrici, non ci sono mai state e, possibilmente, mai ci saranno". Sir Thomas Beecham, Direttore d'orchestra.
(International Encyclopedia of Women Composers, di Aaron I. Cohen, New York, 1981)

"Non c'è paese senza musica creata dalle donne. L'umanità sarebbe più povera senza il nostro contributo. Quando nascono i bambini, le madri cantano." (http://www.donneinmusica.org/pagina-biblioteca-archivio.htm)

Oggi sembrano superati i pregiudizi sulla creatività musicale della donna, eppure, per quanto riguarda la musica classica, la presenza di donne compositrici nelle riviste di settore, nelle opere editoriali di grande divulgazione, nei cataloghi discografici, è pressoché nulla.È storicamente evidente la posizione di inferiorità in cui sono state tenute le donne e questo ha generato, fra l'altro, il tardivo interesse nello scoprire il loro contributo artistico. Indubbiamente, le compositrici pagano lo scotto di un passato che relegava il ruolo della donna in ambito musicale ad uno spazio circoscritto all'intrattenimento degli ospiti o al diletto personale; un velleitario fatto di etichetta. Un esempio eclatante è dato da Leopold Mozart che si dedicò completamente al più giovane Wolfgang, ignorando il grande talento musicale da tempo espresso dalla figlia Maria Anna. C'è stato anche il tempo in cui alla donna era proibito suonare uno strumento pubblicamente, o fare parte di un'orchestra. Ma nelle case, nel chiuso dei monasteri, la donna componeva e suonava anche senza ambire ad un'eventuale, quanto improbabile, pubblicazione delle sue opere.
E anche l'arte pittorica, nella storia che si snoda attraverso le sue molte rappresentazioni, ci mostra una donna il cui talento si sprigiona nell'uso degli strumenti, piuttosto che nella meraviglia della composizione.
Eppure, già dalle più antiche civiltà le donne compositrici fanno parte del mondo musicale: sono le sacerdotesse babilonesi e quelle egiziane, le etére greche, le cantatrici arabe.
Nel Medio Evo, in Provenza, le "trobaritz" scrivono composizioni dedicate ai loro cavalieri; nei monasteri, suore si dedicano alla composizione di musica sacra; la mistica Hildegarde von Bingen è autrice di una ricca raccolta di canti sacri. Nel Rinascimento fra le tante autrici di madrigali, cantate, melodrammi, spiccano Barbara Strozzi e Francesca Caccini, figlia di Giulio.
Nel Seicento e nel Settecento ricordiamo nomi quali Isabella Leonarda, suora orsolina, Elisabeth Jacquet de la Guerre e Marianna de Martinez; ad esse si affianca Maria Rosa Coccia, prima donna a fregiarsi del titolo di Maestra Compositora dell’Accademia di Santa Cecilia a Roma.
Nell'età romantica ecco risaltare Fanny Mendelssohn e Clara Wieck Schumann; in tempi a noi più vicini, Cecile Chaminade, Biancamaria Furgeri, Teresa Procaccini.
E questi nominativi sono soltanto alcuni degli oltre 6000, catalogati dalla International Encyclopedia of Women Composers.
Ricerche musicologiche confermano che nel periodo tra il 1000 e il 1700, in Italia, sono state tramandate musiche di ben seicento compositrici.
In generale, è possibile ricondurre le musiciste-compositrici a quattro grandi categorie: le viandanti, con melodie, riti e tradizioni popolari; le figlie di musicisti che diventano, a loro volta, professioniste del cantare, suonare e comporre; le donne nobili e le “ben maritate” che alimentano il “mecenatismo culturale” e spesso compongono; le monache, che sfidano la Chiesa e il papato pur di produrre una propria musica.
(Una visione diversa - La creatività femminile in Italia tra l’anno Mille e il 1700, a cura di Patricia Adkins Chiti, Electa, 2003)

Letture e approfondimenti:

International Encyclopedia of Women Composers, Aaron I. Cohen, New York, 1981: informazioni biografiche, bibliografiche e discografiche su circa 6200 compositrici.

"Womencomposers", ricco database con biografie, è disponibile a questo indirizzo http://www.kapralova.org/DATABASE.htm

Fondazione Adkins Chiti: Donne In Musica http://www.donneinmusica.org/

La "Fondazione Adkins Chiti: Donne in Musica" nasce nel 1996 come evoluzione del movimento Donne in Musica che, sul finire degli anni '70, aveva iniziato ad occuparsi della promozione e della presentazione di musica creata e composta da donne in ogni tempo ed in ogni parte del mondo.

09 ottobre 2008

"MIRACOLO A SANT'ANNA" di James McBride

Recensione di Paolo Fusco

Ho letto con partecipazione la toccante lettera della Signora Didala Ghilarducci, e vorrei dire anche io due parole sul film "Miracolo a Colognora" di Spike Lee.
Concordo pienamente con la Signora Ghilarducci circa i palesi errori storici nella questione partigiana, mi permetto semmai di aggiungere che la signora ha indirizzato la sua lettera aperta a Spike Lee, forse dovremmo aggiungere tra i destinatari anche James McBride, autore dell'omonimo romanzo che Lee ha trasposto sugli schermi. Sono responsabili entrambi, senza scuse: il romanziere per non aver fatto sufficienti ricerche, il regista per essersi fidato troppo del romanziere.
Syd Field, professore (peraltro americano anche lui) autore del bellissimo saggio "Il film sulla carta" fornisce semplici regole per scrivere una sceneggiatura. La prima regola è: una volta stabilito il titolo, descrivere la storia in 10 righe.
Allora signor McBride come si intitola il suo racconto? "Miracolo a Colognora"?, benissimo, ora ci descriva la storia in 10 righe. "Il racconto parla di un gruppo di soldati di colore americani, che durante un'azione sul fiume Serchio si trovano separati dal proprio battaglione, e giungono in un piccolo paese, Colognora, molto vicino alle linee nemiche. Qui vengono a conoscenza delle azioni di un gruppetto di partigiani, tra i quali si mormora che si annidi un traditore, la cui identità effettivamente viene poi svelata. La storia ha un epilogo oltre 40 anni dopo, in America, dove l'unico soldato sopravvissuto (miracolosamente?) alla rappresaglia nazista a Colognora riconosce ed uccide il vecchio rivale". Ottimo signor McBride, la storia di "Miracolo a Colognora" è scritta bene. Come? Il titolo non è "Miracolo a Colognora" ma "Miracolo a Sant'Anna"? Non capisco....
E nemmeno io, spettatore italiano, capisco. Forse perché ho letto il libro di Syd Field. Caro professor Field, questi due scolari, Lee e McBride sono da bocciare entrambi! Hanno sbagliato già nella prima riga del loro progetto: hanno sbagliato il titolo!
Non voglio prendere le parti nè degli autori, nè della signora Ghilarducci, ma vorrei dire a quest'ultima che comprendo il suo profondo risentimento. Però l'errore storico (inequivocabile) è "figlio" di un errore precedente, errore di scrittura. Se l'errore storico offende le famiglie delle vittime ed i partigiani, l'errore di scrittura offende tutti noi spettatori. Comprendo benissimo che i sentimenti di chi ha vissuto in prima persona quei fatti non possono essere paragonati all'indignazione ben meno meritoria di un semplice spettatore, però questo io sono e come tale parlo. Se fossi stato partigiano o se avessi vissuto ciò che ha vissuto la signora sicuramente anche io avrei scritto la lettera che ha scritto lei. Non avendo la sua esperienza, mi limito a parlare di ciò che conosco, il cinema appunto.
In buona sostanza quindi, questo è un film scritto da americani, per un pubblico americano. A nessuno di loro importava veramente di Sant'Anna. E questa a casa mia si chiama strumentalizzazione, o se vogliamo opportunismo. Conosco i precedenti lavori di Spike Lee, e li ho amati. "Miracolo a Colognora" è un bel lavoro che fingendo di parlare della guerra mondiale in realtà parla della condizione dei soldati di colore in america, e lo fa bene, com'è nello stile di Spike Lee. "Miracolo a Colognora" ha una struttura semplice, senza grandi introspezioni, e con qualche grossolana approssimazione, come il pubblico americano medio (purtroppo) richiede, con un finale in cui i protagonisti si devono "per forza" incontrare di nuovo (che ha tanto il sapore del topolino del "miglio verde" piuttosto che dell'"Amico ritrovato" di Fred Uhlmann). "Miracolo a Colognora" è retorico, ha dialoghi mediocri, come buona parte del cinema americano. Questi sono secondo me i difeftti di "Miracolo a Colognora".
"Miracolo a Sant'Anna" non ha tutti questi difetti.... perchè non è ancora stato girato.

07 ottobre 2008

"MIRACOLO A SANT'ANNA" di Spike Lee

Contravvenendo alle norme redazionali che ci siamo dati in questo blog,
pubblichiamo una lettera che forse merita di essere più conosciuta.

LETTERA APERTA A SPYKE LEE di Didala Ghilarducci

Gentile regista, mi chiamo Didala Ghilarducci. Sono una vecchia
partigiana. Mio marito, Chittò, fu ucciso dai nazisti sui monti
versiliesi alcune settimane dopo la strage diSant’Anna di Stazzema, in
quel terribile agosto del ‘44. Mi sono risolta a scriverle perché
quello che leggo sui giornali a proposito del film che lei sta girando
mi fa sentire il cuore pesante come un macigno.
Pare infatti che nel film si avvalori la falsa tesi che la strage
venga compiuta a causa della ricerca di partigiani presenti in paese.
E’ una falsa tesi che i detrattori della Resistenza hanno sempre
sostenuto per dare ai partigiani la colpa di quella strage. Tutte
queste voci che si rincorrono sul contenuto delle scene girate a
Sant’Anna, se possono poco turbare lei, danno agli uomini ed alle
donne della Resistenza italiana una dolorosa inquietudine.
So che lei è un grande regista, so che nei sui film è riuscito sempre
a raccontare drammi, dolori ed oppressioni che ci hanno emozionato ed
hanno fatto crescere la coscienza civile anche qui in Europa. Di
questo soprattutto le sono grata. Ho lottato una vita per la
democrazia, i diritti civili e la libertà che non posso non trovarmi
accanto a chi combatte e denuncia ingiustizie e sopraffazioni. Proprio
per questo vorrei essere altrettanto brava da poterle non solo
spiegare, ma farle sentire in qualche modo, perché ogni finzione, ogni
aggiustamento di quanto avvenuto a Sant’Anna di Stazzema mi pare, ci
pare, inaccettabile.
Quando le persone, una comunità, hanno vissuto un lutto così profondo
e traumatico, comprenderà che conservino sul tema una sensibilità
esasperata dal dolore che brucia ancora la carne a distanza di
sessant’anni. Nel raccontare la sua storia, una storia importante non
solo per il suo Paese, lei ha scelto di fermarsi su quella piccola
piazza davanti alla chiesa, a Sant’Anna. Una piazza che io, come
altri, ho visto nel suo orrore reale ed inenarrabile nel ‘44. Il vento
può aver portato tra i boschi e verso il mare la cenere di quel rogo,
ma l’angoscia, il pianto e il sangue restano aggrumati là e resteranno
là nel tempo e nelle nostre coscienze di uomini e donne. Se lei,
gentile regista, si soffermerà in questo pensiero allora capirà come
non sia possibile in quella piazza raccontare un’altra morte.
Non lo possiamo fare per le vittime, non lo possiamo fare per quei
ragazzi e quelle ragazze della Resistenza rimasti sui monti insieme a
loro a ricordarci per sempre l’orrore della guerra e il prezzo
altissimo della libertà. Se togliamo loro la storia, allora li
priviamo del senso della loro morte. E questo non è possibile in
quella piazza. In un’altra ricostruita altrove, ma non lì. Non riesco
ad immaginare che per raccontare una storia di diritti e di persone si
finisca per sottrarre la propria storia ad altre vittime. Ecco,
gentile regista, le ho aperto il cuore nella speranza che in qualche
modo da lei possa giungere una risposta che ci faccia comprendere che
il senso del faticoso cammino di impegno civile, di riconciliazione
che come comunità e persone abbiamo ricercato e percorso in questi
sessant’anni, non sarà disperso.
6 novembre 2007


Di nostro ci mettiamo il suggerimento di visitare i seguenti link:

* Atti integrali dell'inchiesta sulla strage di Sant'Anna di Stazzema


* Tribunale militare di La Spezia, sentenza per l'eccidio di Stazzema


* Una mattina di agosto - puntata integrale de "La Storia siamo noi"

(digitare "Stazzema" nello spazio sotto la dicitura "Cerca nel sito")