28 febbraio 2022

"Donna sulle scale" di Bernhard Schlink

 


di Giulietta Isola

       “Non mi lamento degli anni che passano. Ai giovani non invidio il fatto di avere ancora la vita davanti: non vorrei affrontarla un’altra volta. Gli invidio invece il fatto che il passato alle loro spalle è breve, quello si. Da giovani il nostro passato è gestibile. Possiamo dargli un senso, anche se di volta in volta diverso. Adesso, guardando indietro, non so dire cosa è stato un peso e cosa un dono, se il successo è valso il prezzo da pagare, cosa si è compiuto nei miei incontri con le donne e cosa invece mi è stato negato.”

Una donna nuda scende le scale, leggiadra quasi fosse sospesa nell’aria. E’  Irene, moglie del ricco industriale Gundlach ritratta dal pittore Karl Schwind, l’amante. Sia della donna che del quadro si sono perse le tracce da anni fino a che, quest’ultimo, ricompare all’improvviso all’Art Gallery del teatro dell’Opera di Sidney. Il mondo dell’arte è sorpreso, l’avvocato che anni prima, si era occupato della lite fra Gundlach ed il pittore che se lo trova davanti durante la visita, è sconcertato. La sofisticata Irene, volitiva e misteriosa, contesa da due uomini, è stata un unico sprazzo di luce nella sua vita trascorsa senza scossoni fra conformismi ed abitudini , imbrigliata in un percorso professionale di successo che non lascia posto a desideri, brividi, passione. Oggi l’avvocato guarda, ipnotizzato, il quadro che lo ha morbosamente ossessionato ed a distanza di anni decide di indagare sulla misteriosa sparizione di quadro e soggetto. Sa che il passato non può tornare, sa che Irene avrebbe potuto essere la libertà, l’abbandono, l’eros, la spinta per osare, ma da lei si è lasciato manipolare, la ha aiutata per poi perderla, è stata solo un sogno sfumato al risveglio. 

        Si ritroveranno, ma sarà troppo tardi per ridisegnare la vita, ma non troppo tardi per esplorare il proprio passato e riflettere sulla mancanza di passioni e sull’ossessiva ricerca del decoro e del successo professionale. Irene incontrerà per l’ultima volta gli uomini della sua vita: il marito, il pittore e l’avvocato il quale, in un gioco brutale con il destino, vede ciò che avrebbe potuto essere, si inventa nuove vite e nuovi desideri , immagina di essere un uomo diverso da quello che ha scelto di vivere un’esistenza comoda, ma senza passione in una gabbia dorata, immagina ciò che non avrebbe mai osato immaginare. 

        Bernhard Schlink con questo racconto intimo e sofisticato , malinconico come un tramonto, ci trasmette la profonda riflessione di un uomo ordinario sulla vita che non ha saputo cogliere con le sue infinite possibilità , un uomo che è rimasto ai margini e nel quale è facile riconoscersi per giustificare i nostri peccati e la nostra insicurezza nel non pretendere la felicità. 

       E dell’amore vogliamo parlare? Come no, è molto presente nelle pagine carnale, egoista, pieno di rimpianti e di nostalgia per ciò che poteva essere e non è stato, per paura, sfiducia o mancanza di coraggio. Una bella lettura «una struggente meditazione su ciò che si è perduto e rimpianto».

DONNA SULLE SCALE di BERNJHARD SCHLINK NERI POZZA EDITORE

 

27 febbraio 2022

“Amorologia” di Teresa Cinque

 

di Carla Rosco

       “Ecco, fare l’amore somiglia alla meditazione perché è un esercizio di presenza ... Quello che accade, se accade bene, è talmente intenso e coinvolgente che ti ancora al presente ... un esserci di più, che ci placa e ci snebbia”.

       Queste parole si trovano nelle ultime due pagine del libro “Amorologia” di Teresa Cinque, guida (quasi) imparziale alle relazioni e al sesso.

      Per approdare a queste confortanti e belle parole si attraversano pagine e pagine dei tormenti che invece la relazione tra i sessi comporta, visto che non siamo certo educati a vivere in pace e in armonia. Non solo, siamo piuttosto inibiti nella conoscenza del corpo e delle sue esigenze: gravano dentro di noi secoli di paure e di imperativi di tipo religioso e sociale.

       La scoperta gioiosa e leggera dei nostri desideri è da costruire con pazienza, con l’aiuto del partner giusto, in qualche caso di un terapeuta. C’è poi l’aspetto affettivo che complica le cose: “Una persona che va nel mondo con il conto affettivo in rosso ha forte bisogno di ripianare ... Il fatto di dare rappresenta per lui o per lei un pericolo, perché sentendosi in difetto, in debito, non può permettersi il lusso di fare dei versamenti”. Bisogna perciò stare ben attenti a non fare affidamento su una persona che non è in grado di amare. Occhi ben aperti per capire se sia possibile creare un legame sereno.

Vuoi di amore vuoi di amicizia.

       “ In pratica c’è una regola basica, che nel corso del libro rielaborerò in varie salse per incontrare il vostro palato raffinato in punti diversi, che è quella del sapore. Sa di buono? Bene. Sa di cattivo? Lassa perde”.

        La scrittura dell’autrice è molto vivace, molto libera e divertente, anche quando affronta con profondità aspetti complessi, spesso facendo riferimento all’esperienza personale: “Partendo da una base di non eccessiva stabilità emotiva mescolata con una particolare predisposizione ad espormi, ho molto viaggiato nei territori dell’amore”.

      Nel capitolo intitolato “La rabbia delle donne”, partendo da un’esperienza personale dice sacrosante parole sull’accumulare frustrazione e rabbia delle donne: “viviamo in un sistema patriarcale che ci reprime, ci ostacola, ci svantaggia, ci dileggia, ci oggettifica, ci usa, ci stupra, ci molesta, ci giudica, ci critica, ci blocca, ci tarpa ... ovvero c’è in ballo una sex war, bruttissima espressione anche tradotta in italiano, anzi lasciamola in inglese proprio per tenere una distanza”.

       Un libro ricchissimo con le sue  313 pagine, che lascia la voglia di sfogliarlo di nuovo.

     


Teresa Cinque (pseudonimo di Elisa Giannini), toscana, lavora in ambito artistico: la scrittura, il video, l’installazione, la recitazione e il teatro. Diffonde i suoi monologhi satirici anche sui social. “Amorologia” è il suo primo libro.

 AMOROLOGIA di TERESA CINQUE  Longanesi   pag. 313  euro 16

 

 

 

 

18 febbraio 2022

"Beppe Fenoglio: considerazioni" di Davide Pugnana

 


           Il 18 febbraio 1963, a soli 41 anni, moriva Beppe Fenoglio, scrittore letto pochissimo dal grande pubblico; adorato oltre modo da chi approccia alla letteratura con piglio tecnico; squisitezza dei docenti universitari di letteratura contemporanea e non; idolo intoccabile dei Club fenogliani disseminati in giro per l'Italia.

       Nel mio piccolo anch'io posso vantare ormai un appartato decennio di frequentazione dei romanzi e dei racconti di Fenoglio. Davanti a questo scrittore posso dire che aveva ragione Roland Barthes quando scrisse che le passioni di un lettore sono destinate a vivere dentro piccole solitudini. Con i testi di Beppe Fenoglio questa condizione di isolamento mi ha portato, negli anni, a farne un culto privato. Questa marginalità non è da imputare a Fenoglio; ma va ricercata lontano. 

       Per la narrativa, ad esempio, a scuola si prediligono i politissimi Primo Levi e Italo Calvino, dei quali gli insegnanti parlano di straforo, tra le bighe di rosse formiche di Montale e le fragili, pendule foglie sugli alberi d'autunno di Ungaretti. Così finisce che pochissimi leggono Fenoglio, mentre altri perdono completamente l'occasione di conoscerlo. 

       Spesso guardo le foto che lo ritraggono: Fenoglio era un alto gentleman all'inglese, sempre elegante, con l'eterna sigaretta in mano; i capelli corti a spazzola, il viso rasato e plastico, scolpito nel legno, crivellato di epidermiche imperfezioni come buccia d'arancia. In alcuni scatti ci guarda seduto su un sasso, la camicia bianca, la cravatta, la pochette, le lunghe gambe da infaticabile camminatore come quelle di Pavese, mentre alle spalle occhieggiano le lande lucidate dal vento delle Langhe che sembrano una porzione della brughiera inglese di "Cime tempestose". 

       Fenoglio me lo sono sempre immaginato come uno che doveva pensare costantemente alla scrittura, sentita come un tarlo sublime, come "una fatica nera"; ma le ore della sua giornata scorrevano dentro una prestigiosa azienda vinicola che lo costrinse a dedicarsi alla scrittura solo nei ritagli di tempo. E il tempo per scrivere Fenoglio se lo ricavò, in ufficio e a casa, di sera e di notte, tra i colpi di tosse, sempre con la tenacia di chi avverte la scrittura come un modo di conoscersi e di comprendere se stessi, l’uomo, il proprio tempo, tutto quanto è passato ed è stato vissuto.

      Rispetto a quei congegni mirabili che sono i racconti; rispetto alla plasticità da bassorilievo intagliato nel legno della "Malora" e rispetto al fiabesco venato di ariostismo di 'Una questione privata", nella narrativa italiana un'opera come "Il partigiano Johnny" è un tentativo enorme per un romanziere. Nonostante sia incompiuto, le intenzioni e i risultati sono di respiro europeo già da due elementi portanti: il modello epico, sulla linea di un epos romanzesco il cui dna si incunea tra "Moby Dick", "Orcynus Orca" di D'Arrigo e Céline; e lo sperimentalismo linguistico con quell'innesto vertiginoso di inglese e italiano (il "fenglese") su modulazioni stilistiche via via diverse, e che danno vita ad un corpo lessicale nuovo nell'alveo della lingua letteraria del romanzo italiano. Questo Fenoglio estremo è, per me, di grande coraggio e innovazione anche nel "non finito". Scrive con la solita finezza Davide Brullo: "La strategia delle scelte è decisiva. Intanto, Beppe vuole come maestri di lingua i poeti. Perciò, Il partigiano Johnny ha il ritmo dell’epica, la sinfonia del poema celeste, possiamo giocare a spezzarlo in versi, reggerebbe benissimo."

        Voglio dirvi una cosa a questo proposito. Se aprite a caso una pagina qualunque di Beppe Fenoglio - un romanzo, un racconto, una nota di diario - non importa quale gusto, fiuto o cultura vi guidino, vedrete che, in qualunque punto del testo vi troviate, esso funziona sempre, come il più preciso dei meccanismi d'orologeria e il più perfetto dei mondi. 

      Vogliamo provare? Tenetevi forte. L'attacco del "Partigiano Johnny": "Aleggiava da sempre intorno a Johnny una vaga, gratuita, ma pleased and pleasing reputazione d’impraticità, di testa fra le nubi, di letteratura in vita… Johnny invece era irrotto in casa di primissima mattina, passando come una lurida ventata fra lo svenimento di sua madre e la scultorea stupefazione del padre.

        O quello de "I ventitré giorni della città di Alba", ironico e folgorante: “Alba la presero in duemila il 10 ottobre e la persero in duecento il 2 novembre dell’anno 1944”. Con "Una questione privata" siamo subito dentro un spazio che vorremo abitare: "La bocca socchiusa, le braccia abbandonate lungo i fianchi, Milton guardava la villa di Fulvia, solitaria sulla collina che degradava sulla città di Alba. Il cuore non gli batteva, anzi sembrava latitante dentro il suo corpo.

       Ma in gioco ci sono anche i racconti, con la loro avara, centellinata economia narrativa. Quando scopri quelli di Fenoglio resti di sasso. Per un attimo hai l’impressione di aver ficcato due dita nella presa elettrica e di aver avuto la scossa. Non perché quelle parole ti elettrizzino, ma perché ti bruciano: nel senso, semplice e vero, che sono brucianti. Di fronte a un attacco del genere non puoi che restare di stucco: «Alla fine di giugno Pietro Gallesio diede la parola alla doppietta. Ammazzò suo fratello in cucina, freddò sull’aia il nipote accorso allo sparo, la cognata era sulla lista ma gli apparì dietro una grata con la bambina ultima sulle braccia e allora lui non le sparò ma si scaraventò giù alla canonica di Gorzegno. Il parroco stava appunto tornando da visitare un moribondo di là di Bormida e Gallesio lo fulminò per strada, con una palla nella tempia». Una furia omicida raccontata così sembra un’orchestra che suona nell'ombelico di un temporale, qualcosa che c’investe e ci butta a terra. Del protagonista Gallesio non sappiamo ancora niente, ma ci sembra di saperne già tutto. Ci pare di averlo capito grazie a una scintilla d’intuizione che nasce dall’attrito fra le parole. 

       Leggere Fenoglio significa fare esperienza di diseredati, campagne, fucilate, staffette, inglesismi, vendette, inseguimenti, condotte virtuose e ripugnanti. Leggere Fenoglio significa fare i conti con una pagina calibratissima, con una prosa scaturita da un purosangue; significa stare al fianco di un fuoriclasse dei dialoghi crudi, dei passaggi mozzafiato, di incipit straordinari che fanno rimanere incollati al racconto fino in fondo; ma anche un cantore di polarità strazianti, come amore e guerra mescolati insieme perché è la vita a farlo, prima della narrativa. 

       Chissà che questo vento fenogliano del centenario farà riprendere in mano qualche testo già letto o lo farà leggere per la prima volta. Il mio consiglio a questi ultimi: non indugiate oltre, lasciatevi traumatizzare dalla bellezza del genio fenogliano.