26 ottobre 2011

"Shorts" di W. H. Auden

di Gianni Quilici

Auden è un grande poeta, che poco conosco. Tuttavia prendo questo libriccino di “shorts” come se fosse l'unico, come se fosse senza passato e senza futuro.

Auden aveva due possibilità in queste “Shorts”. Fare poesia oppure pensieri, in quella forma secca, che, in poche righe, riesce a trasmettere un senso.

Invece opera soprattutto una terza cosa: una riflessione su circostanze o persone, che certamente non esclude la possibilità di diventare poesia o pensiero.

Il risultato è disuguale, perché queste schegge rimangono, in genere, personali, non riescono, a me pare, a diventare percebili universalmente, perché o non sono puramente visive (esempio quelle di Roland Barthes in “Incidenti”) o non sono sufficientemente pensose (penso a Canetti aforistico o al Baudrillard di “Cool Memories” e sopratutto al maestro di tutti, Nietzsche)


Si nascose vedendo

un Pastore appressarsi

con aria corrucciata


Abbandonando le sue mogli

si dileguò con i suoi gioielli

e con duecento cani


Infilando i calzini,

ricorda che suo nonno

restò secco nel farlo

Sono immagini di un possibile racconto... si leggono e lasciano, più o meno, indifferenti


Ci sono invece “shorts” che lasciano un'eco, una risonanza. Soprattutto a leggerli in originale.

Serata di settembre:

loro due soli, intenti a mangiare

il granturco dell'orto,

colto mezz'ora prima.

Fuori: tuono, rovesci di pioggia.


Oppure

I suoi pensieri andavano su e giù

dai versi al sesso a Dio

senza punteggiatura.

La conclusione: forse non si può leggere degli “shorts” come questi senza aver letto le opere più significative di Auden. Ma tant'è!

W. H. Auden. Shorts. a cura di Gilberto Forti. Piccola Biblioteca Adelphi. Euro 9.00

22 ottobre 2011

"deleuze cinéphile" di Fabrizio Denunzio

di Mimmo Mastrangelo

E in principio furono i Cahiers du Cinema e la Nouvelle Vague.

Gilles Deleuze (1925-1995) non ne fece mai un mistero in vita, tutta la sua primaria curiosità, il suo piacere verso il cinema lo dovette alla politica degli autori dei Godard, dei Truffaut, dei Rivette, dei Resnais e agli interventi critici-teorici del fondatore dei Cahiers André Bazin. E Deleuze, che stato uno dei più ricercati studiosi che ha analizzato il cinema con gli strumenti della filosofia, dai “nuvellisti” fece propria quella particolare condizione di relazionarsi con le ombre delle schermo che è la cinefilia.

Il filosofo parigino fu un cinéphile (cinefilo) nel senso che alla passione, all’amore per le immagini in movimento agganciò un tracciato teorico così come viene dimostrato in un piccolo ed interessante saggio di Fabrizio Denunzio, docente all’Università di Salerno di Teoria e Tecniche del Linguaggio Radiotelevisivo e Sociologia dei Processi Comunicativi.

Deleuze cinéphile, edito da Liguori Editore, si tiene a distanza dalle teorie cinematografie ben affrontate e toccate dallo studioso nei conosciuti “L’immagine movimento” (1987) e “L’immagine tempo” (1989), punta piuttosto a palmare il “disegno di una passione”, i tratti più vivi di un amore. E lo fa inseguendo le sensazioni che Deleuze provò davanti ai disegni del lungometraggio d’animazione “Alice nel paese delle meraviglie” (1951). Dalla visione del cartone animato firmato da Clyde Geronimi, Hamilton Luske e Wilfred Jackson il filosofo arrivò alla conclusione che “ogni immagine cinematografica è sempre implicata nel movimento del fotogramma che la precede e in quella che la seguirà”.

Altre “tappe” importanti su cui Denunzio si sofferma del Deleuze cinéphile sono ( e non poteva essere altrimenti) le lezioni tenute dal 1968 al 1980 al Dipartimento di Filosofia di Vincennes, filmate da Marienne Burkhalter, nonché le trasmissioni televisive di Godard pensate registrate a metà degli anni settanta non tanto per capire la tv in quanto tale ma per individuare le pratiche che la vanno trasformando come mezzo di comunicazione.

Interessanti del libretto sono pure gli altri brevi capitoli sulle attenzioni di Deleuze a Peirce , Foucault e a come il cinema possa cambiare nello spettatore la percezione del sapere.

Infine fa bene Denunzio a non sottovalutare di Deleuze il suo ultimo scritto sul cinema relativo al film di Jacques Rivette “Una recita a quattro” (1989). Qui, nel confermare tutta la sua cinefilia, Deleuze evidenziò l’intransigente compito della critica di formare concetti che non sono direttamente dati, esplicitati nello scorrimento delle sequenze di un film.

FABRIZIO DENUNZIO. I “DELEUZE CINEPHILE”. LIGUORI EDITOREPAG 96. EURO 12.90

"Au bon coin" foto di Robert Doisneau

di Caterina Donatelli
Giorni fa dal commercialista, nell’attesa sfoglio un supplemento de Il Sole 24 Ore, sulle pagine trovo un articolo intitolato: ‘La Parigi di Doisneau’.
Osservo gli scatti in bianco e nero chiedendomi se Parigi era così come la raccontava Robert Doisneau, o se le foto di Doisneau, raccontano una Parigi altra, immaginaria, invisibile. Una, in particolare, attira la mia attenzione è del 1945, dal titolo: ‘Au bon coin’.
L’incontro di due strade, disegna i margini di un isolato di costruzioni amare e spoglie, di diversa altezza. Al centro, spingono le geometrie della pavimentazione urbana, buttando l’occhio sul prospetto di un edificio in mattoni svettante sulla piattaforma del marciapiede come una prua incagliata nella crosta di una bottega, con l’insegna che dà il nome allo scatto. Da poco ha smesso di piovere, il cielo si annulla nel grigiore invernale, il piano della città, umido e lucido, armonizza il ritmo degli spazi e delle forme; un uomo solo cammina dentro al suo cappotto scuro, ha aspettato che spiovesse per uscire di casa, un sacchetto o il cestello del latte, in una mano, l’altra, nella tasca per nasconderla al freddo. E’ appena passato, o sta andando via dal nostro sguardo; invita a muoverci sul muro verticale steso a celare il prospetto e guida veloce, sulla linea dell’orizzonte sgretolata dalla nebbia, avvolgente e morbida, succhiata da fantasmi di architetture. Una matematica prospettiva ci riporta indietro lungo un margine indefinito, che io decido sia la Senna, accompagnati da un passante; pedina astuta messa a servizio della figura centrale che continua ad andare, o ad arrivare. Dall’altra parte, i tetti tirati verso l’alto, trattengono le pareti che scandiscono la fine dell’inquadratura, con un vuoto salvifico, da dove emergono estetiche presenze, fatte di piccoli spostamenti a costruire un triangolo cinematico perfetto; punteggiature esatte su una trama vibrante, dissolta nella lontananza.
Non so quale Parigi sia, ma di certo è una delle tante, forse la più bella, che danzano sulle fisarmoniche della mia mente.
p.s.: ho strappato la pagina dal giornale e me la sono messa in borsa. Non ditelo al mio commercialista.
Robert Doisneau. "Au bon coin"

19 ottobre 2011

“Qui finisce l'Italia” di Gilles Coton e "Pier Paolo Pasolini. La lunga strada di sabbia" di Philippe Séclier

di Gianni Quilici

Questo film ha una sua storia, che qui sinteticamente riporto.

Incomincia nel giugno 1959, quando Pasolini, su commissione del rotocalco Successo, inizia un viaggio lungo l'intera costa italiana, che, dal confine della Francia, lo porterà nell'agosto dello stesso anno a Trieste, mentre il fotografo Paolo Di Paolo, che viaggerà per conto suo, avrà il compito di illustrare fotograficamente i luoghi. Soltanto nel 1998, il testo viene pubblicato da Mondadori, ne “i Meridiani” in “Romanzi e racconti 1946-1961

Nell'estate 2001 il fotografo Philippe Séclier, accompagnato da due documentaristi cileni, ripercorre lo stesso viaggio di Pasolini, trovando nel percorso, egli scrive, diverse coincidenze inquietanti: a Ischia, nell'albergo Savoia, dove il poeta aveva soggiornato, ed ora in stato di abbandono, trova una valigia e un mucchiodi manoscritti sparsi sul pavimento; una foto di un Pasolini radioso, in un vecchio salone di un barbiere di Cutro, in Calabria, proprio il paese in cui era nata una forte polemica, perchè da lui definito “il paese dei banditi”; in Puglia, a Selva di Fasano, viene impressionato da una Fiat 1100, lo stesso modello con cui Pasolini aveva viaggiato allora, sbucata da un incrocio, che gli si mette davanti; all'arrivo a Trieste scoppia un temporale simile a quello descritto allora da Pasolini. Nel 2005 il fotografo conosce Gabriella Chiarcossi, cugina ed erede di Pasolini, che gli affida il dattiloscritto originale e lì Philippe Séclier scopre che in quei foglietti ingialliti molti brani sono inediti, probabilmente tagliati dalla redazione di Successo.

Nasce così un bellissimo libro, “Pier Paolo Pasolini. La lunga strada di sabbia” , dove, ai testi integrali di Pasolini, si aggiungono alcuni dattiloscritti e in più il manoscritto dell'albergo Savoia. Le foto di Séclier colgono efficacemente il testo pasoliniano tutto occhi, sensi e impressioni immediate, con immagini tra il realistico e il metafisico, che lasciano trapelare, alludendo, accennando, simboleggiando.

Nell'estate 2009 anche un regista belga, Gilles Coton, ripercorre quel viaggio, accompagnato dalla lettura del testo originale. Il risultato non è, ovviamente, un documentario su Pasolini, ma un film on the road. C'è la strada con l'asfalto che corre, ci sono trasmissioni radiofoniche tra la chiacchiera e l'evasione musicale, c'è la lettura delle parole pasoliniane di 50 anni prima, ci sono immagini dell’Italia di oggi con le testimonianze di intellettuali come Claudio Magris, Massimo Cacciari, Mario Monicelli e quelle più direttamente politiche di Giuliano e Heidi Giuliani, di Mimmo Nasone, dell'associazione antimafia “Libera”, ci sono le parole di persone comuni incontrate, tra cui alcuni immigrati.

Un progetto ambizioso, che funziona solo a tratti.

Il regista aveva davanti due possibili propositi: fare un'inchiesta sui mutamenti dell'Italia rispetto ad allora o realizzare un documentario di poesia “alla Pasolini”, soggettivizzando sguardo e parola, in una sorta di corpo a corpo con il testo del poeta-regista friulano.

Ha scelto la prima strada. Una scelta non facile in uno spazio così grande rispetto ad un tempo cinematografico limitato. Le interviste sono troppe e a volte (vedi quella su Sbarbaro) collegate meccanicamente; le immagini nella loro volatilità finiscono per essere, spesso, descrittive, raramente riescono ad emozionare. Un documentario tuttavia onesto con qualche sequenza da ricordare (il maestro calabro, l'immagine di una Cutro deserta e anonima).

Qui finisce l'Italia è disponibile per proiezioni pubbliche in copie video in versione italiana, per tutto il 2011. Maggiori dettagli sul film, il trailer e link ad altri contenuti, oltre al modulo per prenotare una proiezione, alla pagina web: www.cineagenzia.it/quifiniscelitalia. (fonte: Cineagenzia)


Philippe Séclier. Pier Paolo Pasolini. La lunga strada di sabbia. Contrasto.

Qui Finisce l'Italia

Regia: Gilles Coton (opera prima)
Anno di produzione: 2010
Durata: 85'
Tipologia: documentario
Paese: Belgio
Produzione:
Playtime Films
Formato di ripresa: XD Cam
Formato di proiezione: Video, colore
Ufficio Stampa:
Gaia D'Angelo


14 ottobre 2011

"Che cos'è la scienza" di Carlo Rovelli

di Bona De Villa

Carlo Rovelli è un fisico teorico, studioso della gravità quantistica. Questo scienziato dedito a discipline astruse spiega in modo chiarissimo e appassionato, in questo breve saggio, quali sono i tratti essenziali del pensiero scientifico e come si confronta con il relativismo culturale e il pensiero dell' assoluto.

Per darci un'idea di come si possa sviluppare l' avventura dell' immagine del nostro mondo, Rovelli elegge come rappresentante dello spirito scientifico un presocratico vissuto sulla costa ionica: Anassimandro.

In un' epoca in cui i fenomeni naturali erano attribuiti all' intervento di esseri divini e si credeva fermamente che la Terra non potesse fare a meno di sostegni per non cadere, Anassimandro intuisce il ciclo delle acque e ha l' audacia di ipotizzare che ci troviamo sopra un sasso che galleggia nello spazio, sospeso sul nulla. Seguiamo poi il filo che lega Anassimandro a Einstein e Heisenberg.

Pur avendo adottato un linguaggio accessibile ai non addetti ai lavori, l' autore aggiunge un "glossario ragionato" di termini e concetti fondamentali.

Carlo Rovelli. Che cos'è la scienza. La rivoluzione di Anassimandro. MONDADORI UNIVERSITA'- 2011. SCIENZA E FILOSOFIA – Collana diretta da Armando Massarenti


10 ottobre 2011

" Qualcosa da ricordare 1861-1915" di Bellucci, Civile, Danesi

di Luciano Luciani

Il libro più interessante tra i molti editi in occasione del 150esimo anniversario dell’unità d’Italia l’hanno scritto Maria Bellucci, Francesca Civile e Brunella Danesi, tre insegnanti di scuola superiore per la casa editrice pisana ETS. Si intitola Qualcosa da ricordare 1861 – 1915 e costituisce una densa pubblicazione, costruita per brevi e documentati saggi, in cui si ricordano i contributi offerti alla formazione del nuovo Stato da scienziati, politici, uomini di cultura in gran parte dimenticati e, in relazione a queste figure, si illustrano aspetti significativi della società del tempo.

Si racconta, per esempio, che i problemi affrontati dall’élite liberale postunitaria furono molteplici e di natura non facile; alterni i risultati: moderno avanzamento in alcune parti d’Italia, stagnazione, o addirittura regresso, in altre. Si racconta di un Ottocento liberale e riformatore, capace anche di qualche grandezza.

Nella seconda metà del secolo, ad esempio, a livello ministeriale, esso ha mostrato i volti di personaggi sulla cui competenza e onestà d’intenti non è dato eccepire: siano sufficienti i nomi di Cesare Matteucci, Giuseppe Zanardelli, Luigi Luzzatti, Leopoldo Franchetti il conservatore che piaceva ad Antonio Gramsci.

Importante, poi, la cultura scientifica in Italia che, almeno sino al 1915, fu di alto livello, apprezzata su scala europea e internazionale, specialmente nei campi della matematica, dell’astronomia e della biologia. Alla prima generazione, che ebbe la funzione di traghettare gli ideali risorgimentali nelle pieghe dello Stato unitario, appartengono Quintino Sella, Enrico Betti, Francesco Brioschi, Stanislao Cannizzaro, Pietro Blaserna, Virginio Schiaparelli; della seconda fanno parte Vito Volterra, Luigi Cremona, Giovanni Celoria, Giovan Battista Grassi, Camillo Golgi, Angelo Celli, Augusto Righi, Guido Baccelli, Federigo Enriques, Tullio Levi-Civita, Guido Castelnuovo, Eugenio Rignano.

La costituzione della Società per il Progresso della Scienza, la nascita della rivista “Scientia” e le vicende della nascente editoria scientifica arricchiscono ulteriormente questo panorama. È noto che, poi, sulla scienza italiana e sulla conoscenza scientifica si abbatté la iattura della filosofia neo-idealista e gentiliana che, anche con il supporto della dittatura fascista, ne bloccò le potenzialità e le aspirazioni a diventare asse formativo, nella scuola e nella società, com’era negli intendimenti e nei programmi di Matteucci, di Volterra e di Enriques.

Oggi che le analisi storiche si sono fatte più attente e circostanziate, conosciamo meglio qual è stato il valore della cultura scientifica nel periodo preso in considerazione da questo libro, ciò che essa ha rappresentato nell’avvio del Paese verso la modernità e, dunque, anche ciò che è stato perduto.


Maria Bellucci – Francesca Civile – Brunella Danesi, Unità d’Italia Qualcosa da ricordare 1861 - 1915, Edizioni ETS - Naturalmente scienza, Pisa 2011


05 ottobre 2011

“Diario del primo amore” di Giacomo Leopardi

di Gianni Quilici

Che bel diario questo scritto da Giacomo Leopardi nel 1817, a 19 anni e mezzo!
C'è innanzitutto il candore, la curiosità, la passione con cui vive la visita di una “Signora Pesarese, parente più tosto lontana, di ventisei anni, alta e membruta quanta nessuna donna...di volto però tutt'altro che grossolano, lineamenti tra il forte e il delicato” e così via. Tuttavia, come il suo solito, il poeta è silenzioso, le tiene sempre sopra gli occhi, mentre lei gioca a carte coi suoi fratelli; soltanto la sera dopo riesce a giocarci, e scrive “ io per la prima volta aveva fatto ridere con le mie burlette una dama di bello aspetto e parlatole, e ottenutene per me molte parole e sorrisi...”, ma nonostante questo il poeta conclude “n'uscii scontentissimo e inquieto”. La mattina la signora parte, e lui aspetta “un buon pezzo coll'orecchio avidissimamente teso per sentirne la voce per l'ultima volta.”

C'è qui la solitudine di un giovane coltissimo, sensibilissimo e acutissimo, che si trova a vivere, da nobile e debilitato fisicamente, in un borgo di contadini e pastori “ignoranti”, in uno Stato arretratissimo culturalmente e autoritario politicamente: lo Stato Pontificio. La sua solitudine intellettuale è insieme isolamento fisico e sublimazione dei desideri sessuali, che forse, a leggere le parole che seguono, conosce relativamente.

Scrive, infatti, Leopardi:
Mi posi in letto considerando i sentimenti del mio cuore, che in sostanza erano inquietudine indistinta, scontento, malinconia, qualche dolcezza, molto affetto, e, desiderio non sapeva né so di che, né anche fra le cose possibili vedo niente che mi possa appagare”.
In questo passaggio balza agli occhi il secondo elemento (notevole) del Diario: l'analisi quasi ossessiva dei sentimenti, condotta sempre con il necessario distacco. Leopardi capisce, infatti, che questi sentimenti amorosi possono essere dettati dall'inesperienza e dalla “novità del diletto” e li analizza con spietatezza, cogliendone aspetti positivi e negativi e sapendo che il tempo, la poesia e i sogni di gloria potranno guarire questo amore.
Ecco, l'aspetto più profondo del Leopardi è questa miscela tra la passione ingenua e poetica e la lucidità con cui si osserva in una sorta di sdoppiamento: da una parte egli soffre per i fortissimi desideri inappagati; dall'altra sottopone questo innamoramento ad una analisi fredda e spassionata per capire e uscire da quello stato. In altri termini Leopardi tende a relativizzare-relativizzarsi, ponendo se stesso in un itinere esistenziale, che intuisce essere all'inizio. Ciò che ora gli può sembrare tragedia, domani forse non lo sarà; quindi, sottoponendo i suoi stati d'animo ad un'analisi dettagliata, pur soffrendo, crea consapevolezze che relativizzano il suo dolore, riducendolo.

Questo approccio mentale di abbondono alla bellezza contemplatrice e insieme di riflessione radicale su di sé e sul cosmo sarà la cifra stilistica e psichica del Leopardi dei Canti, delle Operette morali e dello Zibaldone.

Giacomo Leopardi. Diario del primo amore. A cura di Alvaro Valentini. Francisci Editore.


"WAM La vita e il tempo di Wolfgang Amadeus Mozart" di Piero Melograni

di Maddalena Ferrari


Scartabellando fra i libri a metà prezzo, sezione musica, in vari remainder, mi sono più volte imbattuta in un titolo in parte singolare: WAM-La vita e il tempo di Wolfgang Amadeus Mozart di Piero Melograni. Bella rilegatura, sovracopertina suddivisa orizzontalmente in una parte nera, in basso, ed in una bianca, in alto; sul nero, la scritta bianca in corsivo WAM; sul bianco, silhouette di personaggi d'opera, precisamente de “Le nozze di Figaro”.

Pur essendo un'adoratrice, mi si passi il termine, del musicista, non mi sono mai decisa non solo a comprarlo, ma nemmeno a sfogliarlo. L'autore, uno storico più che un musicologo, non mi dava sufficienti stimoli; e poi, quanti libri ho su Mozart...!

Finché un giorno, in una libreria di Bologna, trovandomelo di nuovo davanti agli occhi, mi mi sono chiesta: perché no? L'ho sfilato dallo scaffale e mi sono messa a leggiucchiare qualche pagina: innanzitutto la prefazione, “Perché WAM”, dove lo scrittore spiega la scelta del titolo e afferma che “Mozart fu grande anche perché sapeva divertirsi. Possedeva in sé tutti gli stati d'animo che la musica è in grado di esprimere (...)”. E poi, confutando la superficialità del cliché del genio che crea di getto, sottolinea l'applicazione, la fatica, lo studio e l'impegno profusi dal musicista fin dalla più tenera età, per poter arrivare a comporre velocemente e ad improvvisare fantasiosamente; ne mette in risalto la capacità di sentire la musica prima di scriverla, l'eccezionale memoria.

Successivamente ho dato una scorsa ad alcune delle ultime pagine, il “Congedo” e qui Melograni traccia l'itinerario della scrittura del libro, dall'idea di Antonella Laterza di chiedergli una breve storia della vita di Mozart destinata ai ragazzi, alla decisione di scrivere qualcosa di più ampio e complesso. Inoltre l'autore, sempre in questa sezione, fa una lucida dichiarazione del suo amore per Mozart, che ha anch'esso una storia...

Mi sono convinta e l'ho comprato.

Il testo ha la struttura ed il piglio narrativo, con momenti di vera e propria suspense, di un romanzo. Il romanzo di Mozart. Non romanzato, però. Melograni è attento a ricostruire, come recita il titolo, la vita e il tempo del musicista, attenendosi soprattutto alle fonti, cioè le lettere che i membri della famiglia Mozart scrissero, in gran parte il carteggio fra Leopold e il figlio, ed altri documenti certi; inoltre egli utilizza testi di biografi e saggisti, quali Abert, Carli-Ballola e Parenti, Einstein, Frullini, Hildesheimer, Kierkegaard, Mila, Paumgartner, Solomon, procedendo a rapidi confronti ed interpretazioni personali, che non appesantiscono la narrazione e segnano dei punti di sintesi nel processo di acquisizione delle conoscenze.

Il percorso narrativo ci introduce nella storia di un'epoca, nel suo contesto sociale ed economico, nella sua vita materiale, resa quasi tangibile.

In questa congerie si muove il Genio e, con lui, si muovono le persone con cui egli ebbe relazione.

Vediamo profilarsi con nettezza soprattutto i rapporti contrastanti e contraddittori con il padre Leopold, che coltiva e protegge il portentoso figliolo, lo lega a sé, lo sfrutta e se lo vede poi sfuggire di mano; il legame affettivo con la sorella, che, più grande di lui, è destinata a essere relegata sempre più in ombra ed è invidiosa del fratello; il vincolo matrimoniale con Constanze, con i suoi trasporti erotici, i suoi alti e bassi, le gelosie e i tradimenti reciproci; e poi gli amici, le figure di alto bordo, i personaggi politici.

Respiriamo quasi fisicamente l'atmosfera del tempo: il caldo, ma soprattutto il freddo, il gelo delle stanze in affitto il buio e i disagi della scarsa illuminazione; il cibo e le bevande, l'acqua inquinata della Senna a Parigi; la medicina, le diagnosi e le cure approssimative: tutto si tocca per così dire con mano.

Soprattutto sono tangibili i rapporti economici e di classe. Mozart, orgoglioso, addirittura superbo, per sua stessa ammissione, quando percepisce di non ricevere la stima che merita, non ha timore per nessuno; e, anche se Melograni lo considera ideologicamente un moderato, seguace della Massoneria senza profonde convinzioni ( ma c' è chi non la pensa così: fra gli altri, Lidia Bramani nel saggio “Mozart massone e rivoluzionario”), rileva che egli non amava i nobili e i potenti; solo che cercava di infrangere individualmente le barriere sociali, in una battaglia personale, non politica.

Consistenti appaiono poi i flussi di denaro, che circolano prima attraverso Mozart e vanno a finire nelle tasche del padre ( il quale pare abbia fatto una fortuna grazie al figlio, senza ricompensarlo adeguatamente ), e poi nella mani dello stesso Wolfgang, che però non seppe amministrarli granché bene.

Il nodo centrale dei rapporti socioeconomici è posto dallo scrittore in una questione, che emerge nell'episodio da lui raccontato nel prologo, che,oltre a farci entrare subito in medias res, senza alcun preambolo, costituisce un assaggio dello stile che presiede alla scrittura di tutto il libro: piglio narrativo deciso e accattivante, interazione e sintesi tra racconto biografico e ricostruzione storica, problematizzazione di alcuni punti, interpretazione ragionata con riferimento alle fonti.

L'episodio di cui qui si parla è l'esibizione al clavicembalo di Wolfgang, a nove anni, e della sorella Nannerl, a quattordici, organizzata dal padre nel luglio del 1765 in una taverna di Londra: un concerto a pagamento, con biglietti a prezzi stracciati, rivolto alla piccola borghesia.

Secondo Melograni il fatto è significativo per due aspetti: prima di tutto, perché segna il momento finale del “bambino prodigio”, che da allora in poi non potrà più essere esibito come tale, per l'età raggiunta; in secondo luogo, perché attesta l'importanza che il mercato dei consumatori assunse per Mozart, cosa che probabilmente nocque al compositore in futuro nei confronti dei potenti, impedendogli di trovare il tanto desiderato posto a corte.

Il nuovo profilo di libero artista che si andava delineando non sarebbe stata una scelta di Mozart, il quale, a detta dello scrittore, che si rifà comunque ai pareri espressi da Elias e da Buscaroli, subì il mercato più che cercarlo. Melograni aggiunge però che il musicista seppe adattarvisi benissimo, cercando il giusto equilibrio fra tradizione e innovazione, genialità, soluzioni avanguardistiche e bisogno di non turbare il pubblico.

I rapporti complessi fra il percorso personale di Mozart, in cui la “rottura” con il padre ha un grande rilievo, e la situazione sociale del tempo vengono acutamente analizzati nel paragrafo “Mozart e il mercato”, alla fine del capitolo “La conquista della libertà”. E illuminanti sono altri paragrafi tematici inseriti negli ultimi capitoli.

Non convince invece il modo in cui l'autore tratta della malattia, morte e sepoltura del compositore, che appare poco articolato e piuttosto sbrigativo. E nemmeno il drastico giudizio sul Requiem, composizione quasi del tutto spuria, secondo Melograni, che non tiene forse nella dovuta considerazione i valori di novità messi in rilievo, pur con contraddizioni, da altri studiosi.

L'autore non si addentra nell'analisi musicale delle creazioni mozartiane, lascia il giudizio ai musicologi; fa tuttavia notare come il talento e il coraggio del compositore gli permettessero di andare oltre gli schemi (non solo musicali) dell' epoca e come la sua musica fosse geniale e fantasiosa e possedesse vitalità ed energia; e ricorda che perfino Schönberg volle riconoscere il suo debito nei confronti di Mozart.

Il teatro è poi affrontato con qualche disomogeneità e con una lettura troppo sbilanciata verso il contenuto ideologico, mentre il valore musicale sembra dato per scontato; e risulta un po' strano che l'ambivalenza, che Melograni rileva giustamente come uno dei tratti caratteristici della musica di Mozart, a proposito del “Don Giovanni” sia messa in relazione esclusivamente con le vicende dei personaggi.

E tuttavia è un libro accattivante, nella narrazione e nella ricerca storica, crea tensione e senza ostentazione dà informazioni preziose, che aiutano a penetrare nel mistero Mozart, un luogo molto esplorato, ma forse inesauribile.


Piero Melograni. WAM. La vita e il tempo di Wolfgang Amadeus Mozart. Editore Laterza. Euro 20.00






02 ottobre 2011

"Semprevivatagliapietra" di Stefano Mariani

di Nadia Davini

Semprevivatagliapietra in tre parole: semplice, veloce, intenso.

Tre aggettivi bastano per descrivere un libro? Se si tratta di un libro schietto, che non lascia niente al caso o all'intuito, tre parole messe in fila l'una accanto all'altro possono ridurre drasticamente il campo della descrizione, concentrandosi così sul significato più umano di questo romanzo, pervaso fin nelle profondità dalla voce di Aldo Tagliapietra.

Canzoni, musiche, parole che hanno attraversato decenni, macinato generazioni su generazioni, lasciando preziosi pezzi di autore come “Gioco di bimba”, la storia di un abuso sessuale perpetrato nei confronti di una ragazza molto giovane che fa da contraltare a un canto e a una sonorità trasognati e fiabeschi. Insomma un omaggio al cantante veneto senza precedenti, un lungo racconto intimo e personale iscritto nella passione per la musica, nelle sofferenze adolescenziali, nella felicità inaspettata e negli interminabili stati depressivi, generati da angoscia e senso di smarrimento.

C'è tutto questo in Semprevivatagliapietra: in poche parole c'è Stefano, con le sue convinzioni più radicate e il suo senso dell'umano, fatto di tolleranza, rispetto per i diversi e gli emarginati, amicizia e uguaglianza sostanziale, oggi così paradossalmente fuori luogo.

Questo libro è insieme una testimonianza, un racconto e una fittissima sequenza di riflessioni legate all'esperienza diretta dell'autore e magistralmente coordinate da una penna che taglia i contenuti e la forma, che la plasma a seconda delle esigenze e la riduce a semplicità narrativa.

Stefano Mariani è un uomo che ama apparire: l'intento però non è tanto quello di scrivere un'autobiografia, ma di presentare in modo organico il suo pensiero e la storia di un giovane. E ciò è stato possibile raccontandosi fin dal periodo della sua formazione: la sua preistoria, ricercando la sua prima età, vivisezionando i ricordi.

Ne è protagonista un giovane studente universitario appassionato di musica, gelosamente legato alla sua chitarra, l'agguerrita Pedro Martinez e turbato da pensieri irrequieti e dalla ripetuta comparsa in sogno del suo cantante preferito che gli rivela strade e percorsi nascosti. Si possono abbandonare le proprie certezze per intraprendere un viaggio verso l'ignoto della propria coscienza? Il protagonista pensa di sì e decide di imbarcarsi sulla sua psico-bolla alla volta di ricordi passati, intense sensazioni lontane e forti emozioni presenti. Col tormento ostinato di ciò che verrà dopo, sempre più distante da quel “Cemento Armato” descritto da Tagliapietra, spazio ideale in cui immaginare i tormenti di un giovane adulto.

Ma Semprevivatagliapietra non è un semplice racconto: il cammino del protagonista è infatti il resoconto di un processo di conoscenza e di crescita interiore. La testimonianza di un progressivo passaggio da una visione superficiale della realtà a una comprensione sempre più profonda e affascinata della propria identità e dignità di uomo immerso nella grande armonia dell'universo.

Grazie a uno stile semplice, a un linguaggio schietto e a una storia avvincente questo libro permetterà di entrare in un mondo complesso dove la spiritualità e l'amore per la musica rappresentano il riscatto della condizione troppo spesso infelice e inquieta dell'essere umano.

Come non ascoltare, quindi, quella innegabile voglia di accendere lo stereo e lasciarsi immergere in una psico-bolla tutta personalizzata costruendo viaggi immaginari e ripercorrendo quei passaggi e quei momenti così intimamente custoditi dentro ognuno di noi?


Stefano Mariani, Semprevivatagliapietra, Marco Del Bucchia editore, Massarosa 2011. pp.130, Euro 12,00


Stefano Mariani è nato, vive e lavora a Lucca. Al suo attivo un romanzo, Al caffè del Tucano, 2001 oltre a vari lavori musicali come chitarrista e compositore.